martedì 28 luglio 2015

Le figure dimesse nella poesia italiana decadente e simbolista

Sono personaggi solitari, isolati dal mondo per scelta o per circostanze avverse; per loro i poeti mostrano grande simpatia e spesso pietà. Quasi tutti vogliono rappresentare la sconfitta, la rassegnazione, la perdita di tutto: affetti, cose, speranze. In alcuni casi però si nota una certa fierezza dell'uomo o della donna che, contro tutto e tutti vive una situazione sfavorevole e trova in tale stato la consapevolezza di essere, per alcuni versi, un eroe incompreso. Non mancano figure misteriose, che a volte svolgono un lavoro monotono e continuo, a volte sembrano immerse in una sorta di esistenza mistica, la quale si conclude in modo talmente sorprendente da lasciare il lettore (e forse anche il poeta) incapace di dare una qualsiasi spiegazione alla vicenda.



Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "Il saggio della selva" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Pier Angelo Baratono: "I perversi" in "Sparvieri" (1900).
Enrico Cavacchioli: "La vedetta" e "Litanie del silenzio" in "L'Incubo Velato" (1906).
Giovanni Croce: "Frati" in "L'anima di Torino" (1911).
Auro D'Alba: "Il suonatore ambulante innamorato delle stelle" in "I Poeti Futuristi" (1912).
Federico De Maria: "Il Beduino" in "Le Canzoni Rosse" (1904).
Federico De Maria: "Lo scemo" in «Poesia», novembre 1908.
Marcus De Rubris: "­Zingani" in "La Veglia" (1910).
Giuliano Donati Pétteni: "Rassegnazioni" in "Intimità" (1926).
Aldo Fumagalli: "Buio:.. gente che passa per la via deserta" in "Arcate" (1913).
Diego Garoglio: "L'esule" in "Sovra bel fiume d'Arno" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Attesa materna" in «Nuova Antologia», gennaio 1908.
Domenico Gnoli: "La vecchietta dell'alpe" in "I canti del Palatino. Nuove solitudini" (1923).
Corrado Govoni "Contraddizione" e "La mendicante" in "Gli aborti" (1907).
Guido Gozzano: «Historia» in "Poesie e prose" (1961).
Giuseppe Lipparini: "Elena" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Tito Marrone: "Crisalide" in «Poesia», gennaio 1906.
Pietro Mastri: "Accoccolato lì, come una balla" e "Le scolte" in "La Meridiana" (1920).
Ada Negri: "L'Errante" in "Dal profondo" (1910).
Giovanni Pascoli: "La cucitrice" in "Myricae" (1900).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "L'amante ignota" in "Il Libro dei Frammenti" (1895).
Guido Ruberti: "La Devota" in "Le Evocazioni" (1909).
Domenico Tumiati: "L'organista ambulante" in "Liriche" (1937).
Aurelio Ugolini: "L'uomo-orchestra" in "Viburna" (1905).
Carlo Vallini: "Lo scriba" in "Un giorno e altre poesie" (1967).
Remigio Zena: "La mendicante" in "Le Pellegrine" (1894).




Testi

LA VEDETTA
di Enrico Cavacchioli

- Suggesti il latte, o mio tenero amore!
Non pianger più. Non pianger più. Ritorna
il sogno a carezzare il tuo dolore. -

Ora il cielo di nubi alte s'adorna
e tu, Vedetta, per i baluardi
rimi il passo che sa per dove aggiorna,

rimi il canto che sa ritmi beffardi
e col battito triste del tuo cuore
pensi alla terra, al sole e non lo guardi,

e non l'invochi per il tuo terrore!

*

- O ninna-nanna, o ninna-nanna, o ninna-
nanna, la bimba s'è tutta ferita:
sentite il grido suo come tintinna?

Quale dolcezza non l'avrà smarrita?
E qual silenzio nella culla lenta,
lenta, non mai l'avrà ringiovanita?

O ninna-nanna, o ninna-nanna, è spenta
l'ultima luce che t'avèa protetto,
l'ultimo sogno che t'avèa redenta;

non ò culla: il cielo è violetto...

*

Come zirlano i grilli! Il mare immenso
venta alle tamerici; il suo sospiro
salmastro sale su come un incenso..

