giovedì 16 agosto 2012

I canti nella poesia italiana decadente e simbolista

Il canto è un argomento molto frequente nelle poesie dei decadenti e dei simbolisti, e può assumere vari significati; molto spesso i canti posseggono una sorta di incanto fascinatorio, molto simile a quello causato dalle mitiche Sirene; a questo proposito vi sono poesie (come "La Sirena" di Giovanni Pascoli e, più marcatamente, "Il canto delle sirene" di Tito Marrone) che si rifanno chiaramente a tali simboli. Anche il mistero, una volta di più, caratterizza in molti casi i canti, così come una intensa spiritualità. Ricorrenti sono pure i canti degli uccelli, tra i quali è l'usignolo a farla da padrone.
Passando ad una sommaria descrizione di alcune poesie, Antonino Anile in "Il canto dell'usignuolo" descrive la divina melodia del canto di questo uccello durante la notte, capace di creare una situazione incantata e estasiata che coinvolge tutti gli esseri della natura circostante.
Alfredo Catapano esterna la sua grande meraviglia nello scoprire che l'artefice di un canto meraviglioso non è altri che un uomo anziano e si chiede se il suo inno sia ispirato dalla imminente morte o dalla vita già vissuta.
Giovanni Alfredo Cesareo in un mite tramonto primaverile rimane ammaliato ascoltando un malinconico canto che sembra arrivare da un'anima vissuta in un tempo lontano. Sempre il Cesareo in un'altra poesia parla del canto di un gallo che gli impedisce di dormire e gli trasmette pensieri funebri; lo stesso canto in Govoni suscita ansie e preoccupazioni esistenziali.
Gabriele D'Annunzio racconta di un "canto solenne" ascoltato all'interno della basilica di San Pietro che "al mondo rivela un divino dolore". Pregna di un misticismo che però non ha nulla a che vedere col cristianesimo è "I cantori" di Giuseppe Lipparini.
I versi di Francesco Gaeta narrano di una terribile tempesta e del pauroso canto che ne scaturisce arcanamente.
Un'atmosfera incantata è di nuovo presente in uno dei "Notturni" di Adolfo De Bosis, dove, una volta di più, sono gli usignoli col loro canto a creare una sorta di paradiso terrestre.
Una figura femminile piena di aspetti arcani e ricca di grazia divina è la protagonista sei versi di Luisa Giaconi: "Ella", come la definisce la poetessa, intona un "antico e lento poema suo", e, mentre alcuni uomini la ascoltano in silenzio, Ella passa e si avvia verso i "suoi templi lontanissimi d'oro". Parlando poi di una poesia di Giuseppe Lipparini, anche Kate, come Ella, cammina cantando e si caratterizza per il profondo mistero della sua figura e del suo canto. È sempre una donna ad ammaliare con una melodiosa voce il poeta Cosimo Giorgieri Contri, che la ferma e le parla rimanendo poi ipnotizzato dai suoi occhi.
Giribaldi sente il canto dell'usignolo che arriva dalle sbarre della sua cella e che lo aiuta a sopprtare la disperazione causata dalla mancanza di libertà. Di nuovo un uccello, il chiurlo, cantando sommuove nella mente di Angiolo Orvieto sensazioni che gli fanno pensare ad una voce lontana in cerca, col suo straziante canto, di una speranza ormai inutile.
Arturo Graf si commuove ascoltando una voce enigmatica che, in una notte stellata, intona una famosa aria di Vincenzo Bellini: "Casta Diva"; mentre Corrado Govoni si chiede donde venga una misteriosissima canzone portata dal vento. Simile a quella del Graf è una poesia di Pompeo Bettini in cui un dolcissimo canto di donna conduce il poeta alla meditazione e alla malinconia.
Nell'ambito della poesia crepuscolare si trovano elementi contrastanti: Guelfo Civinini è sollecitato da una sconosciuta interlocutrice a cantargli qualcosa, e lui allora pensa ad una vecchia romanza dimenticata da tutti, che gli possa ricordare un passato gioioso ormai perso del tutto; Corrado Govoni consiglia ad una piccola canzonettista di smettere il suo canto, ché secondo lui suscita soltanto tristezza e malinconia; Tito Marrone canta alla donna amata una serenata triste, poiché la sua voce è malata e la sua anima è morta; infine Fausto Maria Martini durante un pomeriggio trascorso in casa sente il suono di un pianoforte che gli fa tornare in mente i momenti in cui la sua donna, ora lontana, suonava lo strumento a corda e cantava delle canzonette; a ciò pensando decide di mandargli un messaggio in cui gli chiede di ritornare per cantargli la canzonetta della sua morte.
 
