venerdì 4 ottobre 2013

San Francesco d'Assisi nella poesia

Sono talmente tante le poesie dedicate a San Francesco d'Assisi che esiste un'antologia: La fiorita francescana, a cura di Tommaso Nediani, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo 1926, che raccoglie le più significative. È un libro di 374 pagine che comprende 77 poeti, da Jacopone da Todi a Giovanni Pascoli, da Dante Alighieri a Marino Moretti, tutti così colpiti e entusiasmati dalla figura del santo d'Assisi da scrivere almeno una lirica (ma alcuni di loro hanno scritto anche opere intere) ispirata a San Francesco o ai francescani. L'antologia è divisa nelle seguenti sezioni: I - FRATE FRANCESCO; II - AUREOLE FRANCESCANE; III - LA CANTICA DANTESCA PAUPERRIMUS BONORUM - L'ABISSO; IV - CONVENTI E PAESAGGI FRANCESCANI; V - LA POESIA E LA LEGGENDA FRANCESCANA.
 Aprendo il libro a pagina 72 si può leggere una bella poesia di Enrico Panzacchi: Perfectum gaudium, dove San Francesco cammina in compagnia di Frate Leone verso Perugia e durante il percorso fa una meditazione chiedendosi dove sia la gioia piena, dopo aver scartato una serie di possibilità giunge alla conclusione finale: «Ascolta, ascolta, pecora di Dio, / dentro a Perugia, se una turba ostile / ne verrà intorno, e come a due gaglioffi, / ne schernirà, ne strapperà i cappucci, /ne brutterà le tonache di fango, / poi, passando alle pietre ed ai randelli, / ne lascerà per terra mezzo morti, / sappi che solo in questo è gioia piena». Proseguendo la consultazione dell'antologia, a pagina 91 c'è il bel poemetto di Marino Moretti: La tonica del fraticello seguito, a pagina 96 da una lirica di Corrado Govoni: S. Francesco che negli ultimi versi nega la morte del fraticello d'Assisi: «Perchè tu non sei morto; i tuoi fratelli / non ti han chiuso per sempre nella bara, / ma ti han portato a braccia / sul ruvido burraccio / più puro dei lini della messa / ignudo come un'immensa eucarestia / a comunicar la terra amara. / Tu ti sei sciolto tutto in luce: / ti sei diffuso palpitando / in un'infinita benedizione». A pagina 110 si può leggere una poesia di Angiolo Silvio Novaro: S. Francesco e le creature, il cui inizio in parole molto semplici fa ben capire il messaggio di pace universale del poverello d'Assisi: «Agli uomini che aveano elmo e corazza, / che avean la spada e la ferrata mazza, / Dicea: - Gesù nessuna guerra vuole, / vuol che vi amiate sotto il dolce sole. / Dicea: - Gesù non vuol nessuna guerra, / vuol che vi amiate sulla dolce terra». Passando alla parte dedicata ai luoghi che in qualche modo ricordano San Francesco, a pagina 229 c'è una poesia di Angiolo Orvieto: San Francesco del deserto, che descrive un'isoletta della laguna veneziana dove si trova un convento di frati francescani, qui il poeta trova un'oasi di pace dove non giungono i tanti rumori provenienti da luoghi vicini (come Burano): «Sulle lastre che fragore /di sonanti zoccoletti, / o Burano dei merletti, / o Burano dell'amore! / Ma non giunge quel rumore / qui, nell'ombra claustrale, / nel silenzio sempre uguale, / sempre uguale a tutte l'ore. / Qui la pace delle aurore / dura tutta la giornata: / solitudine beata / per chi vive e per chi muore!». A pagina 232 si trova una tenera lirica di Giulio Salvadori in cui sono protagoniste le rondini e in particolare una: La rondinella di S. Francesco che ha fatto il nido sotto il tetto del convento francescano posto sul monte della Verna, l'uccello ha l'abitudine di intonare il suo melodioso canto solo e soltanto nei pressi del convento, tacendo altrove: «Passano i frati pii / dicendo: Ave! / la rondinella canta / sotto la trave. / / Tenera e delicata / la melodia; / la rondine la tace / lungo la via. / / Del picciol core amante / tutto il tesoro / effonde ella in quel canto / dolce e sonoro; / / la rondine lo tace / tra i tetti alteri / là dove l'aria è grave, / biechi i pensieri. / / Ma qui venne Francesco: / tra queste mura, / la rondinella canta / senza paura». La Passeggiata francescana (p. 257) scritta da Vittoria Aganoor Pompilj vuole sottolineare la visione in positivo che Francesco aveva della vita e della realtà; il santo infatti non badava a ciò che sembra