sabato 26 maggio 2018

Semplicità e chiarezza nella poesia


Mi è successo, recentemente, di leggere delle poesie in cui abbondavano parole inusuali, colte, difficili; nello stesso libro, le poesie suddette erano precedute da un saggio critico che, allo stesso modo, era inzuppato di termini forbiti. Per meglio comprendere entrambe le parti del volume, ho dovuto prendere un dizionario e consultarlo in continuazione; così la lettura mi è diventata talmente pesante che ad un certo punto ho preferito abbandonarla. Da questa non entusiasmante esperienza di lettura mi è scaturita spontanea una riflessione, che può apparire lapalissiana, ma esprime una realtà incontrovertibile: l'uso frequente di termini complicati e di un linguaggio lezioso infastidisce, annoia e allontana molti potenziali lettori. Questa conclusione, a dire il vero, mi pare molto più plausibile per la prosa e per la critica letteraria che per la poesia. In quest'ultima infatti, può capitare che il linguaggio astruso la renda affascinante e che la difficoltà di comprensione ne aumenti il mistero. Questo non sono io a dirlo, ma già lo affermava Giuseppe Ungaretti quando confessò di aver amato alla follia la poesia di Stéphane Mallarmé pur se, di sovente, gli succedeva di non comprenderne il significato. Eppure, anche parlando di poesia, se dovessi fare un elenco dei miei poeti preferiti (Leopardi, Camerana, Graf, Pascoli, Govoni, Moretti, Palazzeschi, Corazzini, Valeri, Vigolo, Sinisgalli, Bertolucci ecc.), mi rendo conto che tutti o quasi, nei loro versi raramente hanno inserito parole "difficili", e che i loro concetti molto spesso mi risultavano limpidi come acqua di sorgente; per questi motivi li ho apprezzati di più, perché la semplicità e, nello stesso tempo, la profondità, la fantasia e l'originalità, sono gli elementi che rendono una poesia bellissima. Ci sono stati altri poeti che ho conosciuto e, in minor misura, amato, ma il loro modo di far versi, molto vicino all'ermetismo o ad altre scuole che non ponevano la chiarezza come elemento primario, non me li ha fatti mai stimare più di tanto, riscontrandone, più di una volta, ostica la lettura. Eugenio Montale, che è il poeta più valutato del Novecento italiano, mi ha appassionato raramente. Di Arturo Onofri preferisco la prima fase poetica rispetto alla seconda, che pure è maggiormente considerata dai critici. Io, inoltre, mi ritengo un appassionato di poesia italiana, ma non ho mai avuto alle spalle una preparazione particolarmente adeguata della materia; posso anche dire di essere piuttosto ignorante al riguardo, soprattutto se si parla di metrica. Sono diplomato e il mio vocabolario è piuttosto limitato; per questo, non di rado mi succede d'imbattermi, come ho già detto, in parole di cui non conosco bene il significato. D'altra parte penso che la migliore poesia sia quella che giunge a tutti, compresi coloro che non hanno studiato molto. Gli altri versi, possono essere apprezzati da certi poeti o certi intellettuali che, ben chiusi in una torre d'avorio, comunicano soltanto tra di loro e se ne infischiano del resto dell'umanità. Devo dire che di poeti "semplici" ce ne sono moltissimi, conosciuti e non, e vanno da San Francesco d'Assisi ai contemporanei. Devo specialmente a loro il mio immenso amore per la poesia.
Voglio chiudere, una volta di più, questa breve dissertazione con alcuni versi. Si tratta di una poesia di Edoardo Sanguineti che ben s'inserisce nel contesto, parlando della chiarezza quale elemento fondamentale nell'arte poetica, nella letteratura, nel giornalismo e un po' in tutte le materie umanistiche.



