giovedì 15 agosto 2013

Poeti dimenticati: Giuliano Donati Pétteni

Giuliano Donati Pétteni nacque a Bergamo nel 1894 e vi morì nel 1930. Precocissimo fu il suo esordio poetico che avvenne nel 1910 con la raccolta "Alba". Appena finito il liceo partì per la prima guerra mondiale dove si fece onore ma si procurò anche alcune ferite che col tempo si dimostreranno letali. Tornato dal fronte si laureò in lettere e, successivamente, professò l'insegnamento in alcuni licei della penisola italiana. Collaborò a vari giornali e riviste leterarie tra cui «Il Secolo» di Milano; pubblicò volumi di saggi e di poesie. I suoi versi attingono spesso dal materiale tematico dei crepuscolari e quindi mettono in luce l'animo profondamente malinconico dell'autore.



Opere poetiche

"Alba", Tip. Verdoni, Bergamo 1910.
"Primo vere", Tip. Verdoni, Bergamo 1910.
"Versi dorati", Tip. Conti, Bergamo 1916.
"Intimità", Zanichelli, Bologna 1926.







Presenze in antologie

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 358-359).
"Novissima antologia", a cura di Pasquale Ceravolo, Quaderni di «Il Pensiero», Bergamo 1929 (pp. 141-143).



Testi

VENGO DA STRANE LONTANANZE...

Vengo da strane lontananze e ancora
riprenderò domani il mio cammino.
Da dove, verso dove? Ecco è vicino
forse il mio giorno e l'anima l'ignora.

Ma tu mi dici: "Della primavera
cogli le rose, è voluttà d'un fiore
la vita, ed abbandonati all'amore
poichè langue nei cuori una chimera.

Sorridi. La speranza un nuovo giorno
dischiude, credi al sogno che s'implora;
l'amor accogli quando fa ritorno:
nulla è perduto e non passata è l'ora."

Ma tace in me placato ogni desio,
e guardo, là, sul fiume della vita,
in disparte, pel mare dell'oblio
degli uomini la triste dipartita.

E nulla chiedo. Al cuore non bisogna
più nulla. In me s'è spenta la passione
e dolce m'è questa rassegnazione
d'anima che non piange e che non sogna.

(Da "Intimità")

sabato 10 agosto 2013

Il disfacimento nella poesia italiana decadente e simbolista

Si può ben dire che il decadentismo si fondi sull'idea di un graduale e inesorabile disfacimento della civiltà; Paul Verlaine mise in versi questo concetto in una poesia intitolata Langueur (pubblicata su una rivista letteraria nel 1883):

Io sono l'Impero alla fine della decadenza,
che guarda passare i grandi Barbari bianchi
componendo acrostici indolenti in aureo stile
in cui danza il languore del sole.
L'anima solitaria soffre di un denso tedio.
Laggiù, si dice, lunghe battaglie cruente.
Oh, non potervi, così debole nei miei lenti desideri,
oh, non volervi fiorire un po' quest'esistenza!
Oh, non volervi, non potervi un po' morire!
Ah, tutto è bevuto! Batillo, hai finito di ridere?
Ah, tutto bevuto, tutto mangiato! Più nulla da dire!
Solo, una poesia un po' sciocca da gettare nel fuoco,
solo, uno schiavo un po' frivolo che vi trascura, solo,
una noia di chissà cosa che vi affligge!

Il poeta si identifica con l'impero romano nel momento della sua fine, che avviene in modo lento, stancamente; tutto ciò riflette il modo di pensare diffuso in quel determinato periodo (all'incirca l'ultimo quarto di secolo dell'Ottocento). C'era, allora, l'impressione che tutta una civiltà fosse o stesse per giungere al suo capolinea; da questa idea, i cosiddetti decadentisti posero le basi della loro attività letteraria, tutta pregna di un senso di disfacimento descritto e assaporato con sorprendente compiacimento. Tale situazione nasceva dal convincimento che, così come avvenne alla fine dell'impero romano, quando una civiltà è sul punto di scomparire si esprime al suo massimo in eleganza e in raffinatezza. Ecco allora spiegata la presenza di numerosissimi paesaggi, personaggi, luoghi e situazioni i quali, sia in versi che in prosa, vogliono rappresentare quel famoso disfacimento. In Italia tale tendenza si sviluppò con qualche decennio di ritardo, e fu esaltata soprattutto dai poeti crepuscolari.



Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "La siesta", "Il liuto vano", "L'ultima ghirlanda", "Disperata" e "L'ultimo dono" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Vittoria Aganoor: "Inverno" in "Poesie complete" (1912).
Diego Angeli: "Minacce" e "Lamento di una sera di decembre" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).
Carlo Basilici: "Il Convito" in «La Vita Letteraria», gennaio 1905.
Umberto Bottone: "La povera gioia" in "Corde ai fianchi" (1910).
Giovanni Camerana: "È tardi, è tardi: l'ombra è intensa..." in "Poesie" (1968).
Enrico Cavacchioli: "Il gesto" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Giovanni Cena: "A mia sorella" in "In umbra" (1899).
Carlo Chiaves: "Invernale" in "Tutte le poesie edite e inedite" (1971).
Guelfo Civinini: "Motivo stanco" in "L'urna" (1900).
Sergio Corazzini: "Chiesa abbandonata" in "Dolcezze" (1904).
Sergio Corazzini: "Rime dell'inverno" in «Marforio», novembre 1904.
Corrado Corradino: "Hora mala" in "Su pe 'l calvario" (1889).
Adolfo De Bosis: "Ala caduca" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Federico De Maria: "La caduta del campanile" in "Voci" (1903).
Luigi Donati. "La fine" in "Poesia di passione" (1928).
Giuliano Donati Pétteni: "L'Estate defunta" in "Intimità" (1926).
Vincenzo Fago: "Addio!" in "Discordanze" (1905).
Diego Garoglio: "La veglia" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Verso le morte cose" e "Il funerale" in «Nuova Antologia», luglio 1906.
Corrado Govoni: "Rassegnazione angosciosa" in "Le Fiale" (1903).
Corrado Govoni "Aegri somnia" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "Nirvana" in "Medusa" (1890).
Achille Leto: "Naufragio" in "Piccole ali" (1914).
Giuseppe Lipparini: "Paolina" e "Il frutteto" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Gian Pietro Lucini: "La Ballata delle Dame della Foglia" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Remo Mannoni: "Sonetto simbolico" in «La Stella e L'Aurora Italiana», aprile 1905.
Tito Marrone: "Desolazione" in "Cesellature" (1899).
Tito Marrone: "Speranza" in «Rolando», ottobre 1907.
Fausto Maria Martini: "Meditazione" in "Le piccole morte" (1906).
Pietro Mastri: "Addio" in "Lo specchio e la falce" (1907).
Guido Milelli: "Canzonetta disadorna" in "Settimana Artistica Letteraria", febbraio 1908.
Mario Morasso: "Del giorno estremo della terra" in "Sinfonie luminose" (1893).
Nicola Moscardelli: "In nero" in "Abbeveratoio" (1915).
Pier Ludovico Occhini: "Sans trite" in "Biscuits de Sèvres" (1897).
Luigi Orsini: "Ultima estate" e "Una fine" da "Canti delle stagioni" (1905).
Aldo Palazzeschi: "Vittoria" in "Poemi" (1909).
Francesco Pastonchi: "Canzone antica e nuova" in "Il pilota dorme" (1913).
Yosto Randaccio: "Crepuscolo di cielo e d'anima" in "Poemetti della convalescenza" (1909).
Guido Ruberti: "Vesperi latini" in "Le fiaccole" (1905).
Emanuele Sella: "Fuor della vita" in "Monteluce" (1909).
Giovanni Tecchio: "Moriente octobre" in "Mysterium" (1894).
Diego Valeri: "Pagina di diario" e "Lied" in "Umana" (1916).
Remigio Zena: "La pace" in "Olympia" (1905).



Testi

VERSO LE MORTE COSE
di Cosimo Giorgieri Contri

Vidi l'ultime rose
fiorir l'ultimo clivo;
lento, assorto, io salivo
verso le morte cose.

L'odore, a quando a quando,
m'inviava un addio:
indugiava il mio
cuore, rammemorando.

Pure, io pensavo: Affretta;
ogni olezzo è fugace,
è nell'alto la pace:
ascendi: ella ti aspetta!

Io salivo, io salivo
verso le morte cose:
e più rade le rose
si facean sul declivo.

L'anima si chetava
in silenzio. Ogni vano
sogno era già lontano:
ogni desìo passava

sul mio capo, con volo
d'uccel che migra al norte:
verso le cose morte
io salivo: ero solo.

