venerdì 3 febbraio 2012

L'uomo primitivo tra di noi

È l'uomo primitivo quello che detta legge nella mia città e, probabilmente, in moltissime altre città italiane. Spesso ignorante, sempre scorretto, prepotente, presuntuoso, incapace di portar rispetto per chiunque, la fa da padrone per le strade cittadine con la sua automobile che non di rado è di grandi dimensioni. Gli piace violare il codice stradale e lo fa continuamente parcheggiando in seconda fila, sorpassando a destra, superando di gran lunga il limite di velocità. Quando poi, questo mostro dei nostri tempi scende dalla sua auto, si mette in mostra per la sua cafonaggine innata, per la sua maleducazione di cui si vanta: molte volte usa un linguaggio scurrile e, quasi sempre, non conosce la lingua italiana; se entra in un ufficio postale o in un negozio, studia tutti i modi per evitare le file e "fregare" chi segue le regole. Se ci parli ti racconta di come lui, "il furbo", non ha pagato mai le tasse, di come ha sempre imbrogliato lo stato e la comunità intera, e si aspetta anche ammirazione per questi suoi sciagurati comportamenti, magari che tu gli dica: «Bravo, quanto vorrei essere uguale a te!». I suoi argomenti di conversazione preferiti sono il calcio, il sesso e i soldi; a proposito di questi ultimi, l'uomo primitivo ammira senza limiti tutti coloro che ne hanno tanti, non importa come li abbiano fatti (questo essere infatti è totalmente privo di etica) e se vede in strada passare uno di costoro dice: «Quello lì c'ha i soldi».
Molto frequentemente, se discuti di politica (anche se lui ha un'idea della politica decisamente particolare), scopri che è un nostalgico del fascismo, o, comunque, di destra, e ce l'ha con tutti gli extracomunitari e gli zingari a cui darebbe fuoco così come fece Nerone coi romani.
Non è fantasia questa, ma triste realtà di tutti i giorni, e mi chiedo come mai il progresso, la cultura e la civiltà che avrebbero dovuto portare dei miglioramenti sempre più marcati e visibili nei comportamenti umani abbiano fallito, almeno in Italia, così miseramente.

Chi chiude il conto

Chi chiude il conto fa un bilancio, arriva ad una conclusione definitiva. Chi chiude il conto fa testamento.
Sì, la vita gli arrise nei primi anni di vita (quei tempi!...) Ma ora sono seppelliti, anche se gli rimangono i ricordi, che valgono quel che valgono.
Pure è bello per chi non ha più nulla oltre a quelli, tornare con la mente ai tempi andati; ripensare a quei giorni incredibili, ai giochi, al mondo fantastico che non esisteva ma che era possibile creare, era vero perchè la mente diceva così.
La fantasia dei bambini è una cosa imparagonabile, è nell'infanzia che nascono questi mondi impossibili, bellissimi, reali, che si sgretolano a poco a poco mentre si cresce, fino a scomparire completamente con l'arrivo della piena maturità.
Ci si accorge che gli occhi di oggi non sono più quelli di ieri; infatti non solo il corpo si deteriora col tempo, ma anche la fantasia e la purezza, la meraviglia e la scoperta. Ci si ritrova vuoti, qualunque spettacolo, perfino quelli della natura, lasciano gli occhi quasi indifferenti, alla ricerca di quelle emozioni provate tanto tempo addietro, che ora sono impraticabili: è la completa aridità, spirituale e materiale.

Chi chiude il conto sa che non si può aspettare nulla dal futuro, che quello che è stato è perso per sempre, che quello che è non vale nulla.
L'entusiasmo è una delle prime cose che se ne vanno, ed è anche la prima tappa verso la completa aridità. Non si è più attratti da alcuna cosa, anche ciò che era semplice, banale e magari insignificante, una volta scatenava nella mente mille attrattive, era la forza della vita che dentro lavorava per dirci: «Guarda quante cose belle! Quanti anni hai ancora davanti a te, quante sorperese la tua esistenza ti presenterà, vivere è una cosa stupenda!». Ora le cose non stanno più così.

Chi chiude il conto ha la netta sensazione che ormai la vita non possa riservare nulla di buono, anzi, che soltanto la morte può risolvere tutti i problemi accumulatisi col tempo. Si finisce per attendere soltanto la chiusura del conto.
Pure l'adolescenza, fase della vita transitoria e problematica, ha le sue attrattive; ancora è possibile sognare, come nell'infanzia, è possibile immaginare che l'amore esista veramente, che sia un sentimento sincero, puro e divino; è ancora troppo presto per le disillusioni, ma già si ha la percezione di aver perso qualche cosa d'importante, che non tornerà mai più, ed è la fantasia del bambino.