la poesia è ancora praticabile, probabilmente, io me la pratico, lo vedi,
in ogni caso, praticamente così:
                                              con questa poesia molto quotidiana (e molto
da quotidiano, proprio): e questa poesia molto giornaliera (e molto giornalistica,
anche, se vuoi) è più chiara, poi, di quell’articolo di Fortini che chiacchiera
della chiarezza degli articoli dei giornali, se hai visto il «Corriere» dell’11,
lunedì, e che ha per titolo, appunto, “perché è difficile scrivere chiaro” (e che
dice persino, ahimè, che la chiarezza è come la verginità e la gioventù): (e che
bisogna perderle, pare per trovarle): (e che io dico, guarda, che è molto meglio
perderle che trovarle, in fondo):
                                              perché io sogno di sprofondarmi a testa prima,
ormai, dentro un assoluto anonimato (oggi, che ho perduto tutto, o quasi): (e
questo significa, credo, nel profondo, che io sogno assolutamente di morire,
questa volta, lo sai):
                              oggi il mio stile è non avere stile:

(dall'antologia: "Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento", Interlinea, Novara 1997, p. 559)

giovedì 24 maggio 2018

Principio d'estate





Dolore, dove sei? Qui non ti vedo;
ogni apparenza t'è contraria. Il sole
indora la città, brilla nel mare.
D'ogni sorta veicoli alla riva
portano in giro qualcosa o qualcuno.
Tutto si muove lietamente, come
tutto fosse di esistere felice.



La poesia sopra riportata è di Umberto Saba; l'ho estratta dalla pagina 477 del volume "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1994. Fu pubblicata per la prima volta sulla rivista L'Orto nel luglio del 1938; fu quindi inserita nel libro del poeta triestino intitolato Ultime cose, pubblicato come decimo dei Quaderni della Collana di Lugano nel 1944.
In soli sette versi, Saba esprime una sensazione particolarmente piacevole, che è facile provare in certi giorni di inizio estate, soprattutto se si vive in cittadine balneari molto tranquille, come se ne trovano sulla costa adriatica della penisola italiana. Devo dire che anche a me, in passato, è capitato di provare la medesima sensazione, osservando il lungomare di una piccola città dell'Adriatico, in un mattino di prima estate. Il sole che splendeva incontrastato nel cielo, le automobili e le biciclette che lentamente e lietamente passavano, le persone a piedi che passeggiavano con aria spensierata, la spiaggia a due passi già colma di villeggianti che si godevano la bella giornata e, un poco più lontano, il mare calmo e azzurro, il cui confine si confondeva col cielo dello stesso identico colore. Il tutto trasmetteva all'anima di chi guardava un'estasi che è difficile trovare in altri luoghi; quelle immagini mi facevano pensare ad un posto incantato, un paradiso dove si vive una perenne felicità, e dove, quindi, non esiste alcun tipo di dolore. Ovviamente era un'impressione falsa, ma che in quegl'istanti appariva veritiera, ed era bellissimo viverla.