(Da «Nuova Antologia», 1° luglio 1906)

sabato 3 agosto 2013

Agosto in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Agosto, ottavo mese dell'anno, rappresenta l'estate ai suo massimi livelli di caldo. In tali giorni molte persone smettono di lavorare e vanno in ferie. Tra queste, la gran parte abbandona per un periodo che può essere più o meno breve, la sua abitazione e i luoghi che frequenta per il resto dell'anno, cercando in un luogo ospitale, incantevole e lontano, un relax ed un benessere di cui non può godere rimanendo a casa. In queste dieci poesie, però, si parla d'altro: emergono ricordi precisi, sensazioni e meditazioni che scaturiscono dal trascorrere dei giorni di questo mese estivo, che nei suoi ultimi giorni mostra già qualche traccia dell'autunno prossimo a venire, ormai tutt'altro che lontano. Segna in tal modo la massima espansione della calda stagione ed anche il suo imminente declino.


PIOGGIA D'AGOSTO
di Guido Gozzano (1883-1916)

Nel mio giardino triste ulula il vento,
cade l’acquata a rade goccie, poscia
più precipite giù crepita scroscia
a fili interminabili d’argento...
Guardo la Terra abbeverata e sento
ad ora ad ora un fremito d’angoscia...

Soffro la pena di colui che sa
la sua tristezza vana e senza mete;
l’acqua tessuta dall’immensità
chiude il mio sogno come in una rete,
e non so quali voci esili inquiete
sorgano dalla mia perplessità.

«La tua perplessità mediti l’ale
verso meta più vasta e più remota!
È tempo che una fede alta ti scuota,
ti levi sopra te, nell’Ideale!
Guarda gli amici. Ognun palpita quale
demagogo, credente, patriota...

Guarda gli amici. Ognuno già ripose
la varia fede nelle varie scuole.
Tu non credi e sogghigni. Or quali cose
darai per meta all’anima che duole?
La Patria? Dio? l’Umanità? Parole
che i retori t’han fatto nauseose!...

Lotte brutali d’appetiti avversi
dove l’anima putre e non s’appaga...
Chiedi al responso dell’antica maga
la sola verità buona a sapersi;
la Natura! Poter chiudere in versi
i misteri che svela a chi l’indaga!»

Ah! La Natura non è sorda e muta;
se interrogo il lichène ed il macigno
essa parla del suo fine benigno...
Nata di sé medesima, assoluta,
unica verità non convenuta,
dinanzi a lei s’arresta il mio sogghigno.

Essa conforta di speranze buone
la giovinezza mia squallida e sola;
e l’achenio del cardo che s’invola,
la selce, l’orbettino, il macaone,
sono tutti per me come personæ,
hanno tutti per me qualche parola...

Il cuore che ascoltò, più non s’acqueta
in visïoni pallide fugaci,
per altre fonti va, per altra meta...
O mia Musa dolcissima che taci
allo stridìo dei facili seguaci,
con altra voce tornerò poeta!

(Da "I colloqui", Treves, Milano 1911)





SERA D'AGOSTO
di Giovanni Descalzo (1902-1951)

Stanno alla fonda le barche
leggere su l'acqua ondulante;
ferve di un solo riflesso
giallo-arancione il Tigullio!
Non è più giorno,
non è ancor sera,
l'indugiar della luce ora sembra
l'ampia scia del sole scomparso.
Oh incerto chiarore
del lento giorno d'estate;
oh senza tumulti di fiamme
tramonto d'agosto!
Beatitudine nuova s'effonde
dalla tua calma sapida
di fervidi succhi vitali,
che fanno del sangue
un dolce rivo tepido:
alimento di sogni perenni.
D'ogni figura
che in questa luce s'intaglia,
non scorgi che un nero profilo,
e due pescatori sul bordo
di una barca che oscilla nel golfo
paion viventi polene.
Nella quiete perfetta
tutto si fonde e si placa.
Soltanto l'anima emigra
e vaneggia nell'ansia,
essa che già precorre
turbandosi, il domani.