pericoloso, sgradevole e preoccupante, si concentrava sulle cose rassicuranti, gradevoli e tranquillizzanti anche se difficili da trovare: « - Santo Francesco, un lieve parmi udire / frusciar di serpi sotto gli arboscelli... / / - Io non che il placido stormire / della pineta, e l'inno degli uccelli. / / - Santo Francesco, vien per la silvestre / via, dallo stagno, un alito che pute... / / - Io sento odor di timi e di ginestre, / io bevo aria di gioia e di salute. / / - Santo Francesco, qui si affonda, e omai / vien la sera, e siam lungi dalle celle... / / - Alza gli occhi dal fango, uomo, e vedrai / fiorire nei celesti orti le stelle». Semplice e bella è la poesia di Silvio Cucinotta: Convento francescano (p. 258) in cui il poeta tende a rimarcare l'impressione di profonda pace che emana il luogo religioso: «Dolce pace di convento / dove l'anima traduce / ne l'angoscia di un accento / una speme che riluce! / / Ecco, picchio a la tua porta, / solitudine di pace: / cerca l'anima risorta / pace, pace, pace, pace». A pagina 285 è possibile leggere una poesia di Giosuè Carducci intitolata Santa Maria degli Angeli che è ambientata nella Porziuncola, cappella situata all'interno della basilica di Santa Maria degli Angeli in Assisi. Nella Porziuncola andava a pregare San Francesco e qui, in questo luogo ancora così pregno della presenza del santo, il poeta toscano lo invoca emozionato: «Frate Francesco, quanto d'aere abbraccia / questa cupola bella del Vignola, / dove incrociando a l'agonia le braccia / nudo giacesti su la terra sola!». Carducci spera di sentire Francesco cantare le sue preghiere, di vederlo in volto e, come ultima immagine, s'immagina il santo con le braccia aperte mentre declama a Dio il famoso "Cantico delle Creature": «Ti vegga io dritto con le braccia tese / cantando a Dio - Laudato sia, Signore, / per nostra corporal sorella morte! -».
Prima di concludere mi sembra opportuno fare un veloce accenno a qualche poesia posteriore all'antologia testè analizzata. In Momenti francescani, raccolta poetica di Luigi Orsini pubblicata nel 1927, c'è un bel sonetto intitolato Il giardino che descrive un lieto momento serale vissuto nel "giardinetto della pia sorella" (forse in riferimento a Santa Chiara) che sembrerebbe essere già stato vissuto dal poeta, non si sa quanto lontano nel tempo. In questo angolo di verde si respira un'atmosfera paradisiaca e nello stesso tempo incantata: «Vi crescevan le rose e l'ulivella, / e il timo aulente vi facea ghirlanda. / / Pendea dal ciel su l'umile veranda / l'argenteo raggio della prima stella; / e c'era il canto d'una fontanella / odorosa di gigli e di lavanda». Nella raccolta poetica Via delle cento stelle di Aldo Palazzeschi c'è una poesia intitolata Messer lo frate solo che mette in risalto un elemento caratteristico della vita di Francesco, in particolar modo per quel che riguarda gli anni successivi all'allontanamento dalla sua famiglia: la solitudine; ecco i versi iniziali della lirica: «Solo / curvo e stanco ti vedo avvicinare / nello sfondo di un prato / ricoperto di margherite. / Solo / al chioccolio delle fontane / seduto un istante / e all'uso di un mendicante / mangiare un pezzo di pane. / Solo / nella luce del tramonto / verso la Porziuncola / in un concerto di campane / non più terrene / ma che dal cielo / con un'ebbrezza paradisiaca / invadono l'ètere». Nella sezione Un abbaino in Piazza Teofilo Folengo del libro di Umberto Bellintani Nella grande pianura c'è una poesia intitolata Il lupo di Gubbio dove il poeta sembra rivivere le sensazioni di terrore provate dagli abitanti del paese umbro quando, secondo una leggenda, ai tempi di Francesco un pericoloso lupo si aggirava nei dintorni di Gubbio; il poeta lombardo descrive l'animale in maniera molto simile a quella con cui Dante descrisse l'infernale traghettatore Caronte: «L'orrido spavento / nero di lupo / con gli occhi di bragia / e ridisceso dal monte / e ringhia alle porte / malchiuse di Gubbio». Nella seconda parte della breve poesia è come se parlasse la popolazione di Gubbio, che, rivolgendosi al santo d'Assisi dice: «portaci alla Cantica / delle Creature: / la Cittadella è in pericolo / di cruda morte».

