domenica 23 settembre 2012

Stati d'animo d'un suicida

Nebbia Nebbia
Oriente -
Orrore spasimo
brancolamento tra le folgori -
Fuggire fuggire
Ubriacarsi
VUOTO
da cui si può cadere
in una via deserta
albe invernali
suoni bisbetici
pieni di braccia movimentate
voci oscillanti
lumi miagolanti
Assalto di rumori
vermi sul cuore
sulla gola
nel ventre fra i ginocchi
Gesti magici
resuscitanti cadaveri
mani invisibili
che scompongono misteri
pazientemente edificati
Rumori Rumori
Muraglie
gocciolanti umidi spasimi verdi
nomi di donne
amalgamati di nebbia e di velluto:
Leonora - Berenice
Morella - Beatrice
Svolazzamento di baci intorno
ventose di zucchero
e di musica
SBARAGLIAMENTO: crepuscoli
salotti - amori
smaniosità - pesantezza
brrrrrrividi
Morte.


Questa poesia di Alberto Viviani (Firenze 1894 - ivi 1970) fu pubblicata sulla rivista Lacerba il 15 gennaio del 1914. L'autore, in gioventù scrisse dei versi che pubblicò sia in riviste che in raccolte. Si può dire che nelle sue poesie Viviani abbracciò diverse correnti che spopolavano nell'Italia dei primi anni del XX secolo: in particolar modo fu attratto dal crepuscolarismo e dal futurismo. Se c'è un poeta che ebbe come principale riferimento, certamente questo è il suo concittadino Aldo Palazzeschi. Nei versi di Stati d'animo d'un suicida però, si notano piuttosto quelle ben identificabili caratteristiche della poesia futurista che nella rivista Lacerba ebbe modo di esprimersi più che altrove. Va detto comunque che Viviani non si dimostrò quasi mai particolarmente portato verso gli sperimentalismi più arditi dei futuristi; tale considerazione vale anche per questa poesia, che ben s'inserisce nei temi e nelle atmosfere di quelle di altri famosi futuristi come Paolo Buzzi e Luciano Folgore.

giovedì 20 settembre 2012

Poeti dimenticati: Arturo Foà

Arturo Foà nacque a Cuneo nel 1877 e morì nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1944. Fu poeta, narratore, autore di teatro e critico letterario; laureatosi in lettere e filosofia nel 1898, visse fin dalla gioventù a Torino frequentando gli ambienti letterari della città e stringendo amicizia con altri poeti come Francesco Pastonchi e Giulio Gianelli. Nel 1912 pubblicò Le vie dell'anima, raccolta di poesie che mette in luce la tendenza, da parte di Foà, a proseguire la strada tracciata dal suo maestro Arturo Graf e da un altro suo conterraneo: Enrico Thovez. Le opere poetiche successive a queste mostrano un patriottismo un po' troppo enfatizzato, ma non sono prive di versi semplici, a volte malinconici, che si rifanno comunque alla poesia del passato. Malgrado la sua militanza fascista, Foà, in quanto ebreo, nel 1943 fu deportato ad Auschwitz, dove in breve tempo morì.
 

 
Opere poetiche

"Per le navi riunite", Edizione di Fiamma, Torino 1901.
"Per un amore", Streglio, Torino 1903.
"Le vie dell'anima", Lattes & C., Torino 1912.
"I cuori d'Italia", Lattes & C., Torino 1915.
"La Fiumana", S.E.L.P., Torino 1932.
"Mentre il popolo è grande", Lattes, Torino 1935.
"Liriche scelte", Ceschina, Milano 1937.
"Per me e per voi", Lattes, Torino 1940.
 

 
Presenze in antologie
"Poeti per Torino", a cura di Roberto Rossi Precerutti, Viennepierre Edizioni, Milano 2008.
 
 

Testi
UNA ROSA

Io cammino tra verdi ombre boschive,
sotto trilli di gole e frulli d'ale,
immemore del tempo e della vita.

Ah, che un'umile rosa disfiorita
apparsa sovra un margin di sentiero,
mi porta con il cor fra le tue rive,
o mondo umano o correntia fatale,
ove ogni dolce, ogni diletta cosa,
ruina giorno e notte senza posa
verso il tragico abisso del mistero!