lunedì 14 maggio 2018

Altri pensieri e altri versi sulla morte


Le recenti notizie luttuose riguardanti persone che avevo conosciuto e che, più o meno, avevano la mia età, oltre che procurarmi un grande sconforto, mi hanno fatto pensare ancora una volta alla morte, e a quanto sia vicina e insidiosa, ma soprattutto imprevedibile. Chi se n'è andato a causa di un cancro, chi per arresto cardiaco, nel giro di pochi mesi, questi individui sono scomparsi per sempre dalla faccia della terra. Quante volte mi capita di pensare al futuro, d'immaginarmi vecchio, di pensare al momento in cui smetterò di lavorare ed andrò in pensione... Ma dimentico sempre che il mio futuro non sono e non sarò io soltanto a deciderlo. Non so quanto mi resta da vivere (trenta, venti, dieci anni? O soltanto pochi mesi?); nessuno di noi può saperlo, compresi coloro che godono di ottima salute. So per certo che, a mano a mano che si sale in età, sale anche la percentuale della possibile morte, sia essa improvvisa o lenta. In particolare, ho notato che una volta superato il mezzo secolo di vita, le probabilità di ammalarsi e di perire aumentano in modo considerevole. Le tante chiacchiere che si fanno sui mass media inerenti all'aspettativa di vita attuale, restano, alla fine, inutili ciance, illusioni per chi non vuole pensare che non c'è nulla di sicuro al riguardo. L'ottantenne o il centenne che giunge a quella veneranda età non poteva sapere, quando aveva venti o quaranta anni in meno, se vi sarebbe mai arrivato. Anche la storiella del DNA, che influenza fortemente il destino di ciascuno di noi, mi pare non sia attendibile. Insomma, tranne i suicidi, nessun essere umano sa quando o come morirà. La morte, se si potesse raffigurare, sarebbe un cecchino che spara all'impazzata sulla folla, non curandosi minimamente delle persone che colpisce. Forse, fra un po' di tempo, ricomincerò, per forza di cose, a pensare ad un futuro, ma ora in me prevale la constatazione della estrema labilità dell'esistenza, e provo già a immaginare una reazione adeguata, nel caso in cui, improvvisamente venissi a sapere che mi rimane poco da vivere. Per concludere questo doloroso ragionamento, ancora una volta, propongo dei versi che parlano di morte; e ancora una volta ho scelto una poesia di Alessandro Parronchi, che ben descrive uno stato d'animo radicatosi nel poeta a seguito di una serie infinita di notizie luttuose, che coinvolgevano (e coinvolgeranno sempre) esseri umani di tutte le età.


UN'ALTRA PICCOLA CROCE
di Alessandro Parronchi

La morte ha invaso la vita. Sulle colline
– di Staglieno, del Père-Lachaise, di Arlington
e del paesino della più remota campagna –
non c’è più posto nemmeno per una piccola croce.
La stesso nel mio cuore. Quante volte la nenia
judicare saeculum per ignem
ho udito per l’uno o l’altro parente od amico.
Dapprima mi turbava, ora non più.
Ora, in italiano, ha un suono crudo,
non sveglia echi, risonanze profonde.
Sono stanco della morte.
Ma se vuoi, madre, che scriva qualcosa
per la bimba che è morta,
non dirò di no.
Come l’astronomo scopre un’altra piccola stella
tra le miriadi di cui non sa che farsi il cielo,
farò brillare a notte un altro lume
per lei tra le meteore.
Ma di giorno voglio pensarla viva
sulla terra e nel vento, come una margherita
appena schiusa. Poi, come un piccolo seme 
bianco dentro la terra, promessa di primavera
quando vien sera.

(da "Le poesie", Polistampa, Firenze, 2000, volume II, p. 394)

giovedì 10 maggio 2018

Dizionario della letteratura italiana del Novecento





Questo dizionario uscì presso l'editore Einaudi di Torino nel 1992. È stato ed è tutt'ora un libro fondamentale per un appassionato di poesia italiana del Novecento quale sono io; fu anche uno dei primi libri che acquistai per approfondire un discorso altamente coinvolgente: grazie a questa essenziale opera ho potuto rintracciare i nomi dei poeti in lingua italiana più o meno famosi che hanno scritto e pubblicato poesie nell'arco di tutto il XX secolo, ivi compresi i titoli, gli anni, i luoghi e gli editori delle loro opere a stampa. Il libro, poi, ha il vantaggio di non essere affatto voluminoso né pesante: si avvale infatti di un formato pari a 20,5 x 12,5 centimetri, e di 595 pagine. Ovviamente non è un dizionario onnicomprensivo, quindi, esistono anche delle esclusioni che, seppure dolorose, sono state necessarie per non appesantire troppo il volume. C'è infine da aggiungere un'ultima cosa: vista la data d'uscita, è normale vi sia qualche lacuna riguardante le ultime generazioni di scrittori italiani del '900, in particolare risultano assenti o quasi coloro che si misero in luce durante l'ultimo decennio del secolo. 
Quest'opera è nata grazie ad un lavoro d'equipe, ma l'impianto lo si deve soprattutto al direttore Alberto Asor Rosa, a Giorgio Inglese e a Gabriella Pulce. Invito infine chiunque sia interessato alla letteratura italiana del secolo da poco trascorso, a consultare le 1800 voci (che comprendono anche i movimenti letterari) di questo importantissimo dizionario.

