venerdì 22 marzo 2013

Antologie: "Poeti minori dell'Ottocento" a cura di Luigi Baldacci


"Poeti minori dell'Ottocento" è il titolo di un'antologia poetica curata da Luigi Baldacci e pubblicata dall'editore Ricciardi nel 1958. In realtà, quanto detto è valido solo per il primo tomo di quest'opera che comprende anche un secondo tomo, pubblicato cinque anni dopo e curato dallo stesso Baldacci e da Giuliano Innamorati.
Si tratta di un'antologia molto importante, curata ottimamente in ogni minimo dettaglio, e dedicata a quei poeti minori dell'Ottocento che furono al centro dell'attenzione di molti critici illustri in un periodo di anni che potremmo comprendere tra il 1947 ed il 1968. La selezione effettuata da Baldacci è piuttosto severa, perché, come spiegato da lui stesso alla fine dell'Introduzione: «Abbiamo chiara coscienza di certe omissioni, lamentabili forse in sé e tuttavia imposte dall'economia del nostro lavoro. Ma il criterio nostro è stato quello di ritrarre adeguatamente ciascuno dei poeti qui accolti, anziché abbondare nelle presenze e dover poi costringere ogni poeta entro termini troppo angusti o, comunque, insufficenti a darne la genuina fisionomia». Baldacci parla al plurale perché intende includere, nel suo discorso, l'opera intera; ciò è chiarito subito dopo quando afferma: «Il secondo tomo sarà dedicato alla produzione poetica dell'Ottocento che si discosta dalla linea tradizionale della "lirica" [...]». Parlando del primo tomo, che in sostanza raggruppa il meglio della poesia ottocentesca italiana cosiddetta "minore", mi pare interessante riportare cosa ha scritto Baldacci in un'altra sua interessante antologia: Secondo Ottocento, Zanichelli, Bologna 1969: «Ogni secolo si concede dei lussi, degli sperperi poetici, che rappresentano più il costume che le strutture portanti della storia, e della storia delle forme. Un certo impianto antologico impone di registrare anche quei lussi, un altro di delineare solo le strutture. [...] Negli ultimi anni lo studio di questo settore importante ha segnato notevoli progressi. Ciò non toglie che certe abitudini storiografiche, certi luoghi comuni abbiano ancora molta forza di suggestione. Così, a volte, si dà conto dei lussi e si tace sui fatti veri della poesia». E infine così conclude: «I poeti minori dell'Ottocento sono, insomma, assai maggiori di quanto si creda». Come non essere d'accordo su quest'ultima affermazione, pensando a poeti come Poerio, Aleardi, Prati, Zanella, Guerrini, Praga, Tarchetti, Camerana, Graf, Gnoli e tanti altri ancora. Due parole infine sull'ordinamento dei poeti presenti nell'antologia, che si basa fondamentalmente sulle tendenze poetiche susseguitesi negli anni; per tal motivo Domenico Gnoli, nato molto prima rispetto a parecchi poeti presenti, ma rivelatosi con un'opera fortemente innovativa agli albori del XX secolo, è quasi in fondo al libro.




POETI MINORI DELL'OTTOCENTO
TOMO I

I
Gabriele Rossetti, Giovita Scalvini, Giovanni Berchet.

II
Bartolomeo Sestini, Luigi Carrer, Pietro Paolo Parzanese, Francesco Dall'Ongaro, Vincenzo Padula.

III
Alessandro Poerio, Agostino Cagnoli, Goffredo Mameli, Giambattista Maccari, Giuseppe Maccari, Giulio Carcano, Cesare Betteloni, Andrea Maffei, Giuseppe Revere.

IV
Aleardo Aleardi, Giovanni Prati.

V
Giacomo Zanella, Costantino Nigra, Felice Cavallotti, Mario Rapisardi, Olindo Guerrini, Giuseppe Aurelio Costanzo.

VI
Emilio Praga, Iginio Ugo Tarchetti, Arrigo Boito, Giovanni Camerana.

VII
Vincenzo Riccardi di Lantosca, Vittorio Betteloni, Edmondo De Amicis, Pompeo Bettini.

VIII
Enrico Nencioni, Enrico Panzacchi, Giovanni Marradi, Severino Ferrari.

IX
Remigio Zena, Contessa Lara, Arturo Graf, Vittoria Aganoor Pompilj, Giulio Salvadori, Domenico Gnoli, Adolfo De Bosis.

lunedì 18 marzo 2013

La siesta del micio

È sereno. Ogni cosa
sembra velata di fatica.
Il pomeriggio è in panna su l'antica
Certosa.

