lunedì 13 gennaio 2014

L'inverno in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Ed ecco altre dieci poesie sull'inverno, questa volta però gli autori sono dieci poeti italiani dell'800. Come nelle precedenti anche qui risaltano versi di profonda tristezza e di sentito dolore, ma accanto ad essi si trova dell' altro: la satira di chi descrive la crudele stagione in modo irriverente e originale; la stranezza di chi invoca l'inverno perché stanco delle solite immagini di "splendidi cieli" e di "fronzute piante"; la curiosità di chi osserva una pianta che coraggiosamente fiorisce quando il freddo più è intenso; la rabbia di chi vede la povera gente che non ha né casa né alcun altro rifugio per proteggersi dal gelo e per questo muore per la strada; la fantasia di chi paragona la sua vita all'immagine di un interno nel momento in cui la luce va scemando perché avanza il tramonto invernale; la memoria di chi ricorda un curioso momento famigliare in un inverno lontano nel tempo; la solitudine di chi si ritrova a camminare sui colli Berici e si consola del canto di un uccellino: unica compagnia rimastagli durante la stagione inclemente.




DIARIO
di Vittoria Aganoor (1855-1910)

Piove. Certo laggiù, povero morto, 
è freddo e buio, ma più freddo e buio 
è qui, qui sulla terra, ove le foglie 
son tutte gialle, e van col vento, e cadono, 
cadono, e il cielo copre una gramaglia 
fredda. È quassù l'algore, in questo immenso 
deserto, dove sola una smarrita 
anima va, senza più meta, incontro 
a un'infinita tenebra, sbattuta 
dalla tempesta che non posa, in questo 
inverno di dolore.

(Da "Leggenda eterna", Treves, milano 1900)





IMPRESSIONE
di Evelina Cattermole (nome d'arte: Contessa Lara, 1849-1896)

Nella sala da pranzo ampia e fiorita 
d'antichi arazzi, il sol s'indugia un poco 
in una lista d'oro scolorita, 
mentre scoppietta nel camin il fuoco. 
È un tramonto d'inverno. Ecco la vita. 
Ecco quale vorrei che a poco a poco 
mi fuggisse dagli occhi, scolorita; 
mentre in una quiete ampia e fiorita 
gli ultimi sprazzi ancòr mandasse il fuoco. 

(Da "Nuovi versi", Galli, Milano 1897)





SCUOLA MODERNA
di Antonio Ghislanzoni (1824-1893)

- Al diavolo l'estetica, 
La logica, il buon senso, 
E l'idëal melenso! 
Poichè l'arte pöetica 
Dai vecchi impacci è sciolta, 
Farò il comodo mio.... 
E spero questa volta 
Coi famosi del secolo 
Salire agli astri anch'io. 

- Il verno io canto, il verno, 
La stagione crudele - 
Stanotte il Padre Eterno 
In cima alla montagna 
Ha fatto il lattemiele.... 
E gli Aquiloni batton la campagna. 

- Al piè del Resegone 
Ve'! come il lago fuma 
Immoto, senza schiuma!... 
Visto dal mio balcone 
Il gelido cratère 
Sembra la catinella d'un barbiere 
A cui mancò il sapone. 

- Dalle nuvole rotte 
Il sole ad intervalli 
In berretta da notte 
Mette fuori la faccia stralunata, 
Sbadigliando di noja - 
E frattanto, di neve disgelata 
Sgocciola la tettoia, 
Come il nasuccio d'uno scolaretto 
Che smarrì il fazzoletto. 

- Al margine del fosso 
Sulla morta natura 
Squittisce un pettirosso, 
Coll'aria d'un becchino, 
Che d'una vergin sulla sepoltura 
Legga ghignando un romanzo di Dròz, 
O si sfiati a trillar sull'ottavino 
Un tema di Berliòz. 

- Se scendo all'orticello, 
Cui bieco irride il sole, 
Le assiderate aiuole 
Mi chieggono un mantello.... 
Gli alberi incappucciati 
Come convalescenti 
Ringhiano da dannati: 
Dio! che dolor di denti! 

- Pur, dai gracili steli 
Una pallida rosa piccioletta 
In bianca parrucchetta 
Sfida il rigor dei geli; 
Tanto bella e gentil, che la diresti 
Ai languidi colori, ai tratti mesti, 
La crèola di Balzac, 
Una smilza figura 
Di Dorè, di Kaulbach, 
Una giovin marchesa in miniatura. 
Se non temessi offenderti, 
Piccola Pompadour
Vorrei offrirti un cigaro Cavour! 