Chi chiude il conto medita sulle tappe della sua vita, e si rende conto che gli anni passati somigliano ad un fiumiciattolo le cui acque, scorrendo, diminuiscono sempre più, fino a che il corso d'acqua si estingue e rimane solo un solco arido. Sì, il percorso della vita è sempre in perdita graduale.
Tristi anni della gioventù, eppure anche quegli anni, seppur grami, nei ricordi sembrano belli, probabilmente perchè nutriti ancora di speranze, visto che la vita si immagina ancora lunga e un ottimismo inconscio spinge a pensare che il futuro sarà migliore. Così non è stato.

Chi chiude il conto non ha grandi rimpianti per la giovinezza, il periodo che spesso l'umanità rimpiange maggiormente, quello del grande amore, dei grandi ideali e del vigore e della forza alla sua massima espansione. Addio gioventù, non sei esistita mai e mai esisterai più.
Si arriva alla mezza età e ancora, magari, si spera in chissà cosa, ma ora è evidente che la vita non potrà riservare più sorprese inimmaginabili; quello che doveva accadere è accaduto, non altro ci sarà di sconvolgente; semmai, se si analizza la situazione, si comincia a provare un dolore profondo, perchè le perdite divengono pesantissime: la morte si è portata via persone care che non torneranno mai più!

Chi chiude il conto non spera di ritrovare gli affetti perduti, non crede che potrà vivere in un ipotetico al di là; queste speranze sono già cadute da molto tempo, il periodo delle favole è finito: davanti agli occhi c'è solo la cruda, dura e triste realtà. Dopo la morte non c'è nulla.
Ma la morte è un pensiero ricorrente in chi, superata la mezza età, vede appropinquarsi la vecchiaia. Spesso capita di pensare: «meglio morire prima di diventare vecchi». Il fatto è che noi siamo stati programmati per vivere e non per morire, per questo si va avanti, si prosegue una strada già tracciata, che hanno già percorso quelli che ci hanno preceduto, e tutti (escluso nessuno), alla fine della strada si sono trovati davanti ad un burrone; anche se preferivano tornare indietro hanno dovuto proseguire...

Chi chiude il conto non vuole giungere al burrone, pensa che non ci sia alcuna ragione per arrivare fino a lì. Stanco ormai del percorso già fatto, non spende altre forze per andare avanti. Chiude il conto.

giovedì 2 febbraio 2012

Da "Disjecta" di Igino Ugo Tarchetti

Io canto la morte della mia giovinezza. Felice chi può cantarla a suo tempo, quando divennero canuti i suoi capelli, e l'età gli addita la tomba della vita! Lasciate che io pianga i miei sogni e le mie speranze. Piove la rugiada dal cielo sul fiore che ebbe un solo giorno di vita, e chi non avrà una lacrima per la creatura animata? A venti anni, io canto la morte della mia giovinezza. Tre grandi epoche segnarono il cammino della mia vita. Bella è la vita rallegrata dal sorriso della speranza, soave è la voce dell'amore negli anni della giovinezza. Io rammemoro il tempio della foresta, i colli di Valnera, e gli occhi di Malvina. Ancora io sogno le emozioni di questo passato. Altro non è la vita che un sogno, oh lasciatemi, lasciatemi dunque sognare.
Dove mi trasporti o incanto misterioso della fantasia? Io riveggo le antiche muraglie del tempio della foresta: inni ardenti di fede, canzoni d'amore eccheggiate sotto le sue volte, di voi non mi è rimasto che una memoria. Nelle tenebre della notte si versano le lacrime della natura: nel segreto della mia anima, io piango gli anni felici della mia giovinezza.
Oh ripide colline della mia valle! Oh consolanti reminiscenze della mia giovane vita! intendo la voce misteriosa delle vostre memorie. Agile cacciatore della montagna, chi potea togliermi la mia felicità? Ohimè! io non aveva peranco conosciuto l'amore. Oh lasciate che tornino al mio cuore queste memorie. Soave è il pensiero della felicità negli anni della sventura. Io sogno l'esistenza di quindici anni...
Oh lasciate, lasciate dunque che io sogni.
Più dolce del canto dell' usignuolo, più ardente dell'occhio della gazzella, erano la tua voce, e le tue pupille, o Malvina. Oh perchè non mi affatico io di dimenticarle? Cento notti trascorsero dall'ora della nostra separazione. Io benedico la notte, perocché dessa sia compagna della mia solitudine. Sola conobbe la nostra felicità, sola conosce la nostra sventura; splende il patetico raggio della luna, anche sull'infelice... Volgono ora nella mia anima tristi pensieri di morte, abbandonatemi al mio dolore... una morte io debbo piangere, ed è quella della mia giovinezza.
Come trascorrono le acque del fiume sotto la superficie gelata, così passano ignorati fra le lacrime, e velati da un sorriso menzognero i giorni della mia vita; il mio destino li ha numerati e il mio destino è governato dall'amore. E perchè dovrò io vivere senza di esso?... Voi non tornerete, o tiepide primavere, che per gli amanti felici... Cadono appassiti i vostri fiori dalle mani di un giovine sventurato. Benedetto il tempio, e le valli, e l'amore della mia fanciulla: essi passarono come la mia felicità: ma chi potrà rapirmene la memoria ? Essi verranno meco nella tomba della mia giovinezza.


