domenica 23 aprile 2017

La gondola come simbolo di morte nella letteratura decadente e simbolista

La gondola, caratteristica imbarcazione veneziana, in certa letteratura decadente e simbolista, diventò simbolo di morte. Lo attestano dei versi e delle prose pubblicate tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Ecco due esempi che confermano questa tesi. Il primo è un sonetto di Alessandro Varaldo (1876-1953), tratto dal Il 1° Libro dei Trittici (Tipografia di Pietro Gibelli, Bordighera): opera poetica decisamente sui generis uscita nel 1897 , in cui sono presenti poesie in forma di sonetto "a tema" dell'autore menzionato, di Alessandro Giribaldi (1874-1928) e di Mario Malfettani (1875-1911). Originale è anche l'impaginazione orizzontale dei testi. Poco conosciuto, questo libriccino è da considerarsi tra i più riusciti nell'ambito della poesia simbolista italiana. 


LA GONDOLA DAL LETTO DI ROSE

Passano i morti solo in questa pace
sopra quest'acque nere e lentamente?
Forse scorre veloce una silente
gondola di giustizia o di fallace

vendetta? Sul Canale Orfano sente
il marinaio un tremito: si tace
ogni canto, ogni bacio in questa pace
funebre: stanno le civette intente.

Ma una gondola passa in un istante
di terrore ed à rose in su i cuscini;
rose bianche d'amore e di desio,

e scorre sopra tanti morti e tante
vendette sola poi che ai mattutini
sogni i fantasmi cantano l'addio.



La poesia di Varaldo si trova nel capitolo intitolato Trittico de le acque ed è quanto mai misteriosa: la prima quartina è composta da domande inquietanti relative ad un non ben definito passaggio sulle acque scure del canale veneziano; forse di morti, oppure, di una gondola che simboleggi la giustizia o la vendetta. Il canale, definito "orfano", è circondato da un grande silenzio, da una pace "funebre". Poi l'apparizione terrificante della gondola che ha, al suo interno, dei cuscini ed un letto di rose bianche (esse, come dice il testo, simboleggiano amore e desiderio). L'ultima terzina del sonetto è inesplicabile: parla del passaggio solitario dell'imbarcazione sopra le acque che coprono tanti morti e tante vendette; quel "poiché" dell'ultimo verso sembrerebbe spiegare il motivo di tale passaggio nel fatto che i fantasmi (forse quelli dei morti citati in precedenza) cantano l'addio ai mattutini sogni.


Molto più limpido è il frammento che ho estratto dal racconto breve di Thomas Mann (1875-1955): La Morte a Venezia (Der Tod in Venedig, S. Fischer, Berlin 1912). 

Ma chi non ha mai avuto da reprimere un brivido passeggero, una misteriosa timidezza nel salire per la prima volta, o dopo lunga dissuetudine, in una gondola veneziana? Quella strana barca, tramandata dai tempi delle ballate e tanto singolarmente nera, come lo sono soltanto le casse da morto, ricorda avventure silenziose e scellerate nello sciabordio della notte, ricorda forse di più la morte stessa, la bara, il tetro funerale e l'ultimo, taciturno viaggio. E si è mai osservato che il sedile d'una tale barca verniciato in nero feretro, la poltroncina imbottita in nero opaco, è il sedile più soffice, più voluttuoso, più prostrante del mondo? Aschenbach se ne rese conto quando, ai piedi del gondoliere, di fronte ai suoi bagagli raccolti in ordine a prua, vi si accomodò sopra. I vogatori stavano ancora litigando, rudi, incomprensibili, gesticolando minacciosi. Ma la calma particolare della città acquatica sembrava accogliere mite, smaterializzare e disperdere sui flutti le loro voci. Faceva caldo là nel porto. Sfiorato dall'alito tiepido dello scirocco, sull'elemento cedevole, appoggiato al cuscino, il viaggiatore chiuse gli occhi, godendo un'inerzia tanto inusitata quanto dolce. Il percorso sarà breve, pensava; potesse durare sempre! Mentre oscillava leggero si sentiva allontanare dalla ressa, dal vociare confuso.



Qui viene descritto il momento in cui il protagonista, ovvero il professor Gustav von Aschenbach, sbarcato allo scalo veneziano, sale sulla gondola che lo deve portare all'interno della città lagunare. Nella gondola il nero prevale sugli altri colori e ricorda, per le dimensioni e la forma, una bara; per questo il pensiero della morte è conseguente, unito ad una sensazione d'inerzia, di rilassatezza e di voluttà tali da far sì che il viaggiatore desideri un viaggio infinito. Forse si tratta dell'ultimo viaggio (e in effetti, alla fine del racconto von Aschenbach troverà la morte nella città veneta); volendo poi fare un ulteriore, personale viaggio con la fantasia, si potrebbe pensare all'imbarcazione che ospita un personaggio misterioso, visibile nel celebre quadro L'isola dei morti (Die Toteninsel, 1880) del pittore elvetico Arnold Böcklin (1827-1901).

Nessun commento:

Posta un commento