domenica 14 maggio 2017

Da "Un uomo finito" di Giovanni Papini

Era l'ora in cui la gente si leva mezza istupidita dalla siesta ed esce fuori colla ridicola speranza di un soffio d'aria e del fresco della sera. Escivano le balie infioccate coi bambini rossi e piagnucolanti fra le trine; i mariti sudati colle mogli a braccetto; i fratelli colle sorelle per la mano; i giovinottelli a due o tre colle sigarette bianche penzolanti dai labbri; le ragazze coi fazzoletti chiari in testa e gli occhi briosi e desiderosi; i vecchietti in soprabito coll'ombrello celestino sotto il braccio; i poveri soldati vestiti di scuro e tutti impacciati co' loro guanti di filo bianco. A ogni momento la gente cresceva; riempiva i marciapiedi; traversava la strada, rideva, si salutava. Sotto i grandi cappelli fioriti gli occhi delle donne scintillavano da ogni parte come diamanti neri; ogni tanto due cappelli di paglia tenuti da due mani alzate apparivano sopra le teste dell'armento festivo.
Io mi ci trovavo a disagio. Non conoscevo nessuno e odiavo tutti. Ero vestito male; ero brutto; ero bianco in viso; avevo l'aspetto severo del malcontento: sentivo che nessuno mi amava e poteva amarmi. Chi mi guardava mi disprezzava con tutto il corpo, passando; qualcuno si voltava indietro a guardar lo sparuto solitario e rideva. Specialmente le belle ragazze vestite di bianco e di rosso, col viso bruno e i denti puliti, eran crudeli con me: spesso sentivo le loro scoccodanti risate dietro alle mie spalle. Forse non ridevan di me ma in quei momenti n'ero certo e soffrivo. Tutta la vita bella mi pareva negata: io solo, io senza amore, io senza fortuna. E quella gente andava alla sua passeggiata, tranquilla, senza saper nulla delle mie tristezze di adolescente povero e scacciato.




Questo è un frammento tratto dal famoso romanzo autobiografico di Giovanni Papini (Firenze 1881 - ivi 1956) Un uomo finito, pubblicato per la prima volta dalla Libreria della «Voce», a Firenze nel 1913. È un passo del quinto capitolo intitolato L'Arco di Trionfo. Qui, lo scrittore fiorentino narra di come nacque, in lui, la prepotente voglia di emergere, di diventare qualcuno. Il tutto nacque però da una situazione opposta: l'adolescenza vissuta in modo tormentato, quasi traumatico. Come si può leggere in queste poche righe, durante un estivo pomeriggio domenicale, il sedicenne Giovanni si trova per le strade di Roma insieme alla folla che passeggia, ed ha la netta sensazione di essere disprezzato e deriso per la sua bruttezza, per non essere elegante e curato come gli altri, per il volto accigliato e malinconico... per avere, insomma, un aspetto tutt'altro che gradevole. A questo percepito disprezzo nei suoi confronti, l'adolescente reagisce provando odio per quella massa di gente che a lui appare assai simile alle marionette: bella sì, curata sì, ma certamente stupida e incolore, come può esserlo un gregge di pecore.

Da queste parole emerge, inoltre, il masochismo di Papini, il quale, pur confessando il suo disagio, si compiace della propria diversità rispetto all'armento festivo; ma dietro a questo compiacimento non c'è nessuna commiserazione (come poteva riscontrarsi in molti versi dei poeti crepuscolari), ma la profonda consapevolezza di possedere un'anima "superiore" che ben si distingue da quelle della folla imbecille.

Nessun commento:

Posta un commento