(Da "Le vie dell'anima")
 
 

 
OCCHI DEL SOGNO

Fu come un orto nel fiorente aprile:
Egli amò le serene ore fra i giochi
Del sole sopra i mandorli ed i peschi.

Amò l'odore delle rose e il dolce
Svolìo di qualche futile ombra d'ali
Al molle riso dei tramonti d'oro.

E amò le sere glaucoazzurre e l'orto
Era sì breve e fra le stelle e i fiori
Correano lunghi tremolii perlati.

L'orto è chiuso, per sempre. Egli ha dinanzi
Solo una via nuda e deserta. A quale
Destino? Orto del sogno! Occhi del sogno!

(Da "La Fiumana")



venerdì 14 settembre 2012

La casa nella poesia italiana decadente e simbolista

La casa spesso simboleggia l'individuo con tutte le caratteristiche soggettive, diverse a seconda della personalità; per questo può manifestare estroversione (casa dalle finestre aperte) o introversione (casa chiusa e misteriosa), superbia (palazzo fastoso) o umiltà (catapecchia) e via dicendo. Da Lucini a Palazzeschi, da Ceccardi a Govoni, la casa è stata non di rado argomento delle poesie; nei crepuscolari si ritrova spesso come simbolo di un passato felice e pieno di rimpianti, ormai lontano e irrecuperabile; da qui la ricorrente presenza di edifici vecchi e cadenti, o addirittura in fase di demolizione. Non rari i riferimenti alle favole con conseguenti immagini di case improbabili nelle cui descrizioni si avverte una attenzione primaria ai colori delle facciate ed agli abitanti di queste, siano essi animali o persone, che a loro volta divengono simboli da decifrare.
 
 
 
Poesie sull'argomento

Diego Angeli: "Una vecchia casa" in "L'Oratorio d'amore" (1904).
Antonio Beltramelli: "La casa e la cicogna" in "I Canti di Faunus" (1908).
Ugo Betti: "La casa morta" e "I palazzi di smeraldo" in "Il Re pensieroso" (1922).
Fausto M. Bongioanni: "Case di Lungo Po" in "Venti poesie" (1924).
Giuseppe Casalinuovo: "Palazzo chiuso" in "La lampada del poeta" (1929).
Guelfo Civinini: "La méta" in "L'Urna" (1900).
Sergio Corazzini: "La finestra aperta sul mare" in "Le aureole" (1905).
Adolfo De Bosis: "Casa, o diletto nido" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Federico De Maria: "La vecchia casa" in "Leggenda della vita" (1909).
Federico De Maria: "Casa" da "La ritornata" (1933).
Diego Garoglio: "Villino chiuso" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Luisa Giaconi: "La casa sul monte" in "Tebaide" (1909).
Cosimo Giorgieri Contri: "Vecchio stabilimento" in "Il convegno dei cipressi" (1894).
Cosimo Giorgieri Contri: "La casa antica" in «La Riviera Ligure», dicembre 1900.
Corrado Govoni "Il palazzo dell'anima" e "Palazzo bisestile" in "Gli aborti" (1907).
Corrado Govoni: "Il palazzo delle principesse salamandre" in "Poesie elettriche" (1911).
Guido Gozzano: "I sonetti del ritorno" in "La via del rifugio" (1907).
Virgilio La Scola: "La casa del passato" in "La placida fonte" (1907).
Virgilio La Scola: "Domus Aurea" in "Poesia", giugno 1908.
Giuseppe Lipparini: "La casa" in "Lo specchioe delle rose" (1898).
Gian Pietro Lucini: "Una casa" in "Il Libro delle Imagini terrene" (1898).
Remo Mannoni: "Case popolari" in "Fermento" (1931).
Tito Marrone: "Un poeta" in "Liriche" (1904).
Tito Marrone: "Il balcone" in «La fronda», giugno 1905.
Nicola Moscardelli: "La casa" in "La Veglia" (1913).
Angiolo Silvio Novaro: "La casa del Signore" in "La casa del Signore" (1905).
Arturo Onofri: "Vorrei per me una casetta..." in "Canti delle oasi" (1909).
Aldo Palazzeschi: "La casa di Mara" in "I cavalli bianchi" (1905).
Aldo Palazzeschi: "A palazzo oro ror" e "Palazzo Mirena" in "Lanterna" (1907).
Francesco Pastonchi: "Casa in collina" in "Sul limite dell'ombra" (1905).
Giuseppe Piazza: "Le case" in "Le Eumenidi" (1903).
Yosto Randaccio: "Casetta bianca" in "Poemetti della convalescenza" (1909).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "I casolari" in "Il libro dei frammenti" (1895).
Guido Ruberti: "Case in demolizione" in "Le Evocazioni" (1909).
Giovanni Tecchio: "Domus conclusa" in "Mysterium" (1894).
Domenico Tumiati: "La casa del grande albero" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Carlo Vallini: "Da questa vecchia casa..." in "La rinunzia" (1907).
 
