domenica 19 marzo 2017

Ho paura, la sera

Ho paura la sera
solo all’imbrunire
quando s’aggrava
sulla mia anima il peso
della tristezza, ho paura
di traversare la strada,

che non s’allenti in quell’attimo
la mia ultima presa
alla vita; e una volontà
di sonno, più forte
di tutto, mi stenda
sul letto d’asfalto.



Questa breve poesia di Giorgio Vigolo fa parte della raccolta intitolata La luce ricorda, edita da Mondadori nel 1967. In questo libro, il poeta romano radunò gran parte dei versi che fino ad allora aveva pubblicato, con l'aggiunta di una sezione inedita: Nuove poesie. Ho paura, la sera fa parte della sezione: Amico di Caronte, datata 1947, e fu pubblicata per la prima volta nel volume Linea della vita (Mondadori, Milano 1949).
La poesia è, principalmente, una confessione del poeta, che esprime, ammette, dichiara una sua profonda paura. Vigolo, romano, vissuto sempre o quasi nella capitale italiana, conoscitore dei segreti più reconditi della sua città, probabilmente nel corso delle frequenti passeggiate per le strade del centro che aveva l'abitudine di fare (come si evince anche da molte sue prose), si accorge di avere un malessere esistenziale. È un senso forte di tristezza quello che prova il poeta, soprattutto verso l'imbrunire, quando la luce del sole va scomparendo e si addensano le prime ombre della sera. In questi momenti l'uomo, già tormentato da precedenti dolori e da numerose delusioni, teme di perdere la sua "ultima presa / alla vita": quell'istinto di sopravvivenza che abbiamo tutti, e che ci spinge ad andare avanti anche tra mille difficoltà, perché la forza della vita è superiore rispetto a quella, contraria, della morte. La presenza, sulle strade, proprio in quelle ore crepuscolari, di un cospicuo numero di autoveicoli, fa sì che Vigolo pensi, per un attimo, all'idea di gettarsi sull'asfalto all'improvviso e, in pochi secondi, farla per sempre finita. Il poeta in questo contesto parla di "una volontà / di sonno": quel sonno eterno che è, fondamentalmente, la morte. In altri testi, Vigolo, espone questa sua preferenza per il "sonno", quale salvagente dai dolori e rifugio dalla tristezza e dalla stanchezza. Sempre riguardo al sonno come anticipo della morte e fuga dalla vita, mi vengono in mente due bellissimi passi di altrettanti racconti. Il primo, di Jack London, è tratto da Martin Eden:

«Improvvisamente si accorse di quanto fosse disperata la sua situazione. Con occhi limpidi vide che era entrato nella Valle delle Ombre. Tutta la vita che ancora gli restava svaniva, si dileguava, lo avviava verso la morte. S'accorse di quanto a lungo dormisse ormai, del bisogno che aveva di dormire. Una volta odiava il sonno, perché lo derubava di preziosi momenti, in cui avrebbe potuto vivere. Dormire quattro ore su ventiquattro voleva dire essere derubato di quattro ore di vita. Com'era rammaricato per quel sonno! Adesso invece era la vita che non gli andava più. La vita non era più buona, e gli lasciava in bocca un gusto amaro. Ecco il suo pericolo. La vita che non tendeva verso la vita era sul punto di estinguersi».

Il secondo (e qui concludo) è di Carlo Cassola e fa parte de Il taglio del bosco:


«Precipitare nel buio del sonno era quanto di meglio gli restava. Quando Guglielmo sentiva il sonno venire, era contento, perché per qualche ora sarebbe stato liberato da ogni pensiero, e perché un altro giorno era passato. A uno a uno i giorni passavano, e i mesi e gli anni restavano dietro le spalle. Aveva trentott'anni; non era lontano il traguardo dei quaranta, passato il quale sarebbe stato un uomo maturo, quasi una persona anziana».

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