La perfetta letizia secondo San Francesco d'Assisi

Oggi, 4 ottobre, si festeggia San Francesco d'Assisi, Patrono d'Italia; uno dei santi più cari non solo ai connazionali. Per ricordare questo personaggio unico nella storia dell'umanità, ho voluto riproporre sia un frammento in prosa che alcuni versi in cui si parla di un episodio molto significativo della vita del poverello d'Assisi. Il brano in prosa è tratto dai "Fioretti di S. Francesco", mentre la poesia è di Enrico Panzacchi, poeta dell'Ottocento che rimase colpito, come molti altri lirici, d'altronde, dalla figura e dall'opera di Francesco.

 


Come andando per cammino santo Francesco e frate Leone, gli spuose quelle cose che sono perfetta letizia.

Venendo una volta santo Francesco da Perugia a Santa Maria degli Angioli con frate Lione a tempo di verno, e ’l freddo grandissimo fortemente il crucciava, chiamò frate Lione il quale andava innanzi, e disse così: «Frate Lione, avvegnadioché li frati Minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e di buona edificazione nientedimeno scrivi e nota diligentemente che non è quivi perfetta letizia». E andando più oltre santo Francesco, il chiamò la seconda volta: «O frate Lione, benché il frate Minore allumini li ciechi e distenda gli attratti, iscacci le dimonia, renda l’udir alli sordi e l’andare alli zoppi, il parlare alli mutoli e, ch’è maggior cosa, risusciti li morti di quattro dì; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia». E andando un poco, santo Francesco grida forte: «O frate Lione, se ’l frate Minore sapesse tutte le lingue e tutte le scienze e tutte le scritture, sì che sapesse profetare e rivelare, non solamente le cose future, ma eziandio li segreti delle coscienze e delli uomini; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia». Andando un poco più oltre, santo Francesco chiamava ancora forte: «O frate Lione, pecorella di Dio, benché il frate Minore parli con lingua d’Agnolo, e sappia i corsi delle istelle e le virtù delle erbe, e fussongli rivelati tutti li tesori della terra, e conoscesse le virtù degli uccelli e de’ pesci e di tutti gli animali e delle pietre e delle acque; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia». E andando ancora un pezzo, santo Francesco chiamò forte: «O frate Lione, benché ’l frate Minore sapesse sì bene predicare che convertisse tutti gl’infedeli alla fede di Cristo; iscrivi che non è ivi perfetta letizia».
E durando questo modo di parlare bene di due miglia, frate Lione, con grande ammirazione il domandò e disse: «Padre, io ti priego dalla parte di Dio che tu mi dica dove è perfetta letizia». E santo Francesco sì gli rispuose: «Quando noi saremo a santa Maria degli Agnoli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo la porta dello luogo, e ’l portinaio verrà adirato e dirà: Chi siete voi? e noi diremo: Noi siamo due de’ vostri frati; e colui dirà: Voi non dite vero, anzi siete due ribaldi ch’andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andate via; e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e colla fame infino alla notte; allora se noi tanta ingiuria e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pazientemente sanza turbarcene e sanza mormorare di lui, e penseremo umilmente che quello portinaio veramente ci conosca, che Iddio il fa parlare contra a noi; o frate Lione, iscrivi che qui è perfetta letizia. E se anzi perseverassimo picchiando, ed egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate dicendo: Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, ché qui non mangerete voi, né albergherete; se noi questo sosterremo pazientemente e con allegrezza e con buono amore; o frate Lione, iscrivi che quivi è perfetta letizia. E se noi pur costretti dalla fame e dal freddo e dalla notte più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore di Dio con grande pianto che ci apra e mettaci pure dentro, e quelli più scandolezzato dirà: Costoro sono gaglioffi importuni, io li pagherò bene come son degni; e uscirà fuori con uno bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone: se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore; o frate Lione, iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia. E però odi la conclusione, frate Lione. Sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere se medesimo e volentieri per lo amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e obbrobri e disagi; imperò che in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, però che non sono nostri, ma di Dio, onde dice l’Apostolo: Che hai tu, che tu non abbi da Dio? e se tu l’hai avuto da lui perché te ne glorii come se tu l’avessi da te? Ma nella croce della tribolazione e dell’afflizione ci possiamo gloriare, però che dice l’Apostolo: Io non mi voglio gloriare se non nella croce del nostro Signore Gesù Cristo».
A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.