- Là, sulla opposta riva, 
Poderosa, anelante, 
Una locomotiva 
Fra i gioghi si allontana, 
Come un tetro elefante 
Che sbuffi il fumo d'un superbo avana. 
E dietro a quella sfilano schierati 
Dieci vagoni in sembianza di abati 
Che vanno al Giubileo 
Grugnendo il Laus Deo

- Sull'ultimo vagone 
Gaia e modesta ascendi, 
O mia nuova Canzone; 
E nella letteraria sinagoga 
Se mai, per caso, apprendi 
Che oggigiorno hanno voga 
Dei carmi così fatti, 
Raccomanda a chi studia pöesia 
Di andare a scuola all'ospedal dei matti.

(Da "Libro proibito", Tipografia Editrice Lombarda, Milano 1878)





INVERNO
di Domenico Gnoli (1838-1915)

Ricordi i campi tepidi, lucidi?
Or su pel monte scote le roveri
cacciando innanzi l'atre nubi
soffio di borea lungo, greve.

Or dove i lieti giorni che corsero
sì brevi? Dove sotto la pergola
la mensa e i gai colloqui e i versi
facili, liberi e i motti e i canti?

La grinza vecchia scote la candida
sua testa, e i grossi ceppi che bruciano
attizza lenta sul camino,
narra le favole e i prischi tempi.

Ed io cavando fuor da la cenere
castagne dolci, l'aureo calice
vuotando, te richiamo e i versi
facili, liberi e i motti e i canti.

(Da "Odi tiberine", Loescher, Torino 1879)





ERA D'INVERNO...
di Olindo Guerrini (1845-1916)

Era d’inverno, tardi, e sedevamo 
Accanto al fuoco, soli, imbarazzati, 
E, parlando del tempo, arrossivamo 
Come due collegiali innamorati. 

Ella chinava gli occhi al suo ricamo, 
Verso il soffitto io li tenea levati; 
Non si direbbe, eppur ci vedevamo 
Meglio che se ci fossimo guardati. 

Ed io pensava - Sol per un sorriso 
Ti darei dell’ingegno i fior più belli 
E il sangue giovanil delle mie vene... - 

Quand’ella si levò pallida in viso, 
Mi cacciò le due man dentro ai capelli 
E - senti - rantolò - ti voglio bene! - 

(Da "Postuma", Zanichelli, Bologna 1889)





SOSPIRI ALL'INVERNO 
di Emilio Praga (1839-1875)

Stanco son io di splendidi 
cieli e fronzute piante; 
mi annoia lo spettacolo 
di una beltà costante; 
venga il dicembre, ed operi 
un cambiamento a vista: 
un grazie al macchinista 
dal petto esalerò. 

Venga il gennaio, il placido 
mese di pioggie e nevi, 
venga, ed io chiuda il guscio: 
oh giorni inerti e brevi, 
vetri appannati, e amabili 
grilli del focolare! 
Voglio l'uscio inchiodare, 
cantar l'inverno io vo'! 

Come cadenze tremule 
di cori in lontananza, 
belle, ridenti, tiepide, 
nella tranquilla stanza 
tornano le memorie 
del luglio e dell'aprile, 
a colorir lo stile 
del pallido pittor. 

E accosciata in un angolo 
al muro crepitante, 
sospirosa e pettegola 
come una vecchia amante, 
la stufa mi consiglia 
a non varcar la soglia, 
e alle dolcezze invoglia 
del solingo lavor. 

Quando la nebbia intorbida 
l'ampia campagna rasa, 
è pur dolce l'immagine 
delle donne di casa: 
le muse son, son gli angeli 
del domestico cielo 
cui della pioggia il velo 
imperla la beltà! 

Le gonne allor bisbigliano 
come selvette in maggio, 
e se il capo ti aggravano 
nuvole di passaggio, 
ascolta... erra uno strascico 
nella vicina stanza? 
Ascolta; e la speranza, 
la fede tornerà. 

Venga il febbraio: ho un piccolo 
vaso di sempre-vivi 
che i vezzi non invidiano 
dei fiorellini estivi; 
ho un uccellino in gabbia, 
un canerin gentile... 
febbraio, marzo, aprile... 
ecco l'estate ancor! 