Una vela che trema, in lento giro
disperde l'occhio vigile del fiocco
malinconicamente; il suo respiro

sembra ansimare dietro allo scirocco
che la frusta, la fa rabbrividire,
stirare con un fulmine di schiocco.

Ed un gabbiano grida. L'imbrunire.

*

O Vedetta vagante, muta e sola
nell'ombra in cui la luce si riposa
quale pensasti mai dolce parola?

Quale sorella in abito da sposa
vedesti comparire, tra le reti
dei pescatori? Quale lacrimosa

storia di monachelle e di roseti
nella quiete or vedi interlunare?
Ànno le stelle un lento tremolare,

anche tu fremi come li albereti.

*

Un grido sale: - All'erta sentinella!
Passa una barca rapida, fuggente,
e la notte l'avvolge nella bella

capellatura, aurina, iridescente.
Un passo si confonde, si diffonde
quasi sfiorato, quasi non si sente,

ed il tuo sogno va, per le profonde
immensità lontane che non so:
ma la tua voce lugubre risponde

velatamente, sola: - All'erta sto!

(Da "L'incubo velato", 1906)





ACCOCCOLATO LÌ, COME UNA BALLA
di Pietro Mastri

Accoccolato lì, come una balla
di cenci, ad uno stipite
della sua catapecchia,
si còce al sole. Come un lento pendolo
in bilico fra l'una e l'altra spalla,
dondola il capo, che ha mozza un'orecchia.

Dondola il capo non ancora adulto,
segnato a sangue e lividi
dai sassi della via nelle cadute,
di schianto giù, tutto il corpo in sussulto
che si sbatacchia e nella strozza un mugolo
rotto e la bava sulle labbra mute.

Dondola il capo. Pur d'udire il sincrono
ritmo: tic-tac, tic-tac... Ei, no, non l'ode.
Gli scorre il tempo, dentro, come un tacito
fiume notturno, che non abbia prode.

Per ore ed ore ed ore. Innanzi, il borgo
tace nel solleone che lo sgretola:
un buffo d'afa alza talvolta un gorgo
vorticoso di polvere.

Di tanto in tanto per l'arsiccia strada
passa una pésta grave, un trotto rapido,
un tardo scalpiccìo; schiamazza un sùbito
irromper di fanciulli... Egli non bada.

(E chi gli bada, a lui?). Bada alle mosche.
Ronzano a sciami intorno. Egli ne sèguita
il volo, a collo torto, con le losche
pupille, opache, di vitello morto.

E ride loro. E dalla bocca flaccida
squittiscon suoni che non son loquela
umana, - dalla crepa ove la sciabbia
viscida fila una sua ragnatela.

Scaglia una mano all'aria con fulmineo
gesto, a tratti, e una mosca acchiappa a volo.
Di sulla palma se la trae col solo
scorrere delle dita abili e caute.

L'ha fra il pollice e l'indice.
La guarda un poco. E poi... là, fra due denti,
l'acciacca... E intanto, mentre il capo dondola
coi bovini occhi spenti,

con quell'orecchia mozza,
dondola senza posa come un pendolo,
il suo riso gorgozza.

(Da "La Meridiana", 1920)





L'UOMO-ORCHESTRA
di Aurelio Ugolini

Come una polverosa
cicala che s'inebria alla gran fersa
del bollente meriggio e, senza posa,
inni dalle stridenti elitre versa;

per le dorate vie
fra gli obliqui veicoli, ridesta
la verde vision delle natie
valli, squassando i magri arti e la testa.

A un singulto di pelli
concave, a un formidabile clangore
di dischi, a uno scrollar di campanelli,
sporgono visi ai davanzali in fiore.

Ma invan, gialla di tedi
infiniti e scavata dalla fame,
leva la faccia ad ora ad or, se a' piedi
il tintinno oda e il rimbalzar del rame.

Agli occhi avidi innanzi,
le redolenti canove e le dapi
onde ricca è la via, passano e i manzi
sanguinolenti fra il ronzio dell'api.

E, mentre dall'interno
delle cucine fumide e vermiglie
giungegli — è il mezzodì — quasi uno scherno
stridulo di posate e di stoviglie;

Tantalo vero, umana
cariatide, ei va sotto gl'immoti
dardi del sole e lento s'allontana,
trempellando co' suoi due ventri vuoti.


(Da "Viburna", 1905)



Pierre Puvis de Chavannes,  "The Poor Fisherman"

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