(Da "I fioretti di S. Francesco")
 


 
 
PERFECTUM GAUDIUM

Francesco andava un dì verso Perugia,
al suo compagno cosi favellando :
« Frate Leone, pecora di Dio,
odimi attento. Se il frate minore
tutti comprenda i moti delle stelle,
e scuopra tutte le virtù segrete
delle pietre, degli alberi e dell'acque,
ed anco s' egli interpreti il linguaggio
degl' animali che per terra vanno
e degli uccelli che per aria volano,
sappi che in questo non è gioia piena ».
E dopo un tratto di cammin riprese :
« Frate Leone, pecora di Dio,
odimi attento. Se il frate minore
intenda e parli tutti gl' idiomi
che le diverse genti ebbero in terra,
e s' egli acquisti quanta è sapienza
nei sacri libri e tesaurizzi quanto
scrissero i Padri e legga manifesti
i pensieri degli Angeli e dei Santi,
sappi che in questo non è gioia piena ».
E dopo un tratto di cammin riprese :
« Frate Leone, pecora di Dio,
odimi attento. Se il frate minore
abbia potenza di guarir la lebbra
e faccia dritto camminar gli storpi
e ridoni la luce agli occhi spenti,
se spezzi, predicando, il cuor di tutti
i peccatori e tutti gl' infedeli
docili renda nella fé di Cristo,
sappi che in questo non è gioia piena ».
E dopo un tratto di cammin riprese :
« Ascolta, ascolta, pecora di Dio,
frate Leone. Quando sarem giunti
dentro a Perugia, se una turba ostile
ne verrà intorno e, come a due gaglioffi,
ne schernirà, ne strapperà i cappucci,
ne brutterà le tonache di fango,
poi, passando alle pietre ed ai randelli,
ne lascerà per terra mezzo morti,
sappi che solo in questo è gioia piena ».
Cosi parlando il Santo si fermò
a mezzo l' erta. Il sole alla sua faccia
dalle cime del Catria raggiava;
e non s' udia lo scroscio del torrente,
e tacevan le rondini nel bosco.
Sentì frate Leone in quel silenzio
una domanda. Gli occhi mansueti
alzò in viso al Maestro, e disse : « Andiamo ! » 


Ozzano Emilia, agosto 1896

(Da "Poesie" di Enrico Panzacchi, Zanichelli, Bologna 1909)

domenica 8 settembre 2013

Antologie: "La giovane poesia" di Enrico Falqui

"La giovane poesia" è il titolo di un'importante antologia poetica curata dal critico letterario Enrico Falqui, che fu pubblicata dalla Casa Editrice Carlo Colombo in Roma nel 1956. Una seconda edizione aumentata uscì l'anno seguente, presso il medesimo editore della prima. Il volume si sostanzia in un saggio sulla giovane poesia del secondo dopoguerra, seguito da una selezione molto ricca di poeti che allora avevano tra i venti ed i trent'anni circa, e di alcune loro poesie, in genere tratte da libri di versi pubblicati tra il 1945 ed il 1955. Si può ben dire che siano qui rappresentati tutti, o quasi, i poeti di allora (in età giovanile) più importanti e più bravi. Anche i gruppi e le correnti letterarie sono riprodotti totalmente: troviamo infatti poeti postermetici, neorealisti, della "Quarta generazione", cattolici e perfino qualcuno di coloro che di lì a pochi anni si sarebbero definiti "Novissimi". Rimangono purtroppo esclusi alcuni scrittori che, pur essendo ancora giovani, non rientravano nel limite massimo d'età che Falqui stabilì ai trent'anni. Non parlo di poeti ermetici come Mario Luzi o come Alessandro Parronchi, nè di altri validissimi come Giorgio Caproni e Attilio Bertolucci, questi infatti già erano stati ampiamente selezionati e consacrati da altre antologie fondamentali; bensì mi riferisco a poeti come Umberto Bellintani e Vittorio Bodini i quali pubblicarono le loro prime opere in versi in età già matura. A parte quest'ultima riflessione, ritengo che l'antologia di Falqui sia di gran lunga la migliore tra quelle uscite negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale e che delinei una panoramica della poesia italiana allora emergente, cercando d'inserire il maggior numero di voci. È dunque, per chi sia interessato alla poesia italiana di questo periodo piuttosto circoscritto, un manuale prezioso. Per chiudere ecco l'elenco dei poeti presenti nella seconda edizione di "La giovane poesia" con, tra parentesi, le pagine in cui si trovano i loro versi.