 
 
Poesie sull'argomento
Antonino Anile: "Il canto dell'usignuolo" in "Poesie" (1921).
Pompeo Bettini: "Una dolcissima bocca" in «Cronaca moderna», febbraio 1895.
Alfredo Catapano: "Per un vecchio che canta" in "Dai Canti" (1929).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Sfuma ranciato il vespero sul mare" in "Le consolatrici" (1905).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Canto di galli" in "I canti di Pan" (1920).
Guelfo Civinini: "Una romanza dimenticata" in "I sentieri e le nuvole" (1911).
Guglielmo Felice Damiani: "Serenata" in "Lira spezzata" (1912).
Gabriele D'Annunzio: "In San Pietro" in "Elegie romane" (1892).
Adolfo De Bosis: "Cantano rosignoli entro laureti" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Federico De Maria: "La Canzone dell'Usignuolo" in "Voci" (1903).
Marcus De Rubris: "Ó sentito più volte una canzone" in "Anima nova" (1906).
Francesco Gaeta: "La tempesta" in "Sonetti voluttuosi e altre poesie" (1906).
Diego Garoglio: "L'usignolo" e "Canto e pianoforte" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Luisa Giaconi: "Armonia" in "Tebaide" (1909).
Giulio Gianelli: "Pianto d'amore" in «Il Momento Illustrato», agosto 1906.
Cosimo Giorgieri Contri: "Marina di Versilia" in "La donna del velo" (1905).
Alessandro Giribaldi: "Ad un piccolo cantore" in "Canti del prigioniero e altre liriche" (1940).
Corrado Govoni "Il canto del gallo" e "Canzone al vento" in "Gli aborti" (1907).
Corrado Govoni: "Ad una piccola canzonettista" in "Poesie elettriche" (1911).
Arturo Graf: "Casta Diva" in "Le Rime della Selva" (1906).
Marco Lessona: "Il canto delle stelle" in "Ritmi" (1902).
Giuseppe Lipparini: "Kate" e "I cantori" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Olindo Malagodi: "Un canto del mistero" in "Poesie vecchie e nuove (1890-1915)" (1928).
Tito Marrone: "Il canto delle sirene" e "Serenata nuziale" in "Cesellature" (1899).
Tito Marrone: "Una palida luce" in "Le rime del commiato" (1901).
Fausto Maria Martini: "La canzonetta" in "Panem nostrum" (1907).
Fausto Maria Martini: "Elegia del «caffè concerto»" in "Poesie provinciali" (1910).
Angiolo Orvieto: "Chiurlòdo" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Enrico Panzacchi: "Terribil sirena invernale" in "Poesie" (1908).
Giovanni Pascoli: "La Sirena" in "Myricae" (1900).
Francesco Pastonchi: "Canto di mendicante" in "I versetti" (1930).
Romolo Quaglino: "Le schiave" in "Dialoghi d'Esteta" (1899).
Fausto Salvatori, "Alita il vento ed è la prima sera" in "In ombra d'amore" (1929).
Carlo Vallini: "Regnando il mezzodì sotto la cava" in "La rinunzia" (1907).
 
 
 
Testi
TERRIBIL SIRENA INVERNALE
di Enrico Panzacchi

Par dentro alla neve, tra gli alberi,
la piccola casa sepolta.
Tu canti ; e non sai nella tenebra
chi fuori, pensoso, t'ascolta;

t'ascolta cantare, cantare
in mesti volubili metri.
Rosseggian riflesse nei vetri
le fiamme del tuo focolare.

Ho freddo. Nei sensi, nell'anima
mi filtra un affanno mortale.
Tu evochi le care memorie,
terribil sirena invernale!

