martedì 29 aprile 2014

Le bare nella poesia italiana decadente e simbolista

Le bare sono descritte spesso in movimento verso l'ultima fatale destinazione: il cimitero. Sono l'estrema dimora del corpo esanime e più che mai rappresentano la morte in modo sconvolgente. I poeti mostrano tutta la traumaticità dell'evento mortuario, e sono colpiti soprattutto dalle piccole bare, che naturalmente contengono i corpi dei bambini, ovvero esseri umani scomparsi troppo presto, i quali più di tutti stanno a significare l'assurdità della vita. La morte come unico fatto importante dell'esistenza è simboleggiato proprio da "bare su bare, bare dietro bare" che, una dopo l'altra, si avviano verso Toblack, la città dei morti definita da Corazzini: "ara meravigliosa del mistero", sempre in ansiosa attesa di nuovi arrivi.



LA STRADA DELLE BARE
di Mario Adobati (1889-1919)

Bare su bare, bare dietro bare
nella via polverata. Sempre nere
bare velate nei tramonti. Chiare
vesti i mandorli lasciano cadere.

Cavalli neri e bardature bianche.
Cavalli bianchi e bardature nere.
Nelle stagioni vanno a torme stanche,
pesantemente, senza sonagliere.

Rosse bare d'eroi, bare di bimbi
serene come volti di vegliardi.
Bacche scarlatte incendiano a corimbi
le siepi sopra il tremolio dei cardi.

Aquile rotano nel cielo greve
di nuvole. Le strida dei rapaci
svariano. Cade qualche piuma lieve.
L'orizzonte è in un cerchio di fornaci.

Anemoni in cui bevono gli uccelli
notturni strane gocciole di piogge
lontane tremano. Come gli avelli
scoperchiati respirano le logge.

Un colore funereo rapprende
i luoghi come i volti dei malati
senza speranza. Un lume a tratti splende
per gli sterpeti folli e desolati.

Che cerca quel viandante? Bare dietro
bare, bare su bare, Péste sorde
di cavalli sbandati. Un cupo metro
di canti. Un'eco sempre più discorde.

Gracidano le rane e fanno cori
striduli tra ogni zampa ed ogni ruota.
Gli zoccoli calpestano sonori
e le serpi rimovono la mota.

Eternamente, come per condanna
si seguono i convogli senza fine.
I pastori con zufoli di canna
a sette fóri sono alle colline.

Una piana lor nenia pastorale
fanno. A prodigio lasciano ogni velo
tutte le bare e come in ampie scale
di cenere dirompono pel cielo.

I cavalli s'accosciano. Le bare
sono lungi. La notte oi suoi vessilli
dispiega con un nero fluttuare.
Gli usignoli gareggiano coi grilli.

Tutto affonda. Il mistero della notte
ha il suo segreto. Pallidi, seduti
su le prode, gli amanti ignari frotte
d'uccelli seguono con gli occhi muti.

Il vento irrompe e tosto nubi vanno
sparse, striscianti. I giovani e le belle
alzano i volti. Gioie più non sanno.
Tra nube e nube contano le stelle.

(Da "I cipressi e le sorgenti",  Tip. C. Conti & C., Bergamo 1919)





ORE TRISTI 
di Vittoria Aganoor (1855-1910)

Sotto la pioggia, incontro al vento, passa 
una bara; la portano 
in fretta al camposanto, 
e la buffa ogni tanto 
il nero drappo irreverente squassa 
con derisorio sibilo. 
Ritti sul fango nero 
lungo le vie fuggenti 
croci i fanali sembrano, 
le case monumenti 
d'un lungo cimitero. 

Chi si ricorda più l'aprile, i prati 
verdi, e l'azzurro, e i mandorli 
rosei per la campagna? 
giù la pioggia si lagna, 
in alto è un mar di nuvoli serrati 
e qui dentro una lugubre 
calma, e qui tutto tace 
come in vòta dimora; 
non risa, o canto, o fremito 
di scossa onda sonora; 
è dei chiostri la pace. 