Luigi Compagnone (119-121)
Nicola Ghiglione (122-123)
Emilio Villa (124-132)
Giulio Alessi (133-136)
Giuseppe Avarna (137-138)
Giorgio Bassani (139-140)
Gherardo Del Colle (141-143)
Marcello Landi (144-145)
Romeo Lucchese (146-152)
Raimondo Manelli (153-157)
Francesco Masala (158-160)
Albino Pierro (161-166)
Romano Romani (167-169)
Mariano Suali (170)
David Maria Turoldo (171-175)
Rina Virgillito (176)
Orlando Pier Capponi (177-179)
Franco Fortini (180-186)
Costantino Ruggeri (187-189)
Lamberto Santilli (190-194)
Giulio Stolfi (195)
Franco Matacotta (196-202)
Stefano Terra (203-205)
Enzio Cetrangolo (206-211)
Stefano d'Arrigo (212-221)
Roberto Morsucci (222-226)
Tosco Nonini (227-230)
Vittore Fiore (231-236)
Giuliano Gramigna (237-240)
Renzo Modesti (241-245)
Michele Pardo (246-248)
Giorgio Piovano (249-254)
Nelo Risi (255-259)
Angelo Romanò (260-262)
Mario Socrate (263-266)
Giacinto Spagnoletti (267-270)
Ernesto Treccani (271-272)
Marco Visconti (273-275)
Elena Bono (276-277)
Mario Cerroni (278-279)
Leila Corbetta (280-283)
Raoul Diddi (284-290)
Gaio Fratini (291-292)
Margherita Guidacci (293-299)
Biagia Marniti (300-302)
Dino Menichini (303-306)
Bruno Nardini (307-310)
Giorgio Orelli (311-313)
Domenico Porzio (314-319)
Sandro Sinigaglia (320-322)
Giuseppe Zagarrìo (323-325)
Andrea Zanzotto (326-332)
Paolo Wenzel (333-334)
Bartolo Cattafi (335-339)
Luciano Erba (340-341)
Mario Farinella (342-343)
Alberto Frattini (344-345)
Gian Domenico Giagni (346-347)
Carmelo Mele (348-350)
Geri Morra (351-354)
Gilda Musa (355-357)
Pier Paolo Pasolini (358-375)
Saverio Vòllaro (376-378)
Elio Filippo Accrocca (379-385)
Liliana Angeli (386-389)
Giancarlo Artoni (390-391)
Gino Baglìo (392-394)
Tito Balestra (395-397)
Gino Gerola (398-400)
Tommaso Giglio (401-409)
Adriano Guerrini (410-412)
Giuseppe Guglielmi (413-415)
Enzo Nasso (416-418)
Alessandro Peregalli (419-422)
Roberto Roversi (423-428)
Alberico Sala (429-431)
Rocco Scotellaro (432-435)
Giuseppe Selvaggi (436)
Giorgio Soavi (437-438)
Libero Torraca (439-440)
Casimiro Bettelli (441-442)
Luciano Budigna (443-448)
Domenico Cadoresi (449-451)
Franco Costabile (452-455)
Danilo Dolci (456-459)
Enzo Fabiani (460-461)
Nando Giolli (462-469)
Giovanni Giudici (470-474)
Alfredo Giuliani (475-477)
Francesco Leonetti (478-482)
Luciano Luisi (483-488)
Enzo Mazza (489-491)
Mario Ramous (492-495)
Brunello Rondi (496-501)
Alberto Vighi (502-505)
Paolo Volponi (506-511)
Fabio Carpi (512-513)
Giovanni Cristini (514-516)
Luciana Frezza (517-520)
Maria Luisa Spaziani (521-522)
Cesare Vivaldi (523-525)
Giannina Angioletti (526-527)
Gian Piero Bona (528-531)
Perla Cacciaguerra (532-533)
Salvatore Cossù (534-537)
Renzo Giacheri (538-541)
Giancarlo Marmori (542-544)
Nella Nobili (545-547)
Uberto Paolo Quintavalle (548-550)
Giovanni Arpino (551-553)
Pier Luigi Bacchini (554-556)
Guido Ceronetti (557-562)
Paolo De Benedetti (563-565)
Emilio Jona (566-570)
Elio Pagliarani (571-572)
Alfredo Rizzardi (573-574)
Emilio Tadini (575-581)
Emilio Tumminelli (582-586)
Gian Carlo Conti (587-589)
Inisero Cremaschi (590-592)
Pietro Cimatti (593-599)
Nino Crimi (600-601)
Michele Parrella (602-607)
Alberto Arbasino (608-613)
Giorgio Cusatelli (614-616)
Carlo Della Corte (617-619)
Mario Diacono (620-623)
Luigi Di Ruscio (624-629)
Edoardo Sanguineti (630-633)
Alda Merini (634-638)
Giammario Sgattoni (639)
Giuseppe Tedeschi (640-641)
Giuseppe Rosato (642-643)
Sergio Salvi (644-647)
Sergio Pautasso (648-649)
Paolo Venchieredo (650-651)
Alberto Bevilacqua (652-654)
Raffaele Crovi (655-657)
Massimo Ferretti (658-659)
Marco Gaggiati (660-663).