martedì 1 maggio 2018

Poeti dimenticati: Antonio Barolini


Nacque a Vicenza nel 1910 e morì a Roma nel 1971. Oltre che poeta, fu prosatore e giornalista; quest'ultima attività divenne la principale, allorché, sposatosi con una scrittrice statunitense, si trasferì in America. Decisamente al di fuori dalla poetica degli ermetici, Barolini preferì sempre la chiarezza del linguaggio; i temi che ritornano più spesso nei suoi versi, sono quelli degli affetti familiari, dei paesaggi e della variegata umanità con cui entrò in contatto nelle diversissime fasi della sua vita. Pochi furono ad elogiarlo ai suoi tempi, pochissimi oggi lo ricordano, malgrado fosse in possesso di qualità poetiche non indifferenti.



Opere poetiche

"Cinque canti", Corridoni, Vicenza 1930.
"Statua ferma", Degli Orfini, Genova 1934.
"La gaia gioventù e altri versi agli amici", Ediz. dell'Asino Volante, Vicenza 1938.
"Il meraviglioso giardino", Ediz. del Pellicano, Vicenza 1941.
"Poesie di dolore in morte di Caterina e tre preghiere in aggiunta", Il Pellicano, Vicenza 1943.
"Viaggio col veliero San Spiridione", Il Pellicano, Vicenza 1946.
"Il veliero sommerso", Il Pellicano, Vicenza 1949.
" La gaia gioventù e altri versi agli amici" (2° ed. aumentata), Neri Pozza, Venezia 1953.
"Elegie di Croton", Feltrinelli, Milano 1959.
"Poesie alla madre", Neri Pozza, Venezia 1960.
"Il meraviglioso giardino" (nuova edizione), Feltrinelli, Milano 1964.
"L'angelo attento, Il meraviglioso giardino e altre poesie inedite", Feltrinelli, Milano 1968.



Presenze in antologie

"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 1011-1020).



Testi

MEMORIA

Sei andata lontano,
di là dalle pesanti
strade del nulla, madre;
se più non odo il tuo richiamo
e sta con te profonda
la stessa voce dei morti,
che non parla non pesa e non ha eco,
non è distinta e tace
fonda nel cuore umano.

Le tue vesti,
i capelli scompigliati dal vento
sulla spiaggia;
l'afrore di tempesta, di salso
e la pioggia intermittente:
«Non andare più avanti,
il mare è fosco,
è tempo di vestirsi,
il tuo giubbino...»
Questa voce sospesa
nei frantumi dell'aria.
Le vestigia dei miei piedi
gracili di fanciullo:
l'onda le lambiva,
le spianava.
Le buche abbandonate tra i badili,
i secchielli
tra i castelli demoliti di rena.
La sorella fuggiva,
cherubino di bronzo che sparì:
si schermiva tra le risa
le alghe
le conchiglie.

La tua voce,
madre, tace di là,
né odo più
se mai si esprime
in un rapito suono.
Sulla rena,
ogni vestigia è cancellata.
Io fui:
ogni bontà, ogni trastullo.
La giovinezza è stata

(da "Poesie alla madre")




MEMORIA DI ADRIANO

Adriano,
dalle ali d'arcangelo,
impasto di fango urbano.

Ti abbarbicavi ai prodigi
dei calcoli perfetti
col candore dei maledetti dalla ricchezza;
e la furberia dei felici
che non credono a nulla
e a niente sono ligi,
tranne che ai loro sogni.

Ti ho portato
uno strano amore:
un misto di rispetto e di rabbia,
uno sconfinato affetto
e un fastidio per la tua gabbia
e per il tuo Cristo profano.

Ma poi,
quando te ne sei andato,
ti ho donato ghirlande
e solo ghirlande di devozione.

Non troveremo mai più
un maestro così prepotente,
per dare misura alle nostre pazzie di giustizia
e per gridare che il mondo
è fatto anche dalla povera gente!

(da "L'angelo attento, Il meraviglioso giardino e altre poesie inedite")