martedì 15 maggio 2012

"La fame degli occhi" di Giorgio Vigolo



"La fame degli occhi" è il titolo dell'ultimo volume di versi pubblicato da Giorgio Vigolo. Uscì nel 1982, circa un anno prima della dipartita del poeta romano. Il libro, di 94 pagine, comprende - oltre ad una prefazione di Pietro Cimatti - in tutto 34 poesie; le prime 25, da come risulta dalle date poste al termine di ognuna, furono scritte tra l'agosto del 1977 e il marzo del 1981. Passando al contenuto del libro, mi pare chiaro che trapeli qui, in maniera superiore rispetto a I fantasmi di pietra, la penultima opera di Vigolo, una disperazione e un'amarezza senza pari, dovute, oltre alla consapevolezza della fine imminente, ad uno stato di solitudine senza consolazioni di sorta, che, se già emergeva saltuariamente nelle poesie dei volumi precedenti, qui diviene preponderante, e il poeta lo manifesta con l'uso di vocaboli particolarmente significativi. Alcuni componimenti mostrano una brevità e una concisione che molto ricordano il primo Ungaretti: analizzandoli si avverte la assoluta, inconsolabile sofferenza provata da Vigolo, ma affiora anche il risentimento, dovuto ad odii e rancori provati in un lontano passato e ad umiliazioni e sbeffeggiamenti percepiti negli anni della vecchiaia. Comunque sia, ancora una volta Vigolo qui si dimostra poeta puro, che si confessa così come egli è veramente adoperando tutto il suo talento poetico e lasciando il lettore estasiato dalla bellezza dei suoi versi. D'altra parte mi pare opportuna ed eloquente la citazione che precede le poesie di Vigolo, tratta da una lettera di Seneca a Lucilio: "Alia tamen illa voluptas est quae percipitur ex contemplatione mentis ab omni labe purae et splendidae" ("Ma ben altro piacere è quello che si riceve dalla contemplazione di un'anima immacolata e limpida"). Concludo con alcuni versi sublimi tratti da una delle poesie (senza titolo) di questa estrema opera di Vigolo.
 



Disperata solitudine chiusa
in una cerchia d'incubi spietati,
la decrepita età ti fa più scura
in una tenebra vertiginosa
dove nel fondo giaccio
supino e diaccio.

domenica 13 maggio 2012

"Umana" di Diego Valeri



"Umana" è il titolo di una raccolta poetica dello scrittore Diego Valeri, pubblicata dalla casa editrice Taddei in Ferrara nel 1916. A mio avviso rappresenta il punto più alto raggiunto dal poeta veneto nella sua opera in versi; fino a poco fa introvabile, ora "Umana" è stata riproposta in una nuova edizione dalla San Marco dei Giustiniani (Genova 2008). Sorprende il fatto che di Diego Valeri, poeta tra i migliori del Novecento italiano, non esista ancor oggi un libro che ne raccolga l'intera produzione poetica; non solo, ma a parte l'opera sopra citata, i suoi versi è possibile leggerli soltanto in sparute antologie, poiché è stato ed è troppo spesso ignorato dai critici letterari. A parte questo sfogo, si può dire che "Umana" sia la raccolta di Valeri più vicina al crepuscolarismo; infatti, i suoi due volumi pubblicati in precedenza: "Monodia d'amore" (1908) e "Le gaie tristezze" (1913, in parte riproposto in "Umana") avevano caratteristiche più marcatamente pascoliane e, in minor misura, dannunziane. In "Umana" la somiglianza con la poesia crepuscolare è decisamente più avvertibile, già leggendo alcuni dei titoli delle poesie come: "Pioviggina", "Organetti", "Ospizio delle piccole suore"; e poi in moltissimi versi che compongono la raccolta. Su "Umana" certamente molto interessante e approfondita è l'analisi elaborata da Gloria Manghetti nel libro "So la tua magia: è la poesia. Diego Valeri. Prime esperienze poetiche 1908-1919" (All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1994), dove, tra le altre cose, si legge anche:
«Molti i temi che in questo nuovo libro si accavallano: il dolore, la felicità, la morte, l'amore, la paternità, la solitudine, il passato. Tutti vissuti e trattati con un sentimento di religiosa sensualità insinuato fin dalla copertina di Bucci, due mani che si vanno a giungere».
Il pittore Anselmo Bucci (1887-1955) è l'autore del disegno presente sulla copertina della prima edizione di "Umana", come anche di quella del successivo libro poetico di Valeri: "Crisalide". Infine ecco, dall'indice del volume, le sezioni e i titoli delle poesie presenti in "Umana" di Diego Valeri.
 