domenica 1 settembre 2013

Settembre in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Come sono belle queste tue prime giornate, Settembre! Mi sono tornate alla mente tante altre giornate, trascorse da anni e anni ormai, fatte di albe entusiasmanti, di mattini laboriosi, di pomeriggi lenti e di sere stupende. Ricordo gli anni in cui durante il tuo tempo era facile che aiutassi mio nonno a fare dei lavori nel suo orto, ed erano lavori facili e piacevoli; ricordo la sottile tristezza che subentrava nel mio animo quando, nei tuoi primi dì, pensavo all'imminente riapertura delle scuole. Ricordo le giornate ventose e serene che mi donavi, trascorse sulla spiaggia di Senigallia, e i bagni divertenti, con le onde altissime e l'acqua già fredda. Che bel mese è Settembre.
Ricordo pure che in un giorno di metà Settembre mia nonna se ne andò, sperando ancora in una giornata di pioggia che finalmente potesse rinfrescare l'aria. La sua attesa fu vana. A pensarci bene fu fortunata, perché Settembre è il mese migliore per morire.
Già alla fine di agosto si sono susseguiti dei temporali che hanno abbeverato la terra riarsa, le giornate sono più corte e le notti più fresche; l'estate sta per finire, ma sta anche offrendo il meglio di sé, grazie ad un clima ottimo. Cammino lungo una strada deserta, e sento tutto il tuo splendore, mese caro che mi sei sempre stato amico.
Sono tornato a casa ed ho portato con me i tuoi meravigliosi frutti, Settembre: uva, fichi, pere e pesche. Presto assaporerò la loro dolcezza, e di nuovo mi torneranno in mente quei tanti giorni del passato in cui tu trascorrevi placido e spensierato, mese che mi hai dato tanto e che amo alla follia. Grazie Settembre, di esistere.


I PASTORI
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Settembre, andiamo. E' tempo di migrare.
Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all'Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d'acqua natía
rimanga ne' cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d'avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!

Ora lungh'esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l'aria.
il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquío, calpestío, dolci romori.

Ah perché non son io cò miei pastori?

(Da "Alcyone", Treves, Milano 1904)





SONETTO DI SETTEMBRE
di Carlo Vallini (1885-1920)

O Settembre, nel bel parco silente 
ove assorto al mio sogno un dí vagai, 
fa’ ch’io rivegga ancora dai rosai 
fiorir le rose, prodigiosamente. 

Ch’io rioda tra i boschi dolcemente 
gemer le mie fontane dolci lai 
e le gelide statue che mai 
mutano gesto, interrogarmi intente. 

Irrompa tra i cipressi, per le aperte 
finestre, nel castello, la sovrana 
fiamma sanguigna del gran sol che muore 

e dilaghi via via per le deserte 
plaghe, una voce triste che lontana
mi sembri e pianga invece nel mio cuore.

(Da "La rinunzia", Streglio, Torino 1907)





SETTEMBRE
di Luigi Pirandello (1867-1936)

Le speranze se ne vanno
come rondini a fin d ’anno:
torneranno?
Nel mio cor vedovi e fidi
stanno ancora appesi i nidi
che di gridi
già sonaron brevi e gaj:
vaghe rondini, se mai
con i raj
del mio Sole tornerete,
le casucce vostre liete
troverete.

(Da «Nuova Antologia», agosto 1910)





SETTEMBRE
di Nicola Moscardelli (1894-1943)

settembre, incanto di convalescente
che giocando con nulla si contenta,
uva d'ambra che imbiondisce lentamente
sotto i soffi del tramonto
veleggiante alto sui monti,
seta tiepida innocente
delle foglie saltellanti
verso qualche ignoto mare
come farfalle gracili rinate
col vestitino d'estate sbiadito,
verde brina di stelle trasparenti
sul giallore della terra illanguidita,
un canto alla lontana che si sente e non si sente
come quando uno sogna e si lamenta
con la sua bocca spenta.

