venerdì 7 febbraio 2014

Il carnevale in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Le poesie sul carnevale dovrebbero essere allegre ma così non è quasi mai: lo stanno a dimostrare queste dieci composizioni in versi di scrittori italiani ottocenteschi. Chi racconta di tradimenti, chi di vecchiaia, chi di delirii; chi ancora narra di abusi perpetrati da uomini di potere nei confronti dei poveri festanti; chi rimpiange tempi in cui la festa era più entusiasmante e viva; chi cammina lungo le strade con la morte nel cuore e chi si accorge che, perfino una maschera allegra e scanzonata all'apparenza, quale è Arlecchino, in realtà è celatamente trafitta dal dolore.





ER CARNOVALE SMASCHERATO
di Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863)

Nonna, a li tempi ch’èrimo frittura 
e jje sfilamio la conocchia e ’r fuso,
se schiaffava una mmaschera, e cco st’uso
sce fasceva stà bboni e avé ppavura.

Me capischi? È ll’età cquella che scuso:
cos’ha da fà una povera cratura
cuanno sta sgangherata prelatura
nun pò vvéde le mmaschere sur muso?

Leva cuer po’ de mmaschere, che rresta
der Carnovale? un torzo lisscesbrisscio, 
un urinale che nnun abbi vesta.

Ma sti cazzacci cqui ppieni de pisscio
ar Papa j’arivòrteno la testa
come fussi una bboccia ar gioco-lisscio.

(Da "I sonetti romaneschi", vol. II, Lapi, Città di Castello 1886)





NOTTE DI CARNEVALE
di Emilio Praga (1839-1875)


É notte: azzurro il ciel, tonda la luna
che disegna sul lastrico i ritratti
dei comignoli; dormono i tranquilli
umani, e i gatti per le note gronde
sospirano d'amor come i poeti
dell'Arcadia; le orchestre nei teatri
fremono melodie, travolgon balli,
e delle donne, come cigni bianche,
dai palchetti la mostra è generosa.
Qui, sulle piazze il carneval sonnecchia,
e tranne il rombo di qualche carretto
che si perde nei vicoli lontani,
tutto è quiete...

Ma un canto ecco s'innalza,
e un uomo, al muro brancicando, arriva.

- Chi è, chi non è?
Oh povero me!...
Il prete lo giura,
ma nulla io ne so:
chi dice di sì, chi dice di no...
Gli è il coro dei matti che Adamo intonò!

Eppure costì
finiscono i dì:
andrem nella luna,
negli astri, o nel sol?
Non so, ma però mi esercito al vol
ché il vino le aluccie prestarmi può sol.

Ma vedi lassù...
Che avvenne, che fu?
Oh domine!... un gatto
che coda non ha!
É un vecchio ; io lo so : la gelida età
con furti siffatti burlando ci va.

Oh gatto gentil...
ti sono simil!
Che mai non perdetti
da quando fioccò
I figli morir, la moglie spirò...
Ma, basta!... io non dico, non dico di no!"

Povero vecchierello! bevi, bevi,
ché il vin ti accende un lumicin di fede!...
Se il confessor così ti sente e vede
d'ora in poi dall'altar ti caccia via,
e ti manda a buscarti i sacramenti
all'osteria.

Ma or rincasa; gelato è il primo albore;
torna, torna ubbriaco al mesto tetto
che orbò la morte d'ogni tuo diletto;
alzerà il vino un lembo al velo bruno,
rivedrai, brancolando, i tuoi parenti,
ad uno ad uno. 
- Chi sei tu? - Non ricordo...- E il domicilio?...
- Sulla terra! - Ma dove ? - É il mio segreto!
E di seguirmi vi faccio divieto;
or sulla terra, e presto sotto terra,
e presto in cielo...me lo ha detto il vino,
 e il vin non erra! -

Vattene a casa... arrivano i monelli,
la tua canizie burlata non sia;
dimmi, tua moglie la era saggia e pia?
Quante volte avrà pianto al tuo ritorno!
Per la memoria sua la brutta scena
non vegga il giorno.