(Da "Risacca", All'insegna della Tarasca, Genova 1933)





FINE D'AGOSTO
di Gaetano Arcangeli (1910-1970)

Dal sentiero
dove si apparta
dal mare aperto
la ritrosa campagna,
vedo al tramonto
vaghi colori
di brevi incanti terreni
sui monti violacei lontani.
Echi di clàcson
(perché mai così dolci)
si striano nell'aria
e vi affondano morbidi,
echi rispondono
dal cuore che pronto si desta
dall'arido sonno
del giorno,
e già si son tese nel cielo
gracili braccia,
bianche vene,
certo amorose
nel trasalire dell'ora.
Dall'arcaica campagna
del remoto sentiero
dov'è solo arsa verdura,
il tramonto che, appena
acceso, in cenere spegne
il fasto delle sue luci,
è un cupo fiore selvatico
che prova il ritegno
di spandere un suo
a cuto e raro profumo.

(Da "Dal vivere", Testa, Bologna 1939)





28 AGOSTO...
di Arnaldo Beccaria (?-?)

Bianco qual cigno il vaporetto doppia
il breve molo. Il velo
che agitava l'estremo tuo saluto
anche è scomparso.
E questa colma rigogliosa luce
che allacciò i nostri slanci, e li assumeva
alle dorate aree del sogno,
ora m'è vuota, estranea come quella
di un silenzioso fiordo.

(Da "Adamo", Edizioni della Cometa, Roma 1942)





LUNA D'AGOSTO
di Cesare Pavese (1908-1950)

Al di là delle gialle colline c'è il mare,
al di là delle nubi. Ma giornate tremende
di colline ondeggianti e crepitanti nel cielo
si frammettono prima del mare. Quassù c'è l'ulivo 
con la pozza d'acqua che non basta a specchiarsi,
e le stoppie, le stoppie, che non cessano mai.

E si leva la luna. Il marito è disteso
in un campo, col cranio spaccato dal sole
- una sposa non può trascinare un cadavere 
come un sacco -. Si leva la luna, che getta un po' d'ombra
sotto i rami contorti. La donna nell'ombra
leva un ghigno atterrito al faccione di sangue
che coagula e inonda ogni piega dei colli.
Non si muove il cadavere disteso nei campi
né la donna nell'ombra. Pure l'occhio di sangue
pare ammicchi a qualcuno e gli segni una strada.

Vengono brividi lunghi per le nude colline
di lontano, e la donna se li sente alle spalle,
come quando correvano il mare del grano.
Anche invadono i rami dell'ulivo sperduto
in quel mare di luna, e già l'ombra dell'albero
pare stia per contrarsi e inghiottire anche lei.

Si precipita fuori, nell'orrore lunare,
e la segue il fruscìo della brezza sui sassi
e una sagoma tenue che le morde le piante,
e la doglia nel grembo. Rientra curva nell'ombra
e si butta sui sassi e si morde la bocca.
Sotto, scura la terra si bagna di sangue.

(Da "Lavorare stanca", Einaudi, Torino 1943)





UN 30 AGOSTO
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

Si vide subito che si metteva bene:
eventi macroscopici nessuno,
il sole ad un passo da settembre
diede la prima razione
alle isole di fronte,
il mare mandò lampi di freschezza,
il caldo soltanto fra tre ore,
un immenso celeste, ancora un giorno
per l'uva e gli altri frutti di stagione,
tra i pochi rumori di paese
l'ossigeno sibilando disse
di non farcela più con quel suo cuore.
Di primo mattino la morte di mia madre.

(Da "Qualcosa di preciso", Scheiwiller, Milano 1961)





FERRAGOSTO
di Gianni Rodari (1920-1980)

Filastrocca vola e va 
dal bambino rimasto in città.
Chi va al mare ha vita serena 
e fa i castelli con la rena,
chi va ai monti fa le scalate 
e prende la doccia alle cascate… 

E chi quattrini non ne ha? 
Solo solo resta in città:
si sdrai al sole sul marciapide,
se non c’è un vigile che lo vede,
e i suoi battelli sottomarini
fanno vela nei tombini.

Quando divento Presidente
faccio un decreto a tutta la gente;
«Ordinanza numero uno:
in città non resta nessuno;
ordinanza che viene poi,
tutti al mare, paghiamo noi,
inoltre le Alpi e gli Appennini
sono donati a tutti i bambini.

Chi non rispetta il decretato
va in prigione difilato».