Danno echi d'angoscia e di pianti
gli avori del tuo pianoforte;
un tetro pensiero di morte
esala ne' dolci tuoi canti.

(Da "Poesie")

mercoledì 15 agosto 2012

All lost

Ma sono allegro. Allegro
come chi non ha più titubanza.
Come lo fu «il povero negro»
nel Kentucky, in piena disperanza.






Questa breve poesia di Giorgio Caproni (1912-1990) fa parte della raccolta "Il conte di Kevenhuller" (1986) ed è rappresentativa del suo secondo periodo poetico contraddistinto da una frequente essenzialità e da un pessimismo che spesso si manifesta con una sentenza sarcastica. Qui ad esempio il titolo in inglese già spiega molto ("Tutto perso" in italiano) e la parola iniziale della poesia, quel "Ma", si riferisce esattamente al titolo ed evidenzia che, malgrado la perdita totale non ben definita, il poeta ha mantenuto l'allegria, allegria di chi non ha più preoccupazioni (titubanza) esattamente come il povero (negro) che non ha più nulla da temere né da sperare dalla vita.


Da "Buffonate, Satire e Fantasie" di Giovanni Papini

Questa mia repugnanza per qualunque azione, per minima che sia, mi strozza ogni piacere, mi serra ogni strada. Ho incontrato donne che mi piacevano, ragazze che avrei potuto far mie — amanti possibili di un giorno o di un anno, mogli eventuali di tutta la vita. Ma v'immaginate voi ch'io potessi fare quel che si chiama la corte; quei primi approcci, tentativi ed assalti che son necessari per impadronirsi di un individuo del sesso avverso? Chi mi avrebbe dato la voglia e il coraggio di scriver le famose lettere, di lavorare cogli occhi, colle mani, coi piedi, di passar le ore sotto una finestra; di mandare i fiori, i regalucci, gli espressi, le ambasciate e tutte le altre diavolerie amorose così seccanti eppur tanto necessarie?
Accompagnare una donna a far passeggiate, a teatro, a casa; doverla tentare, assalire.... Ahimè! Non son capace. Piuttosto ne faccio a meno. Rinunzio all'amore e a tutte le belle del mondo. Se venissero da sé, senza dichiarazioni, senza preparativi, senza lotte — spontaneamente, semplicemente — allora non avrei nulla in contrario. Ma questa parte di cacciatore inquieto e sudato, questo lavorìo complesso e infinito di seduzione e di conversazione, mi spaventa — e più che altro mi spaventa per le piccole noie, per i meschini imbarazzi, per le ridicole attese e finzioni, non per il resto.
Mi succede lo stesso anche in altre faccende della vita. Io sento d'avere in me, per esempio, la possibilità  di scrivere qualcosa che non sarebbe una nauseabonda rifrittura di roba già detta. Vedo il mondo a modo mio, ho una personalità che non mi sembra comune; mi vengono in testa, a volte, pensieri non del tutto imbecilli. Ma indietreggio subito davanti alla tentazione di essere un uomo stampato quando intravedo la necessità di dover comprare l'inchiostro, la penna, la carta, eppoi, quel ch'è peggio, di dover inzuppare la penna in quell'inchiostro chissà quante volte e di dover ricoprire, quella carta, io, colla mia mano, di migliaia e migliaia di lettere. Non è possibile. E rimango un uomo oscuro, senza speranza di gloria.
Per le stesse ridicole ragioni ogni forma di gioia mi è impedita. Avrei abbastanza denari per viaggiare ma son fermato dall'impossibilità fisica di compulsare un orario, di andare alla stazione all'ora precisa, di scegliere un albergo, di chieder da mangiare. Non vado alle esposizioni per non dover discutere cogli amici; non entro mai in un teatro per non dover comprare il biglietto ; non frequento le biblioteche per non aver da scrivere schede. Sto in una casa fredda, scomoda, senza luce, eppure tremo all'idea di andare in un migliore appartamento, tanto mi atterrisce la visione infernale dello sgombero, della roba sui carri, delle trattative, dei nuovi accomodamenti. Per fortuna non ho dovuto fare il soldato altrimenti mi avrebbero fucilato il giorno dopo. Piuttosto che muovere una foglia o scansarmi da un posto mi lascerei cascare il mondo addosso. Neppur la vicinanza della morte mi scuote. Son l'eroe dell'apatia.
Apatia? Non credo, non mi pare. Io sono appassionato per un'infinità di cose. L'ho già detto: tutto mi attira. Ma non vorrei far nulla per andare verso ciò che mi piace; vorrei che tutto fosse attirato da me, sì da poterlo godere senza passare per la triste dogana dello sforzo.