(Da "Gioielleria notturna", Studio Editoriale Lombardo, Milano 1918)





SETTEMBRE NAPOLETANO
di Francesco Gaeta (1879-1927)

Frondente carro da le purpuree
issate lune, quali i cocomeri
spaccati in giocondi emispèri,
con codazzo di popol pe' i trivi!

Errante grido di fruttivendoli,
che canti i fichi l'uva le pèrsiche
e i colli assolati di tufo
ove asciugano i panni ne 'l vento!

Mattine azzurre, quando su l'organo
coro di donne lauda la Vergine
e i vetri de 'l vecchio convento
si colorano, freschi, di cielo!

Le dita belle dunque d'un angelo
toccar le corde de 'l nostro spirito?
A i cieli ei si fugge si fugge,
come l'ultimo sole pe' i monti.

(Da "Poesie d'amore", Laterza, Bari 1920)





LA LUNA NUOVA DI SETTEMBRE SU LA BUIA
di Sandro Penna (1906-1977)

La luna di settembre su la buia
valle addormentata ai contadini il canto.

Una cadenza insiste: come lento
respiro di animale, nel silenzio,
salpa la valle se la luna sale.

Altro respira qui, dolce animale
anch’egli silenzioso. Ma un tumulto
di vita in me ripete antica vita.

Più vivo di così non sarò mai.

(Da «Frontespizio», novembre 1939)





SETTEMBRE
di Vittorio Sereni (1913-1983)

Già l'òlea fragrante nei giardini
d'amarezza ci punge: il lago un poco
si ritira da noi, scopre una spiaggia
d'aride cose,
di remi infranti, di reti strappate.
E il vento che illumina le vigne
già volge ai giorni fermi queste plaghe
da una dubbiosa brulicante estate.

Nella morte già certa
cammineremo con più coraggio,
andremo a lento guado coi cani
nell'onda che rotola minuta.

(Da "Frontiera", Edizioni di «Corrente», Milano 1941)





SETTEMBRE
di Raffaele Carrieri (1905-1984)

Sapore d'avana
ha settembre
e spessore
di fustagno.
Il fieno odora
di donna
e il cielo
di guanti nuovi.

(Da "Lamento del gabelliere", Mondadori, Milano 1946)





PIOGGIA DI SETTEMBRE
di Leonardo Sciascia (1921-1989)

Le gru rigano lente il cielo,
più avido è il grido dei corvi;
e il primo tuono rotola improvviso
tra gli scogli lividi delle nuvole,
spaurisce tra gli alberi il vento.
La pioggia avanza come nebbia,
urlante incalza il volo dei passeri.
Ora scroscia sulla vigna, tra gli ulivi;
per la rabbia dei lampi preghiere
cercano le vecchie contadine.

Ma ecco un umido sguardo azzurro
aprirsi nel chiuso volto del cielo;
lentamente si allarga fino a trovare
la strabica pupilla del sole.
Una luce radente fa nitido
il solco dell'aratro, le siepi s'ingemmano;
tra le foglie sempre più rade
splende il grappolo niveo dei pistacchi.

(Da "La Sicilia, il suo cuore", G. Bardi, Roma 1952)





SETTEMBRE A SISTIANA
di Alfonso Gatto (1909-1976)

L'autunno è già venuto
una tomba di ghiaia,
scoscende nell'imbuto
di porfido la baia.

Il liquore silente
dell'acqua pesca un chiaro,
è tutto forse è niente
il bene che ci è caro,

il presagio che porta
nell'aria il suo sfacelo,
una stagione morta
alla fonda del cielo.

(Da "La forza degli occhi", Mondadori, Milano 1954)

giovedì 15 agosto 2013

Poeti dimenticati: Giuliano Donati Pétteni

Giuliano Donati Pétteni nacque a Bergamo nel 1894 e vi morì nel 1930. Precocissimo fu il suo esordio poetico che avvenne nel 1910 con la raccolta "Alba". Appena finito il liceo partì per la prima guerra mondiale dove si fece onore ma si procurò anche alcune ferite che col tempo si dimostreranno letali. Tornato dal fronte si laureò in lettere e, successivamente, professò l'insegnamento in alcuni licei della penisola italiana. Collaborò a vari giornali e riviste leterarie tra cui «Il Secolo» di Milano; pubblicò volumi di saggi e di poesie. I suoi versi attingono spesso dal materiale tematico dei crepuscolari e quindi mettono in luce l'animo profondamente malinconico dell'autore.



Opere poetiche

"Alba", Tip. Verdoni, Bergamo 1910.
"Primo vere", Tip. Verdoni, Bergamo 1910.
"Versi dorati", Tip. Conti, Bergamo 1916.
"Intimità", Zanichelli, Bologna 1926.