Si terse una lagrima - poi disse: - o signore,
di tenero cuore - la mamma vi fe'!
Ebben, tante grazie - lasciatemi andare,
io voglio ammazzare - la fame con me.

Quei soldi eran gli ultimi - ed or son bevuti;
accetti i saluti - lasciatemi andar.
Quel bruto d'orefice...- sei lire...un anello!..
sì grosso, sì bello...- mi volle rubar.

L'anel della moglie - mio dolce signore.
un dono del core - che più non vedrò!...
Venduti son gli abiti - del povero Tonio..
la larva di un conio - più in tasca non ho.

Sa lei chi era Tonio? - mio figlio! un bel bruno!
Lavoro e digiuno - l'han fatto morir.
Gli ostieri, sa domine? - son tutti testardi...
" Eh vecchio! gli è tardi - bisogna partir ".

Partire! ma...e l'anima? - sù, lei...che ne dice?
Di un vecchio infelice - la morte cos'è?
Ha fatto i suoi studii? - ebben, che ha imparato?
Se Cristo ha burlato - oh povero me! ".

Partì brancolando. Nel ciel porporino
le pallide stelle svanivano già,
e desta al sussurro di un gaio mattino
dal sonno sorgeva la immensa città.

Le mani affilate, la faccia barbuta
del povero vecchio biancheggiano al sol...
Ma il vecchio la luce del dì non saluta,
e brontola: "Intanto mi esercito al vol!".

(Da "Penombre", Casa Editrice degli Autori-Editori, Milano 1864)





CARNEVALE
di Gaetano Leonello Patuzzi (1841-1909)

POETA
   La più ridente maschera
E la più bella vesta,
La festa - ora e la gioia!
   Domani panni laceri,
La maschera usuale,
Il male - e tetra noia!

ARLECCHINO
   Poesia! la tua nenia
Meglio non val del riso
Sul viso - all'Arlecchino.
   A te diletto è il piangere
Il tuo, l'altrui martire
E l'ire - del destino;
   E il mio diletto è il ridere
Di te, di me, di tutto
Il lutto - universale.

POETA
   Sotto la larva ipocrita
Tu sei dal duol trafitto!

ARLECCHINO
Sta zitto! - è Carnevale.

(Da "Bolle di sapone", Roux e Favale, torino 1878)





DI CARNOVALE
di Arturo Graf (1848-1913)

 Così, simile ad uno
 Spirito fulminato,
Quando il giorno si spegne e nell’arcato
 Cielo s’addensa il bruno

 Aere; a capo basso
 Per le piazze, pei trivi,
Ove si mesce il popolo dei vivi,
 Traggo lo stanco passo.

 A me d’attorno ondeggia
 La moltitudin varia;
Di risa e motti un sonito nell’aria
 Vivo e festoso echeggia.

 Intorno a me di mille
 Fiamme un barbaglio acuto,
E gale e pompe e scintillar minute
 Di gemme e di pupille.

 Erompono dagli atri
 Rumoreggiando i cocchi;
Volan le belle a folgorar con gli occhi
 I lucidi teatri.

Traggono i lieti cori
 Alle ritmiche danze,
Sogni intrecciando, voluttà, speranze,
 Desiderii ed amori.

 Pallido, affranto, muto,
 Tra i felici sol io,
Trascino il passo, memore del mio
 Paradiso perduto.

 E alcuno in me rivolto
 Guata e m’accenna altrui,
E dice: Mira; chi sarà costui
 C’ha la morte nel volto?

(Da "Medusa", Loescher, Torino 1880)





GIÀ LE STELLE SI PERDONO...
di Corrado Ricci (1858-1934)

Già le stelle si perdono a l'aurora
che di luce soave il ciel rischiara;
                      io veglio ancora,
io piango ; intanto a le fulgenti sale
pazzamente s'inneggia al carnevale!