 

ANDARE

«- Entra, fratello. Tu mi sembri stanco»



MOMENTI

Mattino d'estate
Un fresco sussurrìo d'acque correnti...
Pioviggina
Mattino di Novembre
Pagina di diario
Sera, su i bastioni di Milano
Mattino d'inverno
L'ora di notte
Pagina di diario
Preghiera autunnale
Pomeriggio sul lago
Folla
Tramonto, a Garda
Distacco
Nell'ombra
Sera d'autunno
 

NOSTALGIE

Lettera a mia moglie
Dal vecchio quaderno I
Dal vecchio quaderno II
Lied
Dove fu? quando?...
Clara, mia cognatina...
Frammento
Notturno
Foglie, giù foglie!...
 

IMAGINI

Organetti
Il vecchio contadino
La cucitrice
Il dottore di campagna
Sgelo
Mia scolaretta...
Lenta pel cielo passa...
Primavera
Notturnino
Un saggio
Ospizio delle piccole suore
Maggio
Rose rosse
Non levar gli occhi...
L'incinta
Che tu sia benedetta, o creatura...
 

TRISTEZZE

La servetta
T'ho cercata per l'ombra delle stanze...
Ed è giunto il novembre...
Paese
Un attimo
Quella notte...
Sei tu, sei tu, figliolo?...
Io non ho fiori...
Vita?
 

IL FUNERALE DEL POETA
«- Oh tu c'hai fuggito, fratello, la fosca prigione»





sabato 12 maggio 2012

"La bestia" di Manuel Bandeira

Ieri ho visto una bestia
tra le immondizie
del mio cortile,
crcava cibo.
Quando trovava qualcosa
senza guardare né odorare,
la inghiottiva con voracità.
Non era né un cane, né un gatto,
né un topo.
La bestia, Dio mio, era un uomo!


Questa poesia è di Manuel Bandeira (Recife 1886 - Rio de Janeiro 1968); poeta brasiliano molto famoso, fu attratto inizialmente dalla lirica simbolista, per poi seguire altre strade, fino a giungere al movimento modernista. Il suo linguaggio poetico è estremamente semplice, per nulla artefatto ed i suoi temi si riferiscono spesso alla triste e dura realtà del suo paese natale ed in particolare di Rio de Janeiro, città dove visse di più.
Non servono molte spiegazioni per la poesia riportata sopra, chi non ha mai visto delle povere persone ridursi a cercare il cibo tra i rifiuti, chi non ne è rimasto intristito ed anche meravigliato o indignato. Probabilmente la stessa cosa è capitata a Bandeira in un paese, il Brasile, ben noto per la totale miseria in cui vivono larghe fasce della popolazione; quando un solo essere umano vive in condizioni di estrema indigenza vuol dire che la società così come è stata impostata non va bene, perchè sulla Terra oggi come ieri si produce abbastanza cibo per sfamare l'intera popolazione mondiale. Parole e considerazioni del tutto inutili, verissimo, ma è sempre il caso di affermarle.