Nel marciapiede suonano i miei passi.
Si pensa quasi che l'azzurro crepiti.
Dei pugnali di sole tiepidi
feriscono il cuore dei tassi.

Sopra in tetto s'illuminan dei coppi.
De le finestre sono infiorate.
Il vento pettina le sue chiome arruffate
nei lunghi pettini dei pioppi.

De le campane d'un convento vicino
spennellan l'aria di una loro festa.
Sul davanzale un bianco micio fa la siesta
gambe a l'aria come un maialino.






Questa poesia di Corrado Govoni (1884-1965) fa parte della raccolta Armonia in grigio et in silenzio (1903), precisamente è la XX dell'ultima sezione intitolata La Certosa che in questo caso ha il significato di cimitero; infatti tale sezione comprende una serie di poesie "cimiteriali" dai titoli eloquenti (Riflessione sopra un avello, Corone funebri, "Lapide anonima" ecc.). La poesia sopra riportata descrive un momento incantato, di estrema calma all'interno del camposanto; il pomeriggio viene definito come "in panna", che nel linguaggio marinaresco sta a significare una manovra particolare con la quale il veliero si arresta e si può anche rimettere in moto facilmente. Singolare è anche il pensiero del poeta secondo il quale l'azzurro del cielo stia crepitando, così come fa il fuoco della legna che scoppietta nel camino. I raggi del sole sono paragonati a pugnali che colpiscono al cuore gli alberi che circondano quel luogo: i tassi. I "coppi" che s'illuminano sui tetti sono delle tegole che hanno forma di mezzo tronco di cono. Dopo i tassi pugnalati dal sole, Govoni fantasiosamente immagina che il vento pettini le chiome dei pioppi. L'ultima quartina è quella che esprime nello stesso tempo una sensazione di gioia e di tenerezza: il suono delle campane di un vicino convento immette nell'aria una festosa atmosfera, mentre sul davanzale di una finestra è possibile osservare un gatto bianco che in una posizione bizzarra (gambe a l'aria) sta facendo il suo sonnellino pomeridiano.




Corrado Govoni, "La siesta del micio"
(da "I poeti crepuscolari", a cura di Giorgio De Rienzo, Mondadori, Milano 1999)

sabato 16 marzo 2013

Poeti dimenticati: Francesco ed Emilio Scaglione


Francesco ed Emilio Scaglione furono due fratelli che si dedicarono in gioventù alla scrittura di versi, attratti particolarmente dalle nuove tendenze poetiche sviluppatesi in Italia e in Europa  tra l'Ottocento ed il Novecento. Pubblicarono un primo volume nel 1910, la cui particolarità consiste nel fatto che le poesie ivi presenti risultano firmate da entrambi. Francesco poi fece uscire una ulteriore opera poetica circa un anno dopo; lì finì la stagione artistica dei fratelli Scaglione, che per un periodo furono ricordati come rappresentanti di quel cenacolo di poeti siciliani nato agli albori del XX secolo, avente come punto di riferimento la misteriosa e stravagante figura di Agostino John Sinadinò; insieme a loro fecero parte di questo gruppo anche Tito Marrone, Federico De Maria, Angelo Toscano, Umberto Saffiotti e Gesualdo Manzella Frontini. Furono, insieme a pochi altri, i primi poeti che portarono in Italia le suggestioni e le atmosfere della poetica simbolista, e per tal motivo non andrebbero dimenticati.



Opere poetiche

"Limen" (Francesco e Emilio Scaglione), Giannotta, Catania 1910.
"Litanie" (Francesco Scaglione), Bideri, Napoli 1911.



Presenze in antologie

"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 1, pp. 169-177; vol. 2, pp. 214-230; vol. 3, pp. 237-241).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo secondo, pp. 497-508).



Testi

Un giorno che peccai
mi dissero che mai
pietà ritroverei.
Ero così bambino
allora, e non credei
che potesse il destino
già cogliermi fra' rei
ne l'eterno cammino.
Un giorno che peccai
mi dissero che mai
pietà ritroverei.

Ed il mondo ho girato,
molti sogni ho spezzato,
molte lacrime ho pianto.
Poi, talvolta, un sorriso,
fra un anelito e un canto,
m'ha scherzato pe 'l viso.
Poi quel pianto ho rimpianto,
poi quel riso ho deriso.
Così il mondo ho girato,
molti sogni ho spezzato,
molte lagrime ho pianto.