(Da "Filastrocche in cielo e in terra", Einaudi, Torino 1961)





LA STRADA FUORI PORTA
di Lucio Piccolo (1901-1969)

La strada fuori porta,
e ogni anno agosto
alza fanali d'afa, e accende
la festa sui portali della chiesa
in archi, in pali, le luminarie gialle,
verdi, blu, agita nacchere, trombette
di cartone, dondola barconi
di rosse frutta ferite... poi cadono
dai balconi fiori di carta, l'ultimo
palco rimbomba al martello
che lo disfà a tratti,
già sono le foglie inquiete;
ogni anno fa ritorno
la festa, e la stagione tarda
in zone di svanito rosa,
ai margini del giorno
ferma siepi di bruno viola.
Ma nella chiesa, se scendo
tre gradini, sopra lastre di tombe
dove non giunge l'esitare dei ceri
ognuna ne l'informe
papavero confitta,
vedo l'anime in fuoco:
distorti volti, braccia
levate verso nuvole e colombe...
                                 nel profondo
del tempo e dei tramonti
lo sguardo si fermò sul fuoco
estremo, poi altrove si volse;
ma dove andava, brune
macchie, seguivano le vespertine
figure di brace e d'angoscia...

(Da "Plumelia", All'insegna del pesce d'oro, Milano 1967)





AGOSTO SFONDA L'ORIZZONTE
di Nico Orengo (1944-2009)

Agosto sfonda l'orizzonte.
E fa male guardare il volo
indeciso del rondone:
lo riporta in terra l'odore
bianco del fico, una rete che
imbriglia la sua sete di andare
là, dove il mare si appresta a curvare.

(Da "Cartoline di mare", Einaudi, Torino 1984)





SERA D'AGOSTO
di Giuseppe Raimondi (1898-1985)

Erano queste le ore.
Nessuno parlava. Ero
uscito per camminare
nel cortiletto. Rientravo
nella stanza. Mi riempiva
il tuo respiro. Non
udivo altro suono.
Si contavano i minuti.
Qualcuno disse: Sono
le nove. Poi il silenzio
di ogni cosa. Rimase
il mio gelsomino
nelle tue mani.

(Da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1999)

domenica 28 luglio 2013

Antologie: Poesia italiana del Novecento (a cura di Elio Pecora)

Sui motivi della nascita di questa antologia pubblicata a Roma dalla Newton Compton nel 1990, è molto utile leggere la prefazione alla stessa scritta dal curatore, il quale afferma, tra le altre cose, che la sua opera
 «non vuole indicare percorsi, stabilire gerarchie, innalzare altari. Invece vuole tentare una vicinanza, avviare a una conoscenza che può diventare una compagnia, un piacere».
Da Giovanni Pascoli a Cesare Viviani sono qui selezionati versi di 96 poeti più o meno conosciuti che hanno pubblicato opere poetiche tra il 1903 ed il 1990; tra di loro non mancano alcuni dialettali. Breve in vero è, per ognuno, la parte bio-bibliografica e, tutto sommato, poche sono le pagine dedicate a ciascuno. Si tratta insomma di un veloce e riassuntivo viaggio nella poesia italiana del Novecento in cui il curatore cerca di tener presenti tutte le tendenze e le scuole che si sono succedute durante i cento anni. Certo è che risulta piuttosto penalizzata la lirica futurista, poiché, a parte Govoni e Palazzeschi, i quali non possono essere etichettati in alcun modo, tanto meno come futuristi, l'unico esponente del movimento antologizzato è Enrico Cavacchioli, e, anche il poeta lombardo non è stato soltanto un seguace della poesia marinettiana.
Tra le inclusioni, si notano presenze raramente ritrovabili in altre antologie similari, come quelle di Lalla Romano, Elsa De' Giorgi, Juan Rodolfo Wilcock e, tra i dialettali, Cesare Zavattini. Tra le esclusioni, oltre a quelle citate, si avverte l'assenza di qualche poeta dell'area ligure (Roccatagliata Ceccardi e Mario Novaro per esempio) e dell'area lombarda (Gian Pietro Lucini) che ben avrebbero colmato quel vuoto di tempo tra la nascita di Gabriele D'Annunzio (1863) e il poeta che lo segue: Guido Gozzano (1883). Mi dispiace anche non vedere, tra i nomi inclusi, quelli di Diego Valeri, Giorgio Vigolo e Vincenzo Cardarelli. Fa piacere invece trovare una folta schiera di voci femminili. Ecco infine l'elenco in ordine cronologico dei poeti presenti in "Poesia italiana del Novecento" di Elio Pecora.





POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO

Giovanni Pascoli, Gabriele D'Annunzio, Guido Gozzano, Umberto Saba, Corrado Govoni, Piero Jahier, Dino Campana, Enrico Cavacchioli, Virgilio Giotti, Marino Moretti, Arturo Onofri, Aldo Palazzeschi, Clemente Rebora, Vincenzo Cardarelli, Sergio Corazzini, Carlo Michelstaedter, Camillo Sbarbaro, Giuseppe Ungaretti, Biagio Marin, Eugenio Montale, Giacomo Noventa, Carlo Betocchi, Ignazio Buttitta, Sergio Solmi, Salvatore Quasimodo, Mario Dell'Arco, Libero De Libero, Sandro Penna, Cesare Pavese, Leonardo Sinisgalli, Alfonso Gatto, Lalla Romano, Cesare Zavattini, Lorenzo Calogero, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Elsa Morante, Antonia Pozzi, Vittorio Sereni, Piero Bigongiari, Vittorio Bodini, Mario Luzi, Toti Scialoja, Giorgio Bassani, Elsa De' Giorgi, Albino Pierro, Franco Fortini, Juan Rodolfo, Wilcock, Tonino Guerra, Nelo Risi, Gaio Fratini, Margherita Guidacci, Andrea Zanzotto, Bartolo Cattafi, Luciano Erba, Pier Paolo Pasolini, Elio Filippo Accrocca, Angelo Maria Ripellino, Roberto Roversi, Giovanni Giudici, Alfredo Giuliani, Ottiero Ottieri, Maria Luisa Spaziani, Paolo Volponi, Luca Canali, Elio Pagliarani, Giovanna Bemporad, Giancarlo Majorino, Alberto Arbasino, Franco Loi, Amelia Rosselli, Edoardo Sanguineti, Rossana Ombres, Carlo Villa, Giovanni Raboni, Alberto Bevilacqua, Antonio Porta, Dacia Maraini, Jolanda Insana, Valentino Zeichen, Attilio Lolini, Cosimo Ortesta, Gregorio Scalise, Anna Cascella, Bianca Tarozzi, Mariella Bettarini, Dario Bellezza, Nico Orengo, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Vivian Lamarque, Francesco Serrao, Ennio Cavalli, Patrizia Cavalli, Biancamaria Frabotta, Cesare Viviani.

lunedì 22 luglio 2013

La poesia di Carlo Vallini

La recente ristampa delle poesie di Carlo Vallini in un libro intitolato: Un giorno e La rinunzia, a cura di Mirko Bevilacqua, San Marco dei Giustiniani, Genova 2010, mi dà l'occasione per parlare di questo particolarissimo poeta crepuscolare, autore di due esili volumi poetici (i cui titoli sono riassunti nel libro sopra citato) che furono pubblicati nel medesimo anno, ovvero nel 1907. Da allora all'anno della sua morte, Vallini tacque, pubblicando soltanto pochissimi versi in qualche sparuta rivista. Carlo Vallini, pur essendo milanese di nascita, appartiene a quello che fu definito "gruppo crepuscolare torinese" in quanto assiduo frequentatore, nell'università di Torino, delle lezioni impartite dall'autorevole poeta Arturo Graf, maestro indiscusso per molti poeti del primissimo Novecento italiano. A Torino, durante il periodo degli studi, Vallini conobbe, tra gli altri, alcuni poeti che in seguito furono chiamati crepuscolari, come Guido Gozzano, Carlo Chiaves e Giulio Gianelli. Per chi non lo sapesse, il crepuscolarismo è stata una corrente poetica caratterizzata dai toni dimessi e malinconici; tra i maggiori esponenti, oltre ai poeti già menzionati, si possono citare Sergio Corazzini, Corrado Govoni, Marino Moretti, Fausto Maria Martini e Aldo Palazzeschi. Ora, volendo parlare brevemente delle due esili raccolte poetiche di Vallini, si può affermare con certezza che La rinunzia è un libro che molto s'ispira alla lirica dannunziana, ma questo non toglie che vi siano alcuni pregevoli versi come questi: «Anima china su te stessa, ascolta: / l'albero della vita, forse, tutto / grave di doni verso te s'abbassa: / / e tu non gioirai anche una volta / del sapore fuggevole d'un frutto, / dell'ombra della nuvola che passa?». Appartengono ad uno dei sei Sonetti della casa, composizioni che descrivono il ritorno del poeta nella vecchia dimora del nonno con le conseguenti meditazioni in cui si avverte una vaga tristezza, come spesso capita nei versi dei poeti crepuscolari. Qualche buon verso lo si ritrova anche in La donna del parco che a tratti presenta chiari riferimenti alla poesia decadente e simbolista: «Il sogno è sacro: e qui si ripercote / tra la mollezza delle stoffe smorte / forse troppo improvviso e troppo forte / questo sonoro turbine di note. / / Voglio un motivo lento, ove predòmini / la nota alta del pianto, ma con una / potenza che mi vincoli e m'assorba».
Un giorno è un poemetto che differisce completamente rispetto a La rinunzia; nel secondo volume in versi di Vallini diminuiscono di molto infatti i toni dannunziani e prevale l'elemento mistico, in particolare quello del buddismo, insieme ad una profonda e amara ironia (L'ironia non a caso è il titolo di uno dei capitoli del poemetto). Questa è da considerarsi sicuramente l'opera migliore del poeta milanese, che raggiunge i suoi momenti migliori quando riesce a far riflettere e a far meditare senza idealismi di alcun genere e con estrema franchezza sul significato dell'esistenza umana. Ecco, in proposito, alcuni versi che fanno parte di La folla:

...
Ma dietro quel vertice acclive
sentivo poco lontana
la specie temuta, l'umana
specie simile a me:
la specie degli uomini, che
non si meraviglia di vivere;
quella che fu favorita
da nostra madre Natura
col privilegio più raro;
ma che si chiede di raro,
per non far brutta figura,
il gran perché della vita:
la sola specie che crede
ben fatto il coprirsi di panni;
la specie che avrà disinganni
finchè vorrà avere una fede,
la specie gravata dal cupo
retaggio d'un odio mai domo,
la specie maligna dell'uomo
che all'uomo sarà sempre lupo,
la specie infinita che figlia
in modo vertiginoso,
che figlia senza riposo
al pari d'una coniglia,
che germina, alligna, rampolla
ovunque possa trovare
un posto: e che forma quel mare
vivente detto la folla.
...


Alcune poesie di Carlo Vallini sono state incluse in prestigiose antologie sulla poesia italiana del Novecento, ne ricordo due: Poesia italiana del Novecento a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, Torino 1969 e Antologia della poesia italiana, vol. III - Ottocento e Novecento a cura di Cesare Segre e di Carlo Ossola, Hoepli, Milano 1999. Prima dell'edizione citata all'inizio di questo post, l'intera opera poetica di Vallini era stata raccolta e pubblicata da Edoardo Sanguineti nel volume Un giorno e altre poesie, Einaudi, Torino 1967 (vedi immagine sotto); qui si può leggere l'interessante prefazione dello stesso Sanguineti. Da segnalare anche il saggio su Valini scritto da Giuseppe Farinelli nel suo libro Vent'anni o poco più, Otto/Novecento, Milano 1998.






domenica 14 luglio 2013

Poeti dimenticati: Ulisse Ortensi

Ulisse Ortensi nacque a Pratola Peligna (L'Aquila) nel 1863 e morì a Sulmona (L'Aquila) nel 1935. Figlio di un avvocato, malgrado dimostrasse precocemente le sue propensioni e la sua passione per la letteratura, dovette seguire le orme del padre e si laureò in Legge divenendo poi avvocato. Ma i suoi interessi letterari non si domarono mai e fu così che negli anni andò pubblicando volumi di versi, drammi e traduzioni (famose quelle delle poesie di Edgar Allan Poe); fu anche critico letterario di valore. Leggendo le sue poesie si nota una certa affinità con la poetica di Giovanni Pascoli, ciò è dimostrato soprattutto dalla predilezione per le scene agresti e per una sincera pietà nei confronti degli umili e dei poveri.



Opere poetiche 

"Versi", Sarasino Editore, Modena 1893.
"Nuove poesie", Emporium, Bergamo 1896.
"Poveri sogni", Roux & Viarengo, Roma 1904.
"Liriche", Tip. F. Centenari e C., Roma 1907.





Testi

SPLEEN INVERNALE

Quando cadono le foglie, quando cadono le brume,
quando il Sol dà fioca luce, quando il mar dà nere spume
il mio core si rifugge, come un povero romito,
nel più oscuro asil del petto e là chiuso sbigottito,
pulsa pieno di mestizia, mentre sulla grigia pieve
fischia il vento dell'inverno e s'accumula la neve.

Come stanco della vita il mio cuore si raccoglie,
quando cadono le brume, quando cadono le foglie!