Pace d'anime stanche e di languenti 
fibre, domate al fervido 
martellar dell'affanno, 
che più lottar non sanno 
ma sdegnano i lamenti; 
pace d'antico tumulo 
abbandonato e infranto 
su cui l'ortica crebbe; 
desolato silenzio 
cui men triste sarebbe 
uno scoppio di pianto.

(Da "Leggenda eterna", Treves, Milano 1900)





PICCOLA BARA
di Francesco Cazzamini Mussi (1888-1954)

Stamani ella è morta.
Alla porta
guardavano i bimbi, stupiti...
La morte ?
Com'era, dov'era la morte?
Posava la piccola morta
esangue, stecchita, di cera...
Al vento di marzo esitavano
i peschi fioriti,
e alcuni, tra essi, i più arditi,
toccavano il davanzale,
per salutarti
e per farti,
o bimba, il guanciale.

O bimba, che almeno tu possa,
tranquilla, dormire, la testa
sui fiori che odorano freschi,
sul cuore
l'immenso dolore
di mamma, che almeno tu possa,
vestita del dì della festa,
sognare che questa
che lasci, la vita,
è come una favola bella,
veduta attraverso l'amore,
così, di sfuggita...

Tu pura ritorni
di dove venisti: dal nulla
nel nulla.
Un fiore s'aperse, si chiuse.
La mamma, sola, s'illuse,
cantando, alla culla.
E tu come un sogno passavi.
Non anni, i tuoi, ma dei giorni
soavi.

I ceri t'han messo vicino,
piangendo t'hanno vestita,
per farti men triste il cammino
che lascia la vita...

Ma dove la morte? Chi dice
morire?
Tu dormi, tranquilla.

Da presso ti veglia e scintilla
la luce dei ceri.
Domani più freddi, più neri
ti veglieranno i cipressi.
Ma dolce, sott'essi, —
o tu felice! —
dormire.

Ma quelli che lasci, ma quella
che piange, ed a stento sostiene
il volto tra l'aride mani?
E tu, sorridile, bella.
E dille: non siamo lontani,
se nel ricordo è il tuo bene...

Sfiorasti la vita, sfiorasti
gli inutili odi e gli amori
che durano un dì.

O piccola bara
che salpi tra i fiori,
non forse la vita è più cara
così?

(Da "Le allee solitarie", Ricciardi, Napoli 1920)





PICCOLA BARA
di Giovanni Cena (1870-1917)

In riva al mare opaco io vedo andare 
un marinaro con un passo stanco: 
porta una bara sotto il braccio manco 
come una culla e con lui piange il mare. 

Segue una donna pallida che pare 
una morente e tre bambini a fianco: 
guardano il cielo in oriente bianco 
ed hanno risi le pupille ignare. 

Lungo la diga dove il mar si frange, 
dove si frange il mare opaco e nero 
la triste comitiva si dilunga. 

Oh quant'è quella strada eguale e lunga! 
Dov'è, dov'è l'antico cimitero? 
Là giù, tranquillo in riva al mar che piange. 

(Da "In umbra", Streglio, Torino 1899)





TOBLACK
di Sergio Corazzini (1886-1907)

... E bare e bare senza tregua; aperti
sono sempre i cancelli, o cimitero
ara meravigliosa del mistero,
sacrificante ai cieli alti e deserti!

E bare bare senza tregua; esperti
sono i tetri cancelli nel pensiero
della morte, e ben sanno che del Vero
sono i custodi più sicuri e certi.

Cimitero che attendi e che disperi
nell'attesa, abbi pace, accoglierai
tutti, col tempo, e forse non avrai

terra a bastanza, e non daran le buone
primavere bastevoli corone,
cimitero che attendi e che disperi.

(Da "Poesie edite e inedite", Einaudi, Torino 1968)





«NOVIZIA DEL NULLA»
di Giulio Gianelli (1879-1914)

Oh malinconia!
Novizia del nulla
vestita di bianco
la portano via.