(Da "Buffonate, Satire e Fantasie" di Giovanni Papini, Libreria della Voce, Firenze 1914, pp. 69-71)



Questo bellissimo frammento di Giovanni Papini (Firenze 1881 – ivi 1956), quando lo lessi per la prima volta, mi portò a pensare ad un personaggio di un famoso romanzo russo del XIX secolo: Oblomov (di Ivan Aleksandrovič Gončarov). Qui, come nel romanzo che ho citato, si parla di una persona incredibilmente indolente, spaventosamente pigra e totalmente apatica. L’uomo sa che sarebbe in grado di fare svariate cose importanti, e che tali cose, se le facesse, potrebbero migliorare la sua attuale vita; ma, vinto, appunto, da difetti e vizi che gli creano mille ansie, rimane nell’immobilismo più completo. Chi avrà letto Oblomov, si renderà certo conto di quante somiglianze ci siano nel personaggio di Papini, col benestante proprietario terriero che trascorre l’intera esistenza non combinando nulla, faticando perfino ad alzarsi dal letto la mattina. Ahimè, sia in questo frammento che nel romanzo russo, trovo più di una somiglianza - pur con delle differenze che non sto a precisare - col mio personale comportamento e con la mia inguaribile apatia; anche per questo mi piacciono entrambi.


lunedì 13 agosto 2012

Poeti dimenticati: Emilio De Marchi

Emilio De Marchi (Milano 1851 - ivi 1901) compì nella città natale i suoi studi fino alla laurea in lettere; in seguito cominciò a insegnare nei licei, fino a quando, nel 1890, conseguì la libera docenza in stilistica; tale materia insegnò per sei anni all'Accademia scientifico-letteraria. Il De Marchi è ancora oggi piuttosto famoso per i suoi romanzi che raccontano le vicende di tutti i giorni della piccola borghesia cittadina (Demetrio Pianelli, 1890; Giacomo l'idealista, 1897); lo è certamente di meno per le sue poesie in cui si evidenzia un tono colloquiale e una frequente vena ironica.
 
 
Opere poetiche

"Poesie", Treves, Milano 1875.
"Sonetti", Bortolotti, Milano 1877.
"Vecchie cadenze e nuove", Agnelli, Milano 1899.
 
 
Presenze in antologie

"I Poeti Italiani del secolo XIX", a cura di Raffaello Barbiera, Treves, Milano 1913 (pp. 1259-1261).
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 289-294)
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 296-301).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp.601-604).
 
 
 
Testi
DOPO LA PIOGGIA


Fra i corni della Grigna apresi e pare
Una scena di mare umido il ciel:
E l'aria vaporosa
Come sul corpo di novella sposa
Cinge alla vetta rugiadosa un vel.


Scendon le nubi che trasporta il vento,
Lasciando un lento strascico regal
Che s'imporpora al sole:
Si screzia nel color delle viole
Il trasparente lembo boreal.


Dentro le valli a corsa si allontana
E si rintana il carro aspro dei tuon.
Qui salta ilare il fonte
Che fa la barba bianca al vecchio monte,
Empiendo il sasso d'un pazzo frastuon.


O ristorati dall'iniquo caldo,
O di smeraldo prati, o vigne, o bel
Poggio di folti ulivi,
Alfin vi vedo morbidi e giulivi
Della frescura che a voi diede il ciel.


Io no, che sempre sitibondo e roco,
Dall'alto invoco un refrigerio al cor;
Ma per mutar di vento,
Raccolto appena il desiderio, sento
Che torna in polve il desiderio ancor.