L'estate ancor!...Fantastico 
mio cor di pellegrino, 
né avran cessato i cantici 
il bardo e il canerino: 
giacché siam quattro in gabbia, 
ed all'amor si beve, 
il mandorlo è una neve, 
la stalattite è un fior! 

(Da "Penombre", Casa Editrice degli Autori-Editori, Milano 1884)





UNA SERATA D'INVERNO 
di Giovanni Prati (1814-1884)

Dovunque io mova sospirando gli occhi, 
spopolata è la terra e l'aer greve. 
Stridemi il passo infido. E a larghi fiocchi 
                          casca la neve. 

Quanta bellezza sotto lei si perde 
di musiche, di raggi e di colori! 
Ahi! come langue sulla terra il verde, 
                          languono i cuori. 

Fuggito è dalle labbra il dolce riso; 
si volgon l'ore desolate e corte; 
pallido e senza lume è il paradiso, 
                          come la morte. 

Io, qui raccolto in solitaria cella, 
al crepitar di quattro tizzi ardenti, 
io penso i giorni dell'età più bella 
                          gioiti e spenti. 

E dalla ricordante anima oppressa 
sale il pianto negli occhi a poco a poco, 
sin che tutto è silenzio, e anch'egli cessa 
                          d'ardere, il foco. 

Oh! torni a noi la primavera e il sole, 
la stagion dei sorrisi e della gioia: 
coronati di rose e di viole 
                          almen si muoia. 

(Da "Poesie varie", Laterza, Bari 1916)





ROSE D'INVERNO
di Mario Rapisardi (1844-1912)

Tu, caro cespo, or ch'ogni ramo intorno
      Vedovo stride al nembo,
      E, come in pio soggiorno,
S'asconde il seme della terra in grembo,

Tu, non già sordo all'invernal tormento,
      Ma generoso e pago,
      Gitti al nemico vento
La fragranza de' fiori, onde sei vago.

Non dissimile io son: contro al cor mio
      Scocca l'odio gli strali
      Avvelenati, ed io
Lieto di mia virtù rido a' miei mali.

E in ogni piaga mia rosseggia un fiore;
      E per ogni saetta
      Fiorisce un verso. O amore.
È questa, e tu te 'l sai, la mia vendetta.

(Da "Le Poesie Religiose", Giannotta, Catania 1895)





NOTTE D'INVERNO
di Alessandro Seveso (?-?)

Girava come pazza,
scrutando dietro i vetri dei caffè,
e pensava: - perché là si gavazza
e di fuori si muore, perché, perché?

E pensava: - de' pranzi,
delle forbite loro imbandizion
a disfamarmi basterian gli avanzi...
È triste il verno, è fredda la stagion.

Tentò l'ultima speme,
pregò i passanti in nome del Signor...
le fecero proposte infami, oscene:
davan pranzi, chiedendo baci e amor.

Nella profonda notte
le membra pel gran gelo intirizzir,
e i lunghi spettri della fame a frotte
vennero, presenziando al suo morir.

Distesa nella via
e coperta di gelido lenzuol,
colla bocca che rigida s'apria
fu trovata al risorgere del sol.

(Dalla rivista «Giustizia», gennaio 1893)





UN MATTINO D'INVERNO SUI COLLI BERICI
di Giacomo Zanella (1820-1888)

Vittorïoso il sol spezza le nebbie,
Che, sgominate, in lieve
Falange si dileguano
Dietro le selve ancor vacue di neve;
E paiono velate monacelle
Che in lenta fila tornino alle celle.

Laggiù nella pianura escon, dal candido
Mar, palagi e tuguri;
Ritti, come fantasime,
Giganteggian dell'alpe i coni oscuri
In lontananza; e luccica, ad imago
D'argentea benda, appiè de' boschi, il lago.

Tutti gli augelli o valicâr l'oceano
O, nelle grotte occulti,
Il grigio ciel sogguardano;
Tu sol, crollando la brina, a' virgulti,
Saltelli, o re delle siepi piccino,
E conforti di canto il mio cammino.

Picciolo alato, alla natura in lagrime
Fedel solo rimasto!
Cosí le spalle volgere
Suole sovente alla sventura il fasto;
E nel tetto dei ricchi, or senza pane,
Ultimo amico il povero rimane.

(Da "Liriche", Vallardi, Milano 1934)

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