(Igino Ugo Tarchetti, "Disjecta", Zanichelli , Bologna 1879, pp. 69-72)





I Canti del cuore di Igino Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839 - Milano 1969) rappresentano qualcosa di straordinario nell’ambito della poesia italiana del XIX secolo; purtroppo, lo scrittore piemontese non li pubblicò mai in volume, anche a causa della sua prematura morte; perciò uscirono nel 1879, all’interno della raccolta postuma intitolata Disjecta, che comprendeva tutte le poesie di Tarchetti, già pubblicate in svariate riviste del secondo Ottocento. La straordinarietà dei Canti del cuore risiede nel fatto che sono delle prose poetiche, e furono scritte in tempi in cui tale forma letteraria era praticamente assente in Italia; soltanto in Francia, grazie a immensi poeti come Charles Baudelaire ed Arthur Rimbaud,  la poesia in prosa si era già diffusa, ottenendo un notevole consenso di pubblico. Nel frammento che ho riportato, è facile riscontrare l’enorme talento di Tarchetti: un poeta a metà tra romanticismo e scapigliatura, che, almeno nelle prose dei Canti del cuore, mostra chiari influssi dalla poesia leopardiana.


Da "Fosca" di Igino Ugo Tarchetti

Prima di ritirarmi dal mondo, prima di isolarmi in mezzo alla folla - isolamento assai piú penoso che nelle vaste solitudini della natura - ho voluto ricordare ancora una volta, ricordare con pienezza e con fede. Io sono ora in pace con me stesso. Le agitazioni profonde della mia anima, le irrequietezze febbrili della mia mente sono cessate. Io ne comprendo ora le cause. Molti uomini non si trovano bene colla vita perché non hanno ancora scoperto il loro punto d’equilibrio.
Il difficile è trovare il centro della propria anima!


(da: Igino Ugo Tarchetti, "Fosca", Sonzogno, Milano 1874, p. 10)




Fosca è il titolo di un romanzo di Igino Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839 – Milano 1869). Questa può essere definita la migliore opera in prosa dello scrittore piemontese, ed anche una delle più significative della Scapigliatura: corrente letteraria italiana diffusasi all’inizio della seconda metà dell’Ottocento, che ebbe come principali esponenti, oltre a Tarchetti, Emilio Praga, Arrigo Boito e Giovanni Camerana. Il frammento che ho riportato, si trova nelle prime pagine di una riedizione di Fosca, risalente al 1874 (la prima è del 1869); chi voglia leggere questo ottimo libro, può anche vedere l’altrettanto ottimo film di Ettore Scola: Passione d’amore (1981), che si rifà direttamente al testo di Tarchetti.


mercoledì 1 febbraio 2012

Poeti dimenticati: Giuseppe Chiovenda

Giuseppe Chiovenda nacque a Primosello, in provincia di Novara, nel 1872 e morì a Novara nel 1937. Giurista di fama, insegnò presso gli istituti universitari di Parma, Bologna, Napoli e Roma; fu accademico dei Lincei e pubblicò molte opere di diritto che ancora oggi sono conosciute. Come suo fratello Tito, insigne diplomatico, anche Giuseppe coltivò la passione per la poesia, pubblicando in gioventù dei libriccini di versi che mostrano un'anima tardo-romantica e intimista.
 

Giuseppe Chiovenda


 
Opere poetiche
"Poesie", La Società Laziale, Roma 1891.
"Agave", Unione Cooperativa Editrice, Roma 1895.
 
 
Presenze in antologie
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (volume quarto, pp. 308-311).
 