Ma quel peccato sento
che di dissolvimento
m'inebria e m'avvelena.
Ogni giorno più forte
del mio essere in pena
dissuggella le porte:
ho già colma ogni vena
del suo soffio di morte.
Tale il peccato io sento
che di dissolvimento
m'inebria e m'avvelena.

(Da "Limen")

martedì 12 marzo 2013

Similitudine


In mezzo all'erbe sfolte
agonizzano al sole
tutte quelle viole
che non furono colte.

Ed hanno la tristezza
di giorni non vissuti,
di baci non goduti,
di non dette parole
d'amor - quelle viole
che non furono colte
e che, prive di brezza,
morran tra l'erbe sfolte.



Questa poesia di Mario Venditti (1889-1964) fa parte della raccolta Il terzetto (Parrella, Napoli 1911), seconda opera in versi del poeta napoletano che in verità non ebbe molti estimatori e che oggi è assolutamente sconosciuto. Eppure la lirica sopra riportata, come altre dello stesso volume, non sono affatto da buttare. In Similitudine è piuttosto evidente l'associazione dei fiori con gli esseri umani: le viole "non colte", che rimangono a morire lentamente sotto il sole, rappresentano quelle persone che nella loro vita non hanno vissuto a pieno la loro esistenza per scelta personale, per paura o per chissà quale altro motivo; queste, come i fiori, continueranno ad esistere passivamente, per poi morire senza aver dato un vero significato al loro passaggio sulla Terra.

lunedì 11 marzo 2013

Ohimè che cosa è accaduto

Ohimè che cosa è accaduto?
Il mandorlo è fiorito,
Ed io nulla ho sentito
Nulla ho veduto!

S'è guernito e coronato
D'un diadema di stelle d'argento,
Tutta notte ha lavorato
E sull'alba splendeva contento:

Ed ora le sue stelle le dà al vento:
La ghirlandetta fragile e superba
La sparpaglia su l'erba
Del fresco prato!

Il miracolo è compiuto,
Ma io nulla ho veduto
Nulla ho sentito!
Che cosa dunque è accaduto?

Dov'era questo povero cuore assorto,
Dov'era questo povero cuore muto
Se il mandorlo è fiorito
Ed esso di nulla s'è accorto?
 



È questa, l'ottava poesia del volume poetico di Angiolo Silvio Novaro Il piccolo Orfeo, Fratelli Treves Editori, Milano 1929. Come si può notare, trattasi di un testo molto semplice, tutto concentrato sullo stupore del poeta nel vedere, in un mattino di fine inverno, che l'albero del mandorlo è fiorito improvvisamente. Per tal motivo, ovvero per aver perduto l'occasione di osservare da vicino l'incredibile spettacolo della rinascita primaverile dei fiori e, simbolicamente, della vita, è fortemente rammaricato. Novaro fu poeta classicista e, come dissero molti illustri critici, "pascoliano"; scrisse molti versi per il pubblico infantile che intere generazioni impararono a memoria sui banchi di scuola. Rimase coerente con la sua poetica iniziale fino all'ultima opera che pubblicò; lo si capisce anche da questa poesia, che uscì qualche anno prima rispetto ai primi libri di Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli e Mario Luzi: i massimi esponenti del cosiddetto "ermetismo". Novaro non cercò mai di imitare le ultime avanguardie poetiche, continuando a scrivere liriche che riflettono la sua puerile semplicità, la sua meraviglia di fronte agli spettacoli della natura e i suoi profondi sentimenti per la famiglia e l'umanità intera. Grande esempio di coerenza e di grazia che difficilmente si ritrova nei tempi odierni.