giovedì 10 maggio 2012

Il bacio nella poesia italiana decadente e simbolista

Variegata e a volte contraddittoria è la simbologia del bacio che, nella religione cristiana assume sia il valore di riconciliazione, sia quello di tradimento (il bacio di Giuda a Gesù). Ma, al di fuori di tale contesto, il bacio nella poesia di parecchi simbolisti viene inserito come parte essenziale di un rito iniziatico o si paventa quale "momento misterico e ultraterreno" che esprime, oltre al lato erotico e passionale dell'individuo, quello di una personalità più segreta, sconosciuta, rientrante nell'inconscio. Nei crepuscolari i baci sono "casti" e simboleggiano la verginità; in altri poeti il bacio o i baci si inseriscono all'interno di atmosfere sognanti includenti rose, erme e primavere languide, secondo un clichè tipico della poesia liberty.
 
 
Poesie sull'argomento
Fausto M. Bongioanni: "Butterfly-Kiss" in "Venti poesie" (1924).
Ricciotto Canudo: "La Bocca mistica" in "Poesia" n. 9/12, 1906.
Francesco Cazzamini Mussi: "Il bacio" in "I Canti dell'adolescenza (1904-1907)" (1908).
Francesco Cazzamini Mussi: "Bacio" in "Il cuore e l'urna" (1923).
Ottorino Checchi: "A Donna Elda" in "Poesia", agosto 1908.
Sergio Corazzini: "Un bacio" in «Marforio», novembre 1902.
Edmondo Corradi: "Se a voi, Madonna, ride nello sguardo" in "Nova postuma" (1904).
Edmondo Corradi: "Un vezzo breve, quale un tempo Lidia" in "Nova postuma" (1904).
Guglielmo Felice Damiani: "Il bacio" in "Lira spezzata" (1912).
Vincenzo Fago: "La nobil Donna alfine pietosa" e "Il bacio" in "Discordanze" (1905).
Alessandro Giribaldi: "I baci" in "Canti del prigioniero e altre liriche" (1940).
Domenico Gnoli: "Il bacio" in "Fra terra ed astri" (1903).
Corrado Govoni: "Senza baci" e "Bacio di libidine" in "Le Fiale" (1903).
Virgilio La Scola: "Intimità" in "La placida fonte" (1907).
Fausto Maria Martini: "Meditazione" in "Le piccole morte" (1906).
Fausto Maria Martini: "Tre quartine" in "Poesie provinciali" (1910).
Giovanni Pascoli: "Il bacio del morto" in "Myricae" (1900).
Emanuele Sella: "Il bacio" in "Monteluce" (1909).
Domenico Tumiati: "La bocca" in "Musica antica per chitarra" (1897).
 
 

Testi

TRE QUARTINE
di Fausto Maria Martini

Un giorno, era vestita di batista.
Mi piacque e la baciai sopra una mano:
ella porta, da quel giorno lontano
il bacio al dito come un'ametista.

Un giorno, sulla veste aveva tre
gigli dipinti e la baciai sugli occhi;
ella disse, tremandole i ginocchi:
amico mio, mi cresimi! Perché?

Io non l'amavo: ella mi disse addio!
Allora sulla bocca la baciai,
della sua bocca mi comunicai...
D'allora sempre, ella mi chiama: «mio!»

(Da "Poesie provinciali")

martedì 8 maggio 2012

"Pianissimo" di Camillo Sbarbaro


"Pianissimo" è il titolo di un'opera poetica scritta da Camillo Sbarbaro e pubblicata a Firenze nel 1914. Le poesie che la compongono costituiscono una delle pietre miliari della poesia italiana novecentesca, come hanno più volte affermato critici importanti; a tal riguardo, ecco una scelta di frammenti tratti da alcuni autorevoli saggi letterari e da antologie molto conosciute.