Quando i venti tempestosi urlan sull'eremitaggio,
quando scuotono i tuguri del mio povero villaggio;
il mio cuore si rifugge, come un essere atterrito
nel più oscuro asil del petto: là, tremante, sbigottito
pulsa e piange, piange e pulsa, mentre il vecchio campanile
rimodernano le nevi con un bianco e nuovo stile.

Pulsa e piange, piange e pulsa il mio cor senza coraggio,

quando i venti tempestosi urlan sull'eremitaggio!

(da "Versi")




LA CAMPANA FUNEBRE
(Alla memoria di Maria T...)

Tu devi avere un cuore. Ahi! che lamento
affannoso si udì nella tua voce
quando Maria spirò! Com'era lento
il tuo rintocco in quell'istante atroce!

Che funebri singhiozzi sopra il tetto
passavano portati via dal vento,
mentre cadevan ne l'estremo affetto,
le fredde rose sul bel corpo spento!

Quel giorno orrendo era la casa mia
come un tempio nei giorni di Passione:
v'eran la morte e la disperazione
e in tutti gli occhi il pianto sol fiorìa.

La tua voce venìa come parola
di condoglianza e di conforto. Ahi! quante
dolci cose dicea! Ma non consola
nulla al mondo chi piange un bel sembiante.

Le capinere sopra il campanile
pareano morte; il freddo umido vento
ne la casa deserta e nel cortile
univa alla tua voce il suo lamento.

Quanta passion scendea da la tua gola
che gemeva sui tetti della pieve!
Sopra la casa mia una parola
eterna si posava con la neve.

(da "Poveri sogni")

venerdì 12 luglio 2013

Poeti dimenticati: Bino Binazzi

Bino Binazzi nacque a Figline Valdarno (Firenze) nel 1878 e morì a Prato nel 1930. Studiò tra Arezzo e Firenze e stabilì prestissimo una solida amicizia con Ardengo Soffici. Insieme a Francesco Meriano, nel 1916 fondò una rivista: "La Brigata", che però ebbe breve vita. In seguito fu collaboratore del "Nuovo giornale" di Firenze e redattore del "Resto del Carlino". Già a diciannove anni cominciò a pubblicare volumi di versi che molto debbono al Carducci, al D'Annunzio, al Pascoli e ai poeti crepuscolari.



Opere poetiche

"Eptacordo", Assisi 1907.
"Turbini primaverili", La Vita Letteraria, Roma 1910.
"La via della ricchezza", Vallecchi, Firenze 1919.
"Poesie", Vallecchi, Firenze 1934.





Presenze in antologie

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. 1, pp. 102-111).
"I crepuscolari", a cura di Nino Tripodi, Edizioni del Borghese, Roma-Milano 1966 (pp. 499-503).
"Le notti chiare erano tutte un'alba", a cura di Andrea Cortellessa, Bruno Mondadori, Milano 1998 (pp. 319-320).



Testi

EMMA

Giù ne la cognita valle da l'orizzonte serrato,
ma preciso e tranquillo siccome risolto problema,
noi scenderemo a ritesser placide gioie infantili
lungo le sponde del fiume, dove più blanda fluisca
l'acqua azzurrina; ed i giorni blandi fluiranno ed azzurri
sopra l'anime nostre francate di tutti i desiri.
Poi che l'estrema canzone de la vendemmia si taccia,
e cedano le foglie al soffio dell'ultimo autunno -
biancheggiando da lungi framezzo ad i pioppi sfrondati,
sommesso il collo al giogo, i lenti mugghianti giovenchi -
Emma, il tuo nome sereno quasi meriggio d'aprile
mi spenderà nel cuore, quasi tubar di colomba
ridesterà la nota canzone di rose e d'amore.
L'attonita dolcezza de gli occhi tuoi chiari infantili
cercherà le nascoste chiesuole fra ciuffi di quercie
vibranti all'aer puro lor sacro linguaggio d'argento
da' bianchi campanili; e insiem troveremo la eterna
ignota al mondo tristo, preghiera che esalta e consola.
Tu sarai la sorella, la candida buona sorella
che poserà innocente sull'omero adusto che seppe
la dura ignobil croce per l'erta implacata de gli anni,
flagellando il mio spirto la sferza d'un aspro desire.
E nel tuo bianco volto mirando con occhio d'amore
risentirò la mite dolcezza di giorni remoti.
Oh felice sapienza all'onda fluente dell'ore
accordare il buon ritmo d'un vergine cuor di fanciulla!

(Da "Poesie")