 

 
Testi 

UNA CASA
di Gian Pietro Lucini

Glicine scapigliate, alle ringhiere
malinconiose, languon di viola
a coronar l’ogive alte e severe.
Ma in sulla porta brilla una parola
brunita d’or, divisa a uno scacchiere
araldico e mi turba. Questa sola
farà ch’io tenti all’usciuolo. Chimere?
Ed oltre, e poi? Singhiozza una vivuola

come un pianto e una voce fresca intona
un antico mottetto ed obliato.
Questa casa di sogno, dentro al bosco
delle grigie illusioni, s’abbandona
al groviglio dei rami, ed un malato
pino s’educa in corte nano e fosco.

(Da "Prose e canzoni amare")

martedì 11 settembre 2012

Ritorno

Dopo dieci anni ritorno
Ne la mia città natale.
Deh, come ne ‘l nuovo soggiorno,
nulla parmi a ‘l vecchio eguale!

Mutate le case, le strade,
le insegne, - ma più le persone:
odor di sfiorite corone
l’aria ed il mare pervade.

Odore di vecchie cose
àlita da le porte:
pianto di cose corrose,
sorriso di cose morte.

I bimbi d’allora, gli eguali,
non li riconosco più:
quali sono vecchi, e quali
son dileguati laggiù…

laggiù, ne la correntia
de ‘l Tempo, che tutto muta;
o laggiù, su la grigia via
de i Morti, oltre il tempo sperduta!

Antonio Cippico

(Dalla rivista "Poesia", maggio/giugno 1905)

domenica 9 settembre 2012

Strade native

E noi cammineremo nel tardo crepuscolo soli,
soli, parlando rado, stringendoci rado vicino:
l'aria sarà di perla, il cielo parrà di rubino
alto, sul piano bigio, solcato dalli ultimi voli.


E sentiremo, lente, sui margini umidi, a stuoli,
cader le foglie; o stridere un carro da un campo vicino;
da qualche porta aperta vedremo brillar di rubino
una fiammata: e china qualch'ombra su neri paioli.


Umili vite, ah bene di me più felici, più molto
felici; e sempre sempre rimaste fra i taciti olivi
presso le dolci case, sottessi i bei colli solivi
che alle sommesse case promettono il mite raccolto.


Altre ombre vengon, vedi: discendono lente, con folto
carco di rami a spalle, le strade rupestri dei clivi:
ecco: e la via maestra li accoglie tra' suoi radi olivi
donde le rade case già occhieggian di un lume raccolto.


Strade nel tardo autunno dilette a percorrere allora!
Sai tu come più lungo indugi il crepuscolo ai piani,
come più solitarie da' lor campanili lontani
piangano le campane traverso il silenzio dell'ora?


Sai tu nell'ombra le ombre? Sai tu nella strada, che odora
di cose morte, il fiato che spande Novembre sui piani,
freddo e pur anche intriso di odori di fiori lontani,
fiori in Ottobre morti che pure profumano ancora?


Cammineremo lenti. Ed io ti dirò la mia vita
che tu non sai... La vita già presso all'autunno. Mi pare
ch'io ti potrò dir tutto, ch'io ti potrò meglio parlare
così senza vederti, per via già di ombre alte vestita.


Ch'io parlerò più sereno se le tue tenere dita
intreccieranno a queste mie mani dolenti. Mi pare
ch'io ti potrò dir tutto... Tu ascoltami senza parlare,
come s'io fossi un'ombra che parla da un'ombra infinita.


Non levar li occhi. Ascolta. Mi turbano troppo i tuoi occhi
che ancor l'amore accende, cui tenta i bei cigli la gioia:
per me la gioia è morta. Conviene l'amore che muoia
anche. Tu non guardarmi. Mi par che il tuo sguardo mi tocchi.