«La scrupolosa unità linguistica, la persistenza rispettata dei nessi sintattici tradizionali, permettono a Sbarbaro una descrizione lucidissima, necessaria, chiara e onesta della sua confessione, come documento fondamentale, in Pianissimo, di una condizione umana, che supera il crepuscolarismo per l'intima crudeltà della rappresentazione e la sincerità interiore del dramma. Sbarbaro raggiunge i suoi risultati stilistici, più abbandonandosi alla felicità del suo istinto, che per una vera e propria coscienza costruttiva: appare, perciò, continuamente impegnato in un estenuante problema di trasformazione dell'autobiografia in autocoscienza e di stimoli sentimentali in ragioni etiche. Ed è appunto per questo rigore, per questo impegno mai abbandonato che il moralismo tipico della sua età letteraria conquista, con lui, il primo importante anche se provvisorio risultato di stile».
(Da "La poesia italiana del Novecento" di Gianni Pozzi)


«Come anche rivela la lingua ("io mi torco in silenzio le mie mani", ecc.) la matrice culturale di Pianissimo è specificamente francese, in particolare baudleriana (ma sempre fittamente coniugata con Leopardi). Al centro vi è il mito negativo della città moderna come deserto o bordello, che come è stato notato rovescia quello positivo del futurismo - ed è significativo che contemporaneamente Campana lo esprimesse nelle forme più tipiche sul medesimo sfondo genovese; e v'è la dialettica di stampo maledettistico, qua e là forzosa, fra il richiamo di puri affetti familiari e l'attrazione della lussuria e del peccato: "storico di cupidige e di brividi" è l'icastica definizione che diede di Sbarbaro il giovane Montale. Incisivamente moderna e influente sulla poesia successiva, in primo luogo su Montale stesso, appare la tematica sbarbariana dell'atonia vitale, dell'aridità e pietrificazione interiore, con la spietata riduzione che ne consegue dell'individuo frantumato a sonnambulo o spettatore inerte della Vita».
(Da "Poeti italiani del Novecento" di Pier Vincenzo Mengaldo)


«Nella sua erranza notturna, Sbarbaro esplora i margini irregolari (i diseredati, gli espulsi: prostitute, ubriachi) del meccanismo economico, sulla scorta di guide "maledette", Baudelaire, e soprattutto Rimbaud. È appunto la ripulsa dell'identità trasmessa dal ceto sociale, che provoca lo svuotamento della propria immagine, e lo sdoppiamento delle componenti in un gioco ambiguo, dove all'io dolente si accosta subito un "altro io" pronto a "ridere frenetico". Il soggetto si ritrova "solo in faccia al nulla", colto nel momento in cui la sua rappresentazione si disintegra nello "smarrimento". Ma il momento qualificante di Sbarbaro è qui, nell'esporsi senza difese precostituite agli urti dell'esterno: se l'espressionismo, in Pianissimo, prevale sull'impressionismo, ciò si deve all'indebolimento degli schemi e delle costruzioni ideologiche che ingigantisce l'impressione, la rende "strana", e l'acutizza fino all'impatto traumatico, nei modi del trasalimento e del brivido».
(Da "La letteratura italiana del primo Novecento (1900-1915)" di Marcello Carlino e Francesco Muzzioli)


«La scrittura di Sbarbaro viene a configurarsi come una scrittura centripeta piuttosto che centrifuga; una scrittura che tenta di coinvolgere nel profondo il lettore piuttosto che sollecitarne l'orecchio superficialmente; una scrittura priva di artifici retorici, che opta per la persuasione; una scrittura che punta esclusivamente sul significato, sull'aspetto referenziale della parola».
(Da "Sbarbaro e Campana" di Ernesto Citro)


Personalmente, posso dire che lessi le prime poesie di "Pianissimo" in alcune antologie scolastiche e non, rimanendone subito entusiasta, e rammaricandomi di non conoscere ancora un poeta così bravo. Mi meravigliai di non trovare nelle librerie (anche le più grandi) un volume di versi di Sbarbaro. Comperai appena uscì la riedizione di "L'opera in verso e in prosa" della Garzanti (Milano 1995), un libro che sostanzialmente raccoglie quasi tutta l'opera poetica di Sbarbaro, escluso il volume d'esordio: "Resine", pubblicato nel 1911 e ristampato dalla Scheiwiller di Milano nel 1988. Ora, fortunatamente, oltre al volume citato è possibile acquistare anche una edizione commentata di "Pianissimo" (Marsilio 2001) e quindi la straordinaria poesia di Camillo Sbarbaro può essere letta, studiata e approfondita in maniera più che esauriente.