Oh malinconia!
Con ritmo di culla
monotono e stanco
la bara s'avvia.

(Veicolo strano
la bara va piano
perché il suo cammino
è un altro destino
più triste e più vano.)

Ma giunta al confine  la bara s'arresta
la piccola morta  solleva la testa
si trova risorta  per sempre di là

C'è un mare infinito  color della sera
La cassa diventa  una barca veliera
che scivola in mare  che rapida va

portata lontano  da un vento che piange
soffiando nel nulla,  da un'onda che frange

(Da "Tutte le poesie" di Giulio Gianelli, IPL, Milano 1973)





LA VIA DELLA CERTOSA
di Corrado Govoni (1884-1965)

Strada disabitata, in mezzo a gli orti
pieni di fiori e di malinconia,
strada che mena al soggiorno dei morti
che frequenta la mia nostalgia:

strada silenziosa, dove l'erba
prospera come in vecchio monastero,
solitaria straducola, che serba
come un sentor di ceri e di mistero.

Quante bare passarono, per questa
via da cui non si ritorna mai!
quante bare emigrarono a la mesta
devozione dei funebri rosai!

Talune erano simili ad altari
di festa (oh come bianche le corone!);
ed eran altre simili a calvari
di lutto, e senza alcuna orazione:

strette casse di gracili fanciulli
morti tra i fiori, morti d'etisia,
corpicciuoli ravvolti in fini tulli
di amare lacrime e di liturgia;

lunghe casse di poveri mendichi
la cui vita fu un'agonia lenta:
vecchi senza famiglia, mendichi
di cui nessuno piange e si rammenta.

O tristezza d'andare al camposanto
senza la compagnia di qualche fiore,
tristezza de la bara senza pianto
che procede per l'ultime dimore!

La stradicciuola è stretta in mezzo a gli orti
pieni di rose e di malinconia...
Oh pensate, pensate a tutti i morti
che passarono lungo questa via!

(Da "Armonia in grigio et in silenzio", Lumachi, Firenze 1903)





LE BARE
di Enzo Marcellusi (1886-1962)

Mi piacevano in lei il rigido e molle
andamento di vergine e quella chiarezza
degli occhi, che dà allo sguardo un'indefinita larghezza.
Quando pregava, la sua pietà mi rendeva folle.

Quante stagioni dai nostri capi innocenti
vedemmo fuggire? La primavera, che illude
ahi me! come la giovinezza, le piegò sulle braccia nude
i suoi liquidi cieli, sospirando fiumi e venti

entro i larghissimi pesanti roseti
dei capelli, come
nell'AUREA CATENA di Dante Gabriele Rossetti (ohi! nome
d'arcangelo fra due nomi di poeti).

...Dopo tanti anni d'amore, la catena s'infranse.
La vita mostruosa ghermì nei freddi artigli
colei che m'amava e che amavo. Ma non le videro tra i cigli
la lagrima nera, quando sulla nuziale corona ella pianse?

Lontana, - il fantasma d'una felicità improbabile
divenne il signor trismegista del mio castello: e, alla fresca
aura d'aprile, i gufi cantavano la ballata grottesca
e piagnucolosa; molto amara e, anche, un po' adorabile.

Poi, nell'inverno, le sale della mia reggia
furono aperte a donne lussuriose, dipinte, discinte,
e tutte io nelle sconvolte alcove ho vinte,
per uccidere un ricordo di purezza.

Trista e triste la mia dotta, la mia strana, la mia torbida vita!
E vana!... Se levo gli occhi dalla tortura insidiosa
delle pagine, - sopravi la fronte posa,
ansante amazzone tramortita -,

io vedo una processione di bare.
Dinnanzi crucifera va una bara più nera!
E rivedo la mia stanza di bambino, severa,
a settentrione, con due finestre verso il mare.

Dalla strada giunge un cupo ritmo di martello:
- tra le flaccide fibre dell'abete i chiodi
scivolano, stridendo ai rossi nodi
del legno. - Notte. La cassa non ha, ancora, il suo coperchio-suggello.