E non voglio io sentire riaccarezzarmi i ginocchi
dalla tua veste. Adesso io son come un'ombra. E la gioia
mi ucciderebbe forse. Ah tu non vorresti ch'io muoia:
tu non guardarmi. Lascia che tutto il mio pianto trabocchi.


Pianto che niun più seppe, che troppo già pesami ormai
sul faticato cuore. Chi seppe il mio pianto? Non tu
desiderata allora, nel tempo diletto che fu
de' nostri giovani anni, delli anni che non obliai.


Lunge tu fosti. E in altri giardini ti arriser rosai:
or non tu rose porta su l'ultima mia gioventù :
quello che non è più tu sai che non fu; che non fu
mai. Noi ci amammo un tempo? Bene è: non ci amammo noi mai.


Pure è soave ancora trovarci, al pendìo della vita.
Piacquemi assai l'autunno. Non è questo, autunno? Mi pare
ch'io ti potrò dir tutto. Tu ascoltami senza parlare,
come s'io fossi un'ombra che parla da un'ombra infinita.


E fa ch'io senta solo, a tratti, le piccole dita
tue di bambina ancora sulli occhi miei colmi d'amare
lagrime. E non parlare. Non puoi consolarmi. Mi pare
che la mia pena taccia. Ma non dirmi nulla. È la vita.


(Da "Primavere del Desiderio e dell'Oblio" di Cosimo Giorgieri Contri, Lattes, Torino 1903, pp. 53-56)

venerdì 7 settembre 2012

Settembre in dieci poesie

SETTEMBRE

Già l'olea fragrante nei giardini
d'amarezza ci punge: il lago un poco
si ritira da noi, scopre una spiaggia
d'aride cose,
di remi infranti, di reti strappate.
E il vento che illumina le vigne
già volge ai giorni fermi queste plaghe
da una dubbiosa brulicante estate.


Nella morte già certa
cammineremo con più coraggio,
andremo a lento guado coi cani
nell'onda che rotola minuta.


(Vittorio Sereni)



***



SETTEMBRE

Chiaro cielo di settembre
illuminato e paziente
sugli alberi frondosi
sulle tegole rosse


fresca erba
su cui volano farfalle
come i pensieri d’amore
nei tuoi occhi


giorno che scorri
senza nostalgie
canoro giorno di settembre
che ti specchi nel mio calmo cuore.


(Attilio Bertolucci)



***



SONETTO DI SETTEMBRE

Settembre, qual dolcezza nuova emana
al lento luminoso dilagare
del sole nelle tue mattine chiare,
dalla mia blanda terra emiliana?


Sembra ogni forma fatta piú lontana
da un vel di sogno e di silenzio: pare
che ogni albero, ogni zolla, ogni filare,
tremi nel sole d’una gioia umana.


Mentr’io, sperduto nei silenzi, ascolto
come ogni frutto in un respiro armonico
d’una celeste ebrietà s’aggravi,


m’appar la terra simile a un bel volto,
ove, come un pensiero malinconico,
passin ombre di nuvole soavi.


(Carlo Vallini)



***



SETTEMBRE

Le speranze se ne vanno
come rondini a fin d ’anno:
torneranno?
Nel mio cor vedovi e fidi
stanno ancora appesi i nidi
che di gridi
già sonaron brevi e gaj:
vaghe rondini, se mai
con i raj
del mio Sole tornerete,
le casucce vostre liete
troverete.


(Luigi Pirandello)



***



ARIA DI SETTEMBRE

Mortale al suo bel volto,
come declina annoso
l'autunno e per ascolto
la chiama al suo riposo.


La sera spoglia il vento
dell’ultimo colore
e spera che il suo lento
declino sia l’amore


nostalgico del fuoco.
Il freddo autunno rade
le foglie, strema un fioco
riverbero di strade.


E l'ombra reca odore
di bosco perché trami
la sera anche il chiarore
delebile dei rami.


Come una voce invita
nel canto dalle case
si rendono alla vita
convinte le persuase


dolcezze della luna.

(Alfonso Gatto)



***



FIN DI SETTEMBRE

Ed ora, Estate, addio! Nel cenerino
cielo il tuon romba e di lontan minaccia.
Oh tristo, su la livida bonaccia
del mar senz'onda, cielo settembrino!