(Da "Vecchie cadenze e nuove")


domenica 12 agosto 2012

Le campane nella poesia italiana decadente e simbolista

Le campane sono, principalmente, il simbolo della cristianità e il loro suono è la voce di Dio che unisce cielo e terra. Molto spesso i poeti decadenti e simbolisti parlando di campane avevano come riferimento la religione cristiana, ma a volte non era così. Ci sono infatti alcuni casi in cui la campana diviene il simbolo di un passato glorioso ormai irripetibile, altre volte assume valore di ricordo affettivo, altre ancora di ammonimento, di dolore o di morte. Il suono delle campane ha attratto questi scrittori come molti altri di tutte le epoche poiché possiede un fascino mistico e magico, malinconico e favoloso; per tal motivo sono molti i versi che insigni poeti, da Pascoli a Corazzini, da Graf a Buzzi, hanno dedicato loro.
 
 

Poesie sull'argomento
Alfredo Baccelli: "La campana invisibile" in "Poesie" (1929).
Sandro Baganzani: "Campane di sera" in "Senzanome" (1924).
Ugo Betti: "Le campane" in "Il Re pensieroso" (1922).
Ettore Botteghi: "Mattutino" in "Poesie" (1902).
Paolo Buzzi: "Le campane" in "Aeroplani" (1909).
Giovanni Camerana: "È la festa doman della Madonna" in "Poesie" (1968).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Campana a sera" in "Le consolatrici" (1905).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Oscura una campana" in "I canti di Pan" (1920).
Sergio Corazzini: "Campana" in «Marforio», febbraio 1903.
Sergio Corazzini: "La campana" in "Marforio", giugno 1903.
Guglielmo Felice Damiani: "Campane" in "Lira spezzata" (1912).
Federico De Maria: "Campane" (I e II) in "Voci" (1903).
Ugo Ghiron: "Campana a stormo" in "Poesie (1908-1930)" (1932).
Luisa Giaconi: "Suoni di campane" in "Tebaide" (1912).
Alessandro Giribaldi: "Rintocchi" in "Canti del prigioniero e altre liriche" (1940).
Corrado Govoni: "O campane argentine" in "Armonia in grigio et in silenzio" (1903).
Corrado Govoni "Le campane" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "La campana" in "Medusa" (1890).
Arturo Graf: "Ultima campana" in "Le Danaidi" (1897).
Tito Marrone: "Le campane" in "Liriche" (1904).
Pietro Mastri: "Ai piedi del campanile di Giotto" in "La fronda oscillante" (1923).
Nino Oxilia: "Un tocco di campana" in "Canti brevi" (1909).
Giovanni Pascoli: "Alba festiva" in "Myricae" (1900).
Francesco Pastonchi: "Ave Maria" in "Sul limite dell'ombra" (1905).
Giulio Salvadori: "Vespere jam facto" in «Domenica letteraria», febbraio 1884.
Fausto Salvatori: "Santa Francesca Romana" in "La Terra promessa" (1907).
Alessandro Varaldo: "Non più ricordi. Tutta la riviera" in "Marine liguri" (1898).
Mario Venditti, "Dies festus" in "Il terzetto" (1911).
Mario Venditti, "La campana che ammonisce" in "Il cuore al trapezio" (1921).
 
 
 
Testi

AVE MARIA
di Francesco Pastonchi

Le squille dell'Ave Maria
Ondeggiano in grembo alla sera.
Sia pace a colui che desia,
Sia pace a colui che dispera!

È l'ora in cui giunge il pensiero
A plaghe nel sogno intraviste:
S'umilia dinnanzi al mistero
La gloria di mille conquiste.

È l'ora che il vinto si adagia,
Si affonda in un torpido stagno
E invoca la Morte randagia
Che venga a troncare il suo lagno.

È l'ora in cui torna in cammino
Il povero che s'è sfamato,
Guardando il fulgor vespertino
Dall'orlo di un roco fossato.

Le squille dell'Ave Maria
Si spengono in grembo alla sera...
Sia pace a colui che s'avvia
Incontro alla notte sua, nera.

(Da "Sul limite dell'ombra")
 
 
 
 
LA CAMPANA CHE AMMONISCE
di Mario Venditti

Suona la seconda volta
e suonerà poi la terza
questa campana che sferza
l'anima di chi la ascolta.

