martedì 1 gennaio 2013

Una poesia di Eros Alesi

La bellissima poesia che Eros Alesi (Ciampino 1951 - Roma 1971) ha dedicato a suo padre è stata definita da alcuni critici una "lettera" o un "testamento", certo è che possiede un'intensità, una drammaticità e un misticismo difficilmente ritrovabili in altri testi poetici; non vi sono dubbi poi sulla sincerità delle parole scritte dal poeta che si suicidò a vent'anni, dopo un periodo di gravi problematiche connesse all'uso di stupefacenti. Forse, l'unico paragone proponibile è quello con un'altra poesia-testamento: Desolazione del povero poeta sentimentale di Sergio Corazzini; le accomuna soprattutto la indiscutibile schiettezza e la consapevolezza della morte imminente, per il resto esistono delle differenze sostanziali, visto che Alesi decise di togliersi la vita mentre Corazzini fu ucciso dalla tisi; c'è poi da evidenziare che Alesi nei suoi versi, altruisticamente si rivolge al padre, la cui figura acquista, grazie alle parole del figlio, una sorta di redenzione. Corazzini invece fa un discorso interiore, concentrato sui propri dolori e i propri lamenti.
La poesia di cui vorrei analizzare il testo è senza titolo, comparve per la prima volta sull'Almanacco dello Specchio n. 3 del 1973; fu poi inserita in varie antologie, tra queste vorrei ricordare le seguenti: Il pubblico della poesia, a cura di A. Berardinelli e F. Cordelli, Lerici, 1975; Poesia degli anni settanta, a cura di A. Porta, Feltrinelli, 1979; Poesia e realtà 1945-2000, a cura di G. Majorino, Tropea, 2000; La poesia italiana oggi, a cura di G. Manacorda, Castelvecchi, 2004.
Straziante è già il secondo verso della lirica, in cui Alesi parla al padre avendo la sicurezza che sia da qualche parte ad ascoltarlo, forse in un mondo ultraterreno: «Tu che ora sei nei pascoli celesti, nei pascoli terreni, nei pascoli marini». Successivamente il poeta insiste sul concetto già espresso, rafforzandolo con dichiarazioni d'amore filiale che probabilmente non ebbe mai modo di fare direttamente al padre, quando era in vita. Sembra quasi che la morte di quest'ultimo non sia mai avvenuta: «Tu che ora sei chiamato morto, cenere, mondezza». Segue una parte in cui Alesi descrive il cambiamento del suo giudizio nei confronti del padre attraverso gli anni, da: «Bello - forte - orgoglioso - sicuro - spavaldo» a «violento, assente, cattivo», le parole del poeta ci mostrano una situazione famigliare particolarmente difficile, col padre che ha perso il controllo della situazione e, con l'uso della violenza, cerca disperatamente di raddrizzare un rapporto (sia col figlio che con la moglie) ormai definitivamente compromesso: «Che vedevo che tu vedevi mia madre allontanarsi. Che vedevo che tu vedevi l'inizio di un normale drammatico sfacelo». Di qui l'abuso di alcol da parte di un uomo che non trova altre alternative alla disperazione e all'allontanamento dei suoi famigliari, un padre orgoglioso, come lo aveva definito Alesi, che rimane solo con sè stesso. La conoscenza della tossicomania del figlio e dell'attesa di un bambino da parte della moglie, che nel frattempo aveva iniziato un rapporto con un altro uomo, non possono che peggiorare le cose, e ancor più le peggiorano il rifiuto totale del poeta alla possibilità di ogni tipo di pacificazione: «Che ho visto che tu hai visto la tua mano stesa in segno di pace, di armistizio. / Che ho visto che tu hai visto sulla tua mano uno sputo». E siamo giunti al momento in cui la composizione poetica raggiunge l'apice della drammaticità: «Che ho visto che hai visto 3 anni passare. Che ho visto che hai visto che il giorno 9-XII-69 non sei venuto a trovarmi al manicomio. Perchè eri morto». Queste parole sono veramente strazianti soprattutto se si pensa che tutto ciò è accaduto veramente; si resta affranti, senza voce. Ma la poesia di Alesi continua con un'altra dichiarazione d'amore illimitato nei confronti del padre, e unisce al suo anche quello di sua madre: «Che ora vedi che io vedo che mia madre rimpiange. ALESI FELICE PADRE DI ALESI EROS». Negli ultimi versi il poeta confessa la sua ennesima fuga verso la solitudine e il suo pessimismo, lo stesso pessimismo che era presente nel padre, dice Alesi: «Che tu vedi che io vedo solo grande grandissimo nero lo stesso nero che io vedevo che tu vedevi. / Che ora continuerai a vedere ciò che io vedo». L'ultimo verso evidenzia un'immedesimazione tra padre e figlio, il poeta pensa alla stessa stregua del padre e vede ciò che vedeva il padre, quasi che la mente e gli occhi non siano più i suoi ma quelli del genitore scomparso.

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