Oh del settembre che declina e muore
congedi tristi! un brontolio tetro
dilegua il tuon su l'ultimo Appennino:
l'ultimo tuono e poi più nulla. E il cuore,
che sospirando si rivolge indietro,
ripensa la sua vita e il suo destino.
Pensa e sospira, come un pellegrino
che va senza riposo e mai non giunge;
che sosta un tratto a rimirar da lunge
la via percorsa, e seguita il cammino.


(Giovanni Marradi)



***



ORA SETTEMBRINA

Levato, il vento inebriò la selva.
Ebbro anch'esso del fragoroso volo
l'ali batteva cupide di spazio:
piega e sbianca il fogliame al suo passare.
E le starne si adunano, in sospetto
di quello stormire alto ampio all'intorno
e dimenare di furenti braccia.
Mentre, a ridosso dell'annoso muro,
il cacciatore, là, sotto la frasca
dell'osteria seduto in pace, beve
limpido vino e il ciel terso rimira.
A' suoi piedi sognando, il bracco vede
lepri fuggire, e guàiola nel sonno.


(Gustavo Botta)



***



SETTEMBRE

Ancor nei rovi occhieggiano le more
come pupille nere dì ragazze;
e lungo i campi odorano le mazze
esili del finocchio, aperte in fiore.


Ma tra i pampani, ch'arde l'alidore,
vedi le pigne gialle e paonazze.
Allegri! Presto scricchieran le razze
dei carri, con l'aiuto del Signore,


sotto il peso dell'uva. Il tino aspetta.
E tu, nuvola, passa in fretta in fretta.


(Pietro Mastri)



***



SETTEMBRE NAPOLETANO

Frondente carro da le purpuree
issate lune, quali i cocomeri
spaccati in giocondi emispèri,
con codazzo di popol pe' i trivi!


Errante grido di fruttivendoli,
che canti i fichi l'uva le pèrsiche
e i colli assolati di tufo
ove asciugano i panni ne 'l vento!


Mattine azzurre, quando su l'organo
coro di donne lauda la Vergine
e i vetri de 'l vecchio convento
si colorano, freschi, di cielo!


Le dita belle dunque d'un angelo
toccar le corde de 'l nostro spirito?
A i cieli ei si fugge si fugge,
come l'ultimo sole pe' i monti.


(Francesco Gaeta)



***



SETTEMBRE

Boschi miei
che le nuvole del settembre
lente percorrono
mentre le prime foglie
crollano giù dai rami
e adunano umidore per i sentieri
intanto che nel cielo
gli alberi si denudano –
così come di sera
quando cadono le ombre
giù dalle cime
s'incupisce la terra
e in alto si rivelano
i disegni dei monti
e delle stelle –
miei boschi
vi è tanta pace
in questa vostra muta
rovina
che in pace ora alla mia
rovina penso
e sono come chi
stia sulla riva di un lago
e guardi miti le cose
rispecchiate dall'acqua –


(Antonia Pozzi)


domenica 2 settembre 2012

Ed è subito sera

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.



Tra le poesie più ricordate di Salvatore Quasimodo (1901-1968), dà il titolo all'omonimo volume poetico del 1942. Questi versi in realtà erano compresi in un'altra poesia: "Solitudini", che faceva parte di "Acque e terre" (1930), prima opera in versi del poeta siciliano. Il testo, molto breve, bene esprime il concetto di estrema solitudine che caratterizza l'intera esistenza dell'uomo sulla Terra, mentre il "raggio di sole" con cui viene trafitto è una sorta di piccola consolazione, che potrebbe essere rappresentata da brevi momenti di felicità o sentimenti similari. L'ultimo verso eloquentemente chiarisce che la fine della vita (la sera) giunge assai presto. È probabilmente la poesia oggi più conosciuta di Quasimodo, e questo si deve all'estrema essenzialità che la caratterizza: appena tre versi per esprimere un concetto esistenziale difficilmente equiparabile ad altri componimenti in versi. L'unico riferimento possibile è certamente Giuseppe Ungaretti, infatti alcuni suoi versicoli molto somigliano alla poesia di Quasimodo: liriche brevissime eppure immortali perché capaci di estrapolare un sentimento, una meditazione o una semplice sensazione che accomunano la forma mentis della stragrande maggioranza dell'umanità.