 
 
Testi
IL PICCOLO FORZIERE

Ho riaperto il piccolo forziere,
Che la storia chiudea del nostro amor;
I suoi biglietti, le sue ciocche nere,
i suoi poveri fior.

Queste reliquie ho visto sul braciere
Divampare con livido baglior;
E m'è rimasto il piccolo forziere
Vuoto come il mio cuor.

(Da "Agave")

Poeti dimenticati: Willy Dias

Willy Dias è lo pseudonimo con cui si firmò la scrittrice Fortunata Morpurgo Petronio, nata a Trieste nel 1872 e ivi morta nel 1956. Autrice di vari romanzi rosa, è stata anche giornalista del "Caffaro"; firmò un importante documento a favore della libertà di stampa ai tempi del fascismo; dal 1946 entrò nella redazione de "L'Unità". Scrisse pochi versi che pubblicò su riviste importanti come "Domenica Letteraria" e "Poesia" ma purtroppo non esiste attualmente un volume che raccolga la sua opera poetica. Le sue liriche mostrano chiari influssi pascoliani e decadenti.
 
 

Willy Dias



Presenze in antologie
"Poeti italiani d'oltre i confini", a cura di Giuseppe Picciòla, Sansoni, Firenze 1914 (pp. 247-249).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 2, pp. 104-107).




 
Testi
LA BAMBOLA E LA BIMBA

Tanti, tanti anni or sono. E una gioconda
fanciulla inconscia, ignara
sognava sempre una bambola bionda
che lunghi, aurei capelli
avesse, e gli occhi belli.
- Era una bimba ignara. –

Ed ella ebbe la bambola, ma al breve
corpo di crusca pieno
senza saperlo una ferita lieve
con uno spillo un giorno
che le giocava intorno,
ella infisse nel seno.

E la bambola bionda un po’ per volta
la crusca – ahimé – perdeva.
Non se ne avvide pria, la bimba stolta,
del dì che floscio e vuoto
il picciol corpo immoto
più forma non aveva.

Tanti, tanti anni or sono. A una gioconda
fanciulla, inconscia, ignara,
una ferita nel cuore profonda
venne inflitta scherzando,
venne inflitta giocando.
- Era una bimba ignara. –

E nessuno, nessun, lo seppe mai
ed ella nulla disse;
da quel giorno apparì mutata assai,
scherzò delle speranze,
folleggiò tra le danze.
- Ma nulla, nulla disse. –

E presto si sentì stanca, la lieta
gioventù non le arrise;
nel cuor portava la morte segreta…
Ella no’l disse mai;
nessun lo seppe mai;…
la ferita l’uccise.
 
(Dalla rivista «Poesia» del novembre 1908)

Poeti dimenticati: Ulisse Tanganelli

Ulisse Tanganelli nacque ad Arezzo nel 1853 e morì a Firenze nel 1931. Dopo la laurea in Giurisprudenza esercitò la professione di avvocato e, in seguito, di magistrato. Grande fu la passione per la letteratura che il Tanganelli dimostrò pubblicando varie raccolte di versi, le quali inizialmente mostrano un poeta molto polemico e sarcastico, in linea con la poetica di Olindo Guerrini; nelle opere della maturità la vena satirica si spegne per essere sostituita da una attenzione verso la natura che il poeta osserva con meraviglia e ammirazione.
 
 
Opere poetiche
"Autumnalia", Brigola, Milano 1878.
"Aestiva", Arte della stampa, Firenze 1886.
"Monasteri", Landi, Firenze 1889.
"La buona dea", Paggi, Firenze 1892.
 
 
Presenze in antologie
"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (p. 384).
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 311-315).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 613-619).
"Dio borghese: poesia sociale in Italia 1877-1900", a cura di Adolfo Zavaroni, G. Mazzotta, Milano 1978 (pp. 116-117).
 
 
Testi
OMBRA

Dalle foglie dei cerri e dei castani
La verd'ombra discende in ogni proda;
Sembra il bosco novello una pagoda
Che aspetti i sacerdoti a riti arcani.
La calma vegetale
Non turba piè d'armento o frullo d'ale.

All'alte rame vivamente brilla
Del suo fiero splendor l'estivo sole;
Ma, penetrando le silvestri gole,
Come per dubbio tra le foglie oscilla:
All'incostante brezza
Or sì or no la verde ombra si spezza.

Solca le borraccine umide e scure
Dei frantumati raggi il luccicore;
Si mesce a quel de la ginestra in fiore
L'olezzo delle fragole mature,
Che allungano dai cespi
Gli involucretti porporini e crespi.

(Da "La buona dea")