sabato 15 aprile 2017

Drogo, il capitano Giovanni Drogo, risale a cavallo la ripida strada...

Drogo, il capitano Giovanni Drogo, risale a cavallo la ripida strada che dalla pianura mena alla Fortezza Bastiani. Ha avuto un mese di licenza ma dopo venti giorni già se ne ritorna; la città gli è oramai diventata completamente estranea, i vecchi amici hanno fatto strada, occupano posizioni importanti e lo salutano frettolosamente come un ufficiale qualsiasi. Anche la sua casa, che pure Drogo continua ad amare, gli riempie l’animo, quando lui ci ritorna, di una pena difficile a dire.
La casa è quasi ogni volta deserta, la stanza della mamma è vuota per sempre, i fratelli sono perennemente in giro, uno si è sposato e abita in una diversa città, un altro continua a viaggiare, nelle sale non ci sono più segni di vita familiare, le voci risuonano esageratamente, e aprire le finestre al sole non basta.
Così Drogo ancora una volta risale la valle della Fortezza ed ha quindici anni da vivere in meno. Purtroppo egli non si sente gran che cambiato, il tempo è fuggito tanto velocemente che l’animo non è riuscito a invecchiare. E per quanto l’orgasmo oscuro delle ore che passano si faccia ogni giorno più grande, Drogo si ostina nella illusione che l’importante sia ancora da cominciare. Giovanni aspetta paziente la sua ora che non è mai venuta, non pensa che il futuro si è terribilmente accorciato, non è più come una volta quando il tempo avvenire gli poteva sembrare un periodo immenso, una ricchezza inesauribile che non si rischiava niente a sperperare. Eppure un giorno si è accorto che da parecchio tempo non andava più a cavalcare sulla spianata dietro alla Fortezza.
Si è accorto anzi di non averne nessuna voglia e che negli ultimi mesi (chissà da quanto esattamente?) non faceva più le scale di corsa a due a due. Sciocchezze, ha pensato, fisicamente si sentiva sempre lo stesso, tutto stava a ricominciare, non c’era neppure dubbio; una prova sarebbe stata ridicolmente superflua.




Questo frammento l'ho estratto dal capitolo XXV del bellissimo romanzo di Dino Buzzati (1906-1972): Il deserto dei Tartari (Mondadori, Milano 1945). È uno dei momenti più profondi e significativi del racconto, perché il protagonista, ormai invecchiato, inconsapevolmente sta perdendo la sua vita in un'attesa frustrante di qualcosa che mai verrà. Incapace di cogliere gli indizi del suo totale fallimento, nemmeno riesce a percepire fino in fondo che il tempo a sua disposizione sta per scadere (di lì a poco si ammalerà e morirà lontano da tutti). Ormai è solo, senza affetti (la mamma è morta, non ha una donna al suo fianco e nemmeno i fratelli si ricordano più di lui), con le ultime speranze che gli sono rimaste di una vita militare gloriosa, che però ancora non s'intravede all'orizzonte... e sta ormai per arrivare la sera. Si parla, in fondo, della vita di molti esseri umani, che passa nella speranza di un futuro migliore, di una felicità prossima a venire, e che, alla fine, si conclude senza nessuna soddisfazione. Il tempo è passato lentamente, ma, come si suole dire, inesorabilmente; anche se per noi ciò non sembra possibile, poiché nel nostro animo perdura quella sensazione giovanile, quell'istinto di sopravvivenza, che ci fa sembrare la vita come qualcosa che duri all'infinito. Ci convinciamo che il meglio sta ancora davanti a noi, anche se la nostra età è avanzata, e la vecchiaia è ad un passo; eppure siamo sicuri che la nostra esistenza ci serberà chissà quali sorprese... Ma in realtà, ad aspettarci, molto spesso sono soltanto le malattie e la morte.

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