domenica 10 marzo 2013

Genio e sperimentalismo nella poesia di Paolo Buzzi

Si può ben dire che, parlando di futurismo e in particolare di poesia futurista, dopo il fondatore del movimento artistico, ovvero Filippo Tommaso Marinetti, il poeta più importante sia stato Paolo Buzzi; presente in maniera non marginale nella prima antologia poetica: I poeti futuristi (1912), è anche autore del primo volume di versi, cronologicamente parlando, propriamente futurista: Aeroplani, uscito per le edizioni di "Poesia" (rivista letteraria creata da Marinetti) nel 1909, stesso anno di pubblicazione del famoso Manifesto marinettiano nel quale si proclamavano i punti principali alla base dell'innovativo movimento nato in Italia e divenuto famoso anche all'estero; una ristampa di questa opera che definirei basilare del poeta milanese è stata pubblicata in edizione anastatica qualche anno fa da Lampi di stampa (vedi foto in alto a dstra). È indiscutibile, secondo me, il talento poetico di Buzzi, certamente il migliore rappresentante, comprendendo anche Marinetti, della poesia futurista; la medesima cosa deve aver pensato anche l'insigne critico Pier Vincenzo Mengaldo che ha inserito Buzzi nella sua severa selezione dell'antologia Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1978, dove, nel profilo critico che precede la scelta dei testi dice:
«Fra i poeti della prima ondata futurista Buzzi, che certo è particolarmente fornito di doti, rappresenta la posizione insieme più letteraria e più eclettica, per cui fin dall'inizio il suo futurismo è, nella prassi, privo di oltranza e contaminatorio».
Quindi Buzzi espresse in poesia il miglior futurismo, quello più letterario, ma non solo, come afferma lo stesso Mengaldo, il poeta di "Aeroplani" prosegue in modo egregio la migliore tradizione letteraria lombarda, essendo in parte legato al movimento della scapigliatura.
Un altro critico importante, Luciano De Maria, parlando di Buzzi nel suo libro Marinetti e i futuristi (Garzanti, Milano 1994), dice:
«Poeta culto, solidamente formatosi sulla tradizione greco-latina e italiana, sui grandi contemporanei Carducci, Pascoli e D'Annunzio, con palesi innesti lombardo-scapigliati e chiare assidue frequentazioni francesi, Buzzi seppe amalgamare con esiti alterni, ma spesso rilevanti, i frutti della sua profonda cultura classica con lo sperimentalismo futurista».
Insomma Buzzi è un poeta che non può essere posto ai margini della poesia novecentesca come a volte è successo, perchè, insieme ad altri scrittori (Lucini, Palazzeschi, Govoni, Folgore, Soffici) ha contribuito al rinnovamento della poesia italiana sia dal versante dei contenuti, sia da quello della metrica, essendo tra i pionieri del verso libero.
Accanto a questo volume, tra le migliori opere di Paolo Buzzi è giusto ricordare anche le poesie di Versi Liberi (1913) e il romanzo sperimentale L'Ellisse e la Spirale (1915); dispiace il fatto che gli ultimi volumi ricapitolanti la carriera poetica buzziana risalgano a più di cinquanta anni or sono (si parla di Selecta del 1955 e di Poesie scelte del 1961, entrambi curati da Francesco Flora) e si auspica una solerte ristampa che magari comprenda l'intera opera letteraria di questo "gigante" del Novecento italiano.

"Insiemi" di Gianni Rodari

L'amico virtuale, l'amico d'infanzia, l'amico di scuola, l'amico del quartiere, l'amico del lavoro, l'amico del cuore... Quanti amici! Ma esistono veramente? La verità è che quasi tutta l'umanità è priva di vere amicizie; il concetto è ben espresso da un famoso proverbio: "Chi trova un amico trova un tesoro": quante persone nella vita trovano dei tesori? Eppure, mai come nel nostro tempo la parola "amico" è stata usata tanto a sproposito; in special modo nei cosiddetti social network presenti su internet, c'è uno sproporzionato e quanto mai sbagliato uso di questa parola. A tal proposito vorrei proporre una geniale poesia di Gianni Rodari (1920-1980) che fa parte del volumetto intitolato "Il cavallo saggio. Poesie epigrafi esercizi" e che è stato ristampato due anni fa dalla Einaudi di Torino (la prima edizione uscì grazie a "Editori Riuniti", a Roma nel 1984); qui sono raccolte le poche poesie dello scrittore piemontese non riservate al pubblico infantile; ve ne sono di validissime, ma sull'argomento che ho appena trattato mi piace riportare Insiemi perché ben rispecchia quella voglia attualissima di "condividere", di cercare le cose più strane e lontane che possano unire persone diversissime e distanti, probabilmente per la necessità inconscia di sentirsi meno soli. 
 