Se l'eco tale non fosse,
parrebbe un giorno d'aprile:
ha un che di primaverile
la vitalba a foglie rosse;

e il sole ha troppi diademi
perché dian perle i nostri occhi;
e innanzi ai nostri ginocchi
sembran rose i crisantemi.

Ma forse tale è la squilla
proprio per questo: diversa
sarebbe ad aria non tersa
e a vitalba non vermiglia.

(Da "Il cuore al trapezio")

mercoledì 8 agosto 2012

Poeti dimenticati: Alessandro Benedetti

Nel caso di Alessandro Benedetti, più che di un poeta dimenticato, si può parlare di "un poeta mai considerato", visto che pubblicò soltanto poche poesie su alcune riviste d'inizio Novecento per poi abbandonare definitivamente la letteratura. Andando a cercare qualche notizia sulla sua vita, si scopre che fece parte del cenacolo romano di poeti vicini a Sergio Corazzini, tant'è vero che quest'ultimo dedicò più di una poesia al Benedetti. È poi citato da Nino Tripodi nella prefazione alla sua antologia "I crepuscolari" del 1966 quale precursore della poesia crepuscolare. I suoi versi in effetti molto ricalcano le tendenze care sia a Corazzini che ai poeti crepuscolari e decadenti, lo attestano le presenze assidue di parchi in disfacimento, primavere languide e conseguenti atmosfere malinconiche.
 
 


Presenze in antologie

"Neoidealismo e rinascenza latina tra Ottocento e Novecento", a cura di Angela Ida Villa, LED, Milano 1999 (pp. 579-584).
 
 

Testi
 
IL PARCO

Amica dolce, è così triste il parco
or che l'Autunno pianse tutti i pianti,
e un po' di mare sotto i tuoi stellanti
occhi fiorì languidamente in arco.

Amica piangi: sovra il noto varco
i nostri sogni che ben sai cotanti
ingroppano le nubi galoppanti,
e nostro andare è d'ogni pena carco.

Vedi: gli alberi tendono le braccia,
contorte sì come groppo di bisce,
e via pe' cieli giostran le chimere

folli, avide del vento alla minaccia,
sorridendo agli ontani che intristisce,
un tenero desìo di Primavere.

(Dal "Giornale d'Arte", 18 giugno 1904)

martedì 7 agosto 2012

Da "Feria d'agosto" di Cesare Pavese


Nessun bambino ha coscienza di vivere in un mondo mitico. Ciò s’accompagna all’altro noto fatto che nessun bambino sa nulla del «paradiso infantile» a cui a suo tempo l’uomo s’accorgerà d’esser vissuto. La ragione è che negli anni mitici il bambino ha assai di meglio da fare che dare un nome al suo stato. Gli tocca vivere questo stato e conoscere il mondo. Ora, da bambini il mondo si impara a conoscerlo non - come parrebbe - con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni di queste: parole, vignette, racconti. Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva e lo conteneva. Al bambino questo segno si fa simbolo, perché naturalmente a quel tempo la fantasia gli giunge come realtà, come conoscenza oggettiva e non come invenzione.

(Da "Feria d'agosto" di Cesare Pavese, Einaudi, Torino 2011, p. 152)





Bellissimo frammento che ho tratto dal volume Feria d’agosto di Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo 1908 – Torno 1950), in cui lo scrittore piemontese descrive, in modo ineccepibile, i sentimenti, i pensieri, le emozioni e le fantasie dell’età infantile; è un modo del tutto personale d’intendere e d’interpretare questo meraviglioso periodo della vita degli esseri umani, in cui mi è riuscito facile essere d’accordo, ripensando io stesso a quella che considero di gran lunga la parte più bella della vita: la fanciullezza. Ma Feria d’agosto non si concentra soltanto su questo argomento, che viene trattato nel capitolo Del mito, del simbolo ed altro: in questo memorabile libro, pubblicato per la prima volta nel 1946, si possono leggere racconti e prose di altro genere, altrettanto interessanti; è, insomma, una delle opere in prosa più significative di Pavese: uno dei nostri miglior scrittori del Novecento.