Anch'io teco nel vortice travolto
d'allegre danze, ti vorrei furtivo
                      baciare in volto;
nello sguardo vorrei leggerti il core,
rammentarti vorrei tutto il mio amore!

Descriverti le notti insonni, i pianti
sopra i tuoi fiori amaramente sparsi,
                      i mesti canti
ch'io lagrimando sciolsi, i canti miei
pur lagrimando dirteli vorrei!

Ma tu dormi, che più non t'ange il core
la rimembranza dei passati giorni,
                      del nostro amore...
Già il ciel rischiara la tacita aurora
d'una luce soave e io veglio ancora!

(Da "I miei canti", Zanichelli, Bologna 1880)





CARNEVALE ROMANO
di Enrico Panzacchi (1840-1904)

O stanco carneval, gli allegri suoni
tu désti ancora; ancor sugli alti trampoli
urli pe'l Corso; ancor gridi a' balconi:
            «Fuori! giù, giù coriandoli!»

Ma con te la follia scuote i sonagli
torpidamente! In frotte i bimbi accorrono
meravigliati ai languidi barbagli
            de' suoi grandi occhi ceruli.

O stanco carneval, le vecchie istorie
rammenti? Uscivi dal pagan Lupercolo,
tutti intronando delle tue baldorie
            i vichi di Trastevere;

E le figlie dei papi avidamente
sugl'ignudi giudei correnti il palio
pasceano gli occhi; e il volgo penitente
            sentia più forte i pungoli


contenuti del senso. Aspro il divieto,
piantato a guardia d'ogni umano anelito,
addoppiava le fibre, e via più lieto
            erompeva il tripudio.

Passò stagione, o carnevale stanco;
passò stagione! La consuetudine
pigra or ti spinge; e tu tramuti il fianco
            briaco di cantaridi.

(Da "Poesie", Zanichelli, Bologna 1908)





AL BANCHETTO DELL'AMICO COMM. G. BERTOLDI
di Domenico Carbone (1823-1883)

Io sono il gaio spirto del Boccaccio,
Che, tra uomini allegri, onesti e dotti,
Qui scendo, ogni anno, il dì di berlingaccio,
A novellar d' arrosti e d'agnellotti.

Per vezzo antico volentier mi caccio
Dove ride allegria, .tra cibi ghiotti;
E, genio convivale, io scoppiar faccio
Le celie, i frizzi e i ribattuti motti.

Poi quando, ai fumi del Chianti natio,
S'accende il viso e l'occhio brilla, io godo,
Godo del chiasso e del giovial ciarlio.

Così, l'alito mio diffuso intorno,
In più salde amicizie i cori annodo,
E, piacevoleggiando, al ciel ritorno.

L'ultimo di Carnevale in Firenze, li 21 febbraio 1882

(Da "Poesie", Barbera, Firenze 1885)





CARNEVALE
di Giuseppe Deabate (1857-1928)

Un barbaglio di festa e di mercato,
Un delirio di rauche voci urlanti....
— Ultimo avanzo d'un tripudio andato —
Echeggia e splende in mezzo ad assordanti

Inviti e risa che paiono pianti.
— In un angolo un bimbo accovacciato
Guata dai luminosi occhi imploranti....
Passa la folla indifferente a lato;

E in quell'informe pandemonio strano
Di squallide baracche, ove schiamazza
Tutta l'ebbrezza del cervello umano,

Sferrasi e sale l'ultimo fragore....
Il Carnevale, nato dalla piazza,
Sovra la piazza delirando muore.

(Da "Il canzoniere del villaggio", Casanova, Torino 1897)





GIOVEDÌ GRASSO
di Olindo Guerrini (1845-1916)

I.

Quando il giorno apparì, livido, lento,
tra la nebbia del ciel rannuvolato,
l'ultimo lume per le vie fu spento
e l'ultimo cancan fu galoppato.

Le mascherine allor, col sonnolento
passo e col volto dalla veglia enfiato,
luride di sudor, gialle di stento,
usciron barcollando e senza fiato.