 
INSIEMI

Lo consolava la matematica degli insiemi.
Riflettendo sui suoi casi facilmente scopriva
di far parte di numerosi insiemi così catalogabili:
l’insieme degli uomini nati nel 1920,
l’insieme degli uomini nati nel 1920 tutt’ora viventi,
l’insieme di tutti i nati,
l’insieme di tutti i mancini,
l’insieme degli epatopatici,
l’insieme degli addetti al commercio,
l’insieme degli addetti al lavoro,
l’insieme delle persone che portano l’orologio al polso,
l’insieme dei mammiferi,
l’insieme dei bipedi
(di questi due insiemi egli occupava saldamente l’intersezione
senza l’imbarazzo di chi tiene il piede in due scarpe),
l’insieme degli abitanti della via Lattea,
la cui tabulazione sarà possibile
solo a completamento della sua esplorazione,
l’insieme di coloro che hanno schifo dei ragni,
l’insieme degli utenti della strada,
l’insieme degli italiani sopravvissuti alla seconda guerra mondiale,
l’insieme degli italiani che temono la terza,
l’insieme degli europei che abitano a sud di Francoforte sul Reno ma a nord del Busento,
a ovest di Saint-Tropez ma a est di Salonicco,
l’insieme degli uomini bianchi,
l’insieme degli uomini bianchi con occhi celesti,
l’insieme dei lettori di libri gialli, sia bianchi che negri,
l’insieme delle persone che non sanno usare un calcolatore elettronico,
l’insieme dei lettori di giornali che non scrivono al direttore,
l’insieme dei vertebrati,
l’insieme degli alfabetizzati,
l’insieme dei moderatamente alcoolizzati
l’insieme dei viaggiatori che sono stati una sola volta a Brindisi ma non una volta sola a Recanati,
l’insieme delle organizzazioni individuali di materia vivente, di cui fanno parte vescovi, ministri, tranvieri, scolopendre, eucalipti, rododendri, muschi, scrittori, trachinie, delfini, batteri, microbi, principi del sangue,
l’insieme di coloro il cui nome comincia con la lettera M,
tra cui si notano principi del foro, donne di strada, attori svedesi, minatori boliviani, guardie di finanza,
ex membri del partito comunista, pastori, monaci buddisti,
l’insieme dei compratori di cravatte
(che non sta in corrispondenza biunivoca
con l’insieme dei portatori di cravatte,
stanteché molte mogli comprano cravatte ma non le portano
e molti mariti portano cravatte ma non le comprano).
Col tempo si rese conto, non senza un sentimento di orgoglio,
di essere un elemento di un insieme infinito
quale è certamente al di là di ogni meschino dubbio
l’insieme degli uomini reali e degli uomini immaginari.
Scoprì con gioia di far parte di numerosi sottoinsiemi,
di insiemi universali,
di insiemi disgiunti,
di insiemi complementari.
Lo entusiasmò la certezza che mai, per soffiar di venti,
sarebbe precipitato in un insieme vuoto,
quale l’insieme degli uomini alti diciotto metri,
l’insieme dei presidenti della R. I. eletti prima del 1940,
l’insieme dei numeri pari divisori di tredici,
l’insieme dei ramarri parlanti, l’insieme dei rettangoli con cinque angoli,
l’insieme delle chitarre che fumano la pipa
e quello delle pipe che suonano la chitarra.
Paragonando l’insieme dei violinisti
e quello dei generali d’artiglieria
giunse a formulare il seguente sillogismo:
tutti i violinisti hanno i capelli lunghi,
taluni generali d’artiglieria hanno i capelli corti,
dunque taluni generali d’artiglieria non sono violinisti.
La scoperta lo riempì d’entusiasmo:
riunì i violinisti, i generali e se stesso
in un apposito insieme di cui diede la rappresentazione tabulare
provando un vivo senso di solidarietà.
Ogni giorno egli aggiungeva all’inventario dei suoi insiemi
decine di nuovi interessanti raggruppamenti.
Come avrebbe potuto sentirsi mai solo,
o temere per le sue difese personali,
contemplando l’insieme di tutti i suoi insiemi,
vedendolo crescere a vista d’occhio,
docile ai suoi comandi?
Mai vi fu uomo più sicuro, più protetto,
eserciti innumerevoli muovevano in suo soccorso
da ogni parte del cosmo,
dalle profondità del tempo,
dalle sterminate riserve dell’immaginazione,
da ogni piano del condominio.
Eppure di quando in quando, con frequenza irregolare,
guardandosi allo specchio o toccandosi la guancia,
non vedeva che un’immagine un po’ assurda.
Chiusa la porta di casa,
oltre a lui non c’era anima viva nelle stanze.
La notte si destava inquieto
nell’insieme dei suoi mobili, da cui restava escluso,
pensava stancamente un insieme
che costringesse almeno i fiori finti
a schierarsi al suo fianco
e, «che sarà», si domandava, «di me».