domenica 6 maggio 2012

Poeti dimenticati: Fausto Valsecchi

Fausto Valsecchi nacque a Lecco nel 1890 e morì a Milano nel 1914. Studiò prima a Lecco, poi a Sondrio e quindi a Bergamo, dove si diplomò. Le sue prime prove letterarie risalgono al 1908, mentre nel 1910 si stabilì a Milano e lavorò presso svariate riviste come "Il Secolo XX", "Lettura" e "Noi e il Mondo". Di questo periodo sono le poesie più famose di Valsecchi, che il poeta lecchese non ebbe mai modo di riunire in volume poiché il 14 giugno del 1914, a soli ventitre anni, morì dopo un tragico incidente con la sua barca avvenuto sul Naviglio di Milano. I suoi versi si rifanno decisamente al crepuscolarismo ed al simbolismo.
 




Opere poetiche

"Versi e novelle", Bartolozzi, Lecco 1966.
 
 
Presenze in antologie

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (p. 302-304).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. VIII, pp. 27-36).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 2, pp. 270-274).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo secondo, pp. 531-538).
 
 
Piatto anteriore di "Versi e novelle"
Testi

CHOPIN (PRELUDIO)

E musiche per camere d'infermi,
su vecchi pianoforti di cipresso,
dolci perché la sera che ritarda
non sia troppo penosa ai sofferenti.

Le camere son piene di violette.
E le sorelle suonano. La madre
cammina come un'ombra, sulla punta
dei piedi scalzi, senza far rumore.

Spasimano gli infermi in fondo ai letti,
pallidi per le angosce insoddisfatte
dei loro sensi, mentre il sangue batte
su quel ritmo di musica straziante.

Nelle camere piene di violette
la musica decresce a nota a nota,
s'affievolisce con la luce: quasi
non s'ode più... Non ci si vede più.

Ombra e silenzio... Invano le sorelle
danno le mani al bacio degli infermi,
che portano posata sopra il petto
la testa della madre, accanto ai cuori.

Fuori le prime stelle della sera
si coprono il bel volto con le palme,
per non vedere, e piegano un ginocchio
orando innanzi a calici di pianto.

(Da "Versi e novelle")


mercoledì 2 maggio 2012

Uomo vestito


Non ti ho mai visto spettinato
mai scarpe lordate
mai giacca spiegazzata
mai ginocchielli alle brache
mai cravatta snodata
e penso: quanto lavoro nella tua casa
per partorirti, alla strada, corretto, ogni mattina!
Quanta più fatica nella tua giornata
nella tua alzata e seduta
nella tua passeggiata
per serbarti, così, tale e quale,
perch'io di te possa dire
di non averti mai visto spettinato
mai scarpe lordate
mai giacca spiegazzata
mai cravatta snodata
mai ginocchielli alle brache.



Questa poesia di Piero Jahier (1884-1966) è compresa nel volume riassuntivo "Poesie e prose", Einaudi, Torino 1981 (vedi foto); Jahier si mise in luce pubblicando i suoi scritti sulla "Voce", rivista letteraria primonovecentesca fondata da Giuseppe Prezzolini che in breve divenne molto letta e famosa soprattutto negli ambienti degli intellettuali; in essa si sviluppò e consacrò il cosiddetto "frammento lirico", sorta di spezzone poetico che poteva presentarsi sia in forma di prosa, sia in versi. Nella poesia sopra riportata Jahier si scaglia contro coloro che curano in maniera ossessiva l'immagine, trascurando per questo tutto il resto; si nota la sua intelligente ironia nei confronti degli uomini che si occupano soltanto del loro aspetto esteriore, ovvero di quello più superficiale e meno rilevante della personalità.