Come allora, cantando, l'oscuro operaio
adempie la tragica bisogna. Come allora,
mi levo sulla coltre, che odora
di bontà materna, e ne fo saio

al mio corpo tremante, e corro ad affacciarmi per meglio
vedere, per udire più dappresso
il lugubre rombo, confuso nel battito stesso
del cuore fattosi adulto, umiliato, perplesso.
E paurosamente veglio.

(Da "Intensità Encausti", Arti grafiche, Chieti 1920)





LE BARE
di Tito Marrone (1882-1967)

Perché chiudere la porta
dietro la bara che se ne va?
Forse così nessuna cosa morta
dentro la casa, dopo, resterà?

Ah, quando co' suoi fiori,
co' suoi ceri,
con le preci pe' i defunti,
co' visi smunti e con le vesti nere
degli accompagnatori,
per sempre il povero
morto se ne va;
quando il piccolo feretro,
l'umile compagnia
hanno voltato di là dall'ultima
casa della via,
non chiudete la porta!
Se quello che vi lascia
tornasse indietro,
invisibile, per rivedervi un momento...
che sgomento
trovar la porta chiusa,
la sua porta chiusa;
e non poterla aprire,
e doversene andare!

Non temete la bara
che non rientra
- ed è una sola! -
voi che ne avete tante
vicine, occulte e non se ne dipartono!
Amen, per quelle che partono;
amen, per quelle che restano
sempre e dovunque,
nel piacere nel dolore,
presso il nostro desco,
sotto il nostro letto,
o già seppellite nel cuore!

Non temete le bare
che non tornano indietro,
efimeri viventi della terra!
Tregua alla vostra guerra
breve: aspettate in pace.

Dolce, una notte
di maggio, navigare l'infinito,
fraternamente
giacendo nella stessa
bara, la madre Terra,
compagni forse d'altri morti ignoti
composti in altre
bare sorelle,
verso un cimitero fiorito
di stelle di stelle di stelle.

(Dalla rivista «Riviera ligure», novembre 1905)





FUNERALE
di Edoardo Mottini (1884-1935)

Il nero forno sforna un biscotto,
un biscotto dorato, con la croce;
ma l'odore non è di pasta fina,
è un odore di cera e di cantina.
E il dolce è secco, rotola sui rulli
con un rimbombo sordo. Sei garzoni
l'hanno afferrato per le sei maniglie,
lo imbucano nel gurge della chiesa
ove il gran pasticcere lo conforta
col cognac extra dell'asperges teso.

Presto, presto, che il dolce non infrolli!
Cantando l'inno, al lume di candele,
lo si deponga sul desco fiorito
del vermineo convito!

(Da "Rose nel pruneto", Taddei, Ferrara 1921) 





IL GAIO EBANISTA
di Térésah (1877-1964)

Son belle le tue bare: hai gusto ed arte
per adornarci la dimora: trista
non vuolsi compagnia, quando si parte!

Son belle, chiare, tappezzate in vista
del lungo sonno con pesanti rasi,
i fregi ne scolpì buon ebanista.

Forse tu, quello? Oh narrami i tuoi casi.
Eri tu che cantare udii stamane,
sì che stupita io non credetti quasi?

Niuno canta pel suo duro pane
in questa casa: il vecchierel non canta
mentre mischiando va le pozzolane;

lo spaccapietre tra la selce infranta
tace, che troppo il suo martel l'assorda;
tace nel vico la campana santa.

Tu cantavi, stamane! Eri una corda
stridula di chitarra indemoniata,
una cicala che nel sol si scorda.

Cantavi lieto della tua giornata
che non fé grave, del tuo bel lavoro;
cantavi... Ma non hai l'innamorata?

Le facevi, coi morti, il vezzo d'oro.

(Da "Il cuore e il destino", Carabba, Lanciano 1911)

Nessun commento:

Posta un commento