Pierrot, disfatto che mettea spavento,
mezzo briaco e mezzo addormentato,
il ritratto parea del pentimento

e Colombina intanto a lui da lato,
balbettando dicea: «Bada... mi sento...»
E con la testa al muro ha vomitato.


II.

Sotto i cenci di seta entrava il vento
che le carni mordea freddo, spietato,
e la lordura che cadea dal mento
colava a fiotti dentro il sen slacciato.

Il povero Pierrot tutto sgomento,
tossendo le chiedea: «Che cosa è stato?»
e guardava sorpreso il pavimento
dalla compagna sua contaminato.

Poi quando quell'orror fu terminato,
la mascherina si frugò un momento
in sen col fazzoletto ricamato:

indi, ripreso un poco il sentimento,
ruppe in un riso stridulo, ammalato
e sparì urlando: «Ah, che divertimento!»

(Da "Le Rime di Lorenzo Stecchetti", Zanichelli, Bologna 1903)





LA FESTA DA BALLO
di Alfredo Oriani (1852-1909)

Poc'oltre mezzanotte in carnevale,
mentre più ferve delle danze l'ora,
scheletro muto salirò le scale
del tuo palazzo per vederti ancora.

Nelle notturne, fiammeggianti sale
rosea passerai come l'aurora,
ma dai cavi miei occhi un freddo strale
ti colpirà nel cor, bella signora.

E ti dirò, non visto cavaliero
fra tanta luce, d'aurei riflessi:
V'è ballo questa notte in cimitero,
danzano i morti in mezzo dei cipressi.

I fidi amanti van sotto le arcate
per l'ombra avvolti in candidi lenzuoli
e tornano a sognar la grande estate,
odor di rose e canti d' usignuoli.

Vieni. La luna solitaria imbianca
di freddo argento il nostro camposanto;
non ti ricordi? Non ti senti stanca
d'esser sola tu che mi amavi tanto?

Non ti ricordi i baci, i giuramenti
e quello sguardo, che mi ardeva il cuore,
quando toccando colle dita aulenti
le mie ferite sospiravi: «Amore,

amore mio, che fu? Perchè ferito
ti sei a morte, amore mio crudele?
Portami teco o solo mio marito,
o solo amante del mio cor fedele.

Portami teco: il cor non s'impaura
se a te la morte nell'amor sorrise;
eternamente dormirò sicura
sopra il tuo cuore, che per me s'uccise».

Ma lungamente nella tomba attesi
la tua promessa, o nobile signora.
Oh! quante volte ai nuovi morti chiesi
s'eri venuta, s'eri bella ancora.

Bella, infedele ad altri cor suggevi
un altro sangue dalle ree ferite;
o mio vampiro dagli artigli brevi,
o bianca donna dalla faccia mite,

vieni a danzar nel muto cimitero,
poiché danzando non fan chiasso i morti;
non ebbe mai più fido cavaliero superba
dama superba di regali corti.

Ballano dentro quel pallor d'argento
gli spettri avvolti in candidi lenzuoli;
vieni, la danza in lungo avvolgimento
ci rapirà con amorosi voli,

finchè del gallo al terzo canto, quando
l'avara luce noi spiriti caccia,
nel mio sepolcro dormirai posando,
o dolce amor, fra le mie scarne braccia.

Né temere per cosa che ti desti
sciorti più mai dal freddo abbracciamento;
le promesse d'amor che mi facesti,
lassù nel mondo, non le sparse il vento.

Se la stanza nuzial non ha lucerna,
né s'apre al sole che nel ciel rimonta,
non ti lagnare qui nell'ombra eterna
son fidi i morti ed è l'amor senz'onta.

Son fidi i morti. Ancor Francesca al vento
della bufera che giammai non resta,
fra pianti fiochi e voci di lamento,
levando al cielo la superba testa,

guarda i beati nell'eterna brama
lungi da Dio girar pel paradiso,
e stretta al collo dell'amante esclama:
«Questi che mai da me non fia diviso!».


(Da "Monotonie", Cappelli, Bologna 1934)

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