Presenze in antologie

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 358-359).
"Novissima antologia", a cura di Pasquale Ceravolo, Quaderni di «Il Pensiero», Bergamo 1929 (pp. 141-143).



Testi

VENGO DA STRANE LONTANANZE...

Vengo da strane lontananze e ancora
riprenderò domani il mio cammino.
Da dove, verso dove? Ecco è vicino
forse il mio giorno e l'anima l'ignora.

Ma tu mi dici: "Della primavera
cogli le rose, è voluttà d'un fiore
la vita, ed abbandonati all'amore
poichè langue nei cuori una chimera.

Sorridi. La speranza un nuovo giorno
dischiude, credi al sogno che s'implora;
l'amor accogli quando fa ritorno:
nulla è perduto e non passata è l'ora."

Ma tace in me placato ogni desio,
e guardo, là, sul fiume della vita,
in disparte, pel mare dell'oblio
degli uomini la triste dipartita.

E nulla chiedo. Al cuore non bisogna
più nulla. In me s'è spenta la passione
e dolce m'è questa rassegnazione
d'anima che non piange e che non sogna.

(Da "Intimità")

sabato 10 agosto 2013

Il disfacimento nella poesia italiana decadente e simbolista

Si può ben dire che il decadentismo si fondi sull'idea di un graduale e inesorabile disfacimento della civiltà; Paul Verlaine mise in versi questo concetto in una poesia intitolata Langueur (pubblicata su una rivista letteraria nel 1883):

Io sono l'Impero alla fine della decadenza,
che guarda passare i grandi Barbari bianchi
componendo acrostici indolenti in aureo stile
in cui danza il languore del sole.
L'anima solitaria soffre di un denso tedio.
Laggiù, si dice, lunghe battaglie cruente.
Oh, non potervi, così debole nei miei lenti desideri,
oh, non volervi fiorire un po' quest'esistenza!
Oh, non volervi, non potervi un po' morire!
Ah, tutto è bevuto! Batillo, hai finito di ridere?
Ah, tutto bevuto, tutto mangiato! Più nulla da dire!
Solo, una poesia un po' sciocca da gettare nel fuoco,
solo, uno schiavo un po' frivolo che vi trascura, solo,
una noia di chissà cosa che vi affligge!

Il poeta si identifica con l'impero romano nel momento della sua fine, che avviene in modo lento, stancamente; tutto ciò riflette il modo di pensare diffuso in quel determinato periodo (all'incirca l'ultimo quarto di secolo dell'Ottocento). C'era, allora, l'impressione che tutta una civiltà fosse o stesse per giungere al suo capolinea; da questa idea, i cosiddetti decadentisti posero le basi della loro attività letteraria, tutta pregna di un senso di disfacimento descritto e assaporato con sorprendente compiacimento. Tale situazione nasceva dal convincimento che, così come avvenne alla fine dell'impero romano, quando una civiltà è sul punto di scomparire si esprime al suo massimo in eleganza e in raffinatezza. Ecco allora spiegata la presenza di numerosissimi paesaggi, personaggi, luoghi e situazioni i quali, sia in versi che in prosa, vogliono rappresentare quel famoso disfacimento. In Italia tale tendenza si sviluppò con qualche decennio di ritardo, e fu esaltata soprattutto dai poeti crepuscolari.



Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "La siesta", "Il liuto vano", "L'ultima ghirlanda", "Disperata" e "L'ultimo dono" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Vittoria Aganoor: "Inverno" in "Poesie complete" (1912).
Diego Angeli: "Minacce" e "Lamento di una sera di decembre" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).
Carlo Basilici: "Il Convito" in «La Vita Letteraria», gennaio 1905.
Umberto Bottone: "La povera gioia" in "Corde ai fianchi" (1910).
Giovanni Camerana: "È tardi, è tardi: l'ombra è intensa..." in "Poesie" (1968).
Enrico Cavacchioli: "Il gesto" in "Le ranocchie turchine" (1909).
Giovanni Cena: "A mia sorella" in "In umbra" (1899).
Carlo Chiaves: "Invernale" in "Tutte le poesie edite e inedite" (1971).
Guelfo Civinini: "Motivo stanco" in "L'urna" (1900).
Sergio Corazzini: "Chiesa abbandonata" in "Dolcezze" (1904).
Sergio Corazzini: "Rime dell'inverno" in «Marforio», novembre 1904.
Corrado Corradino: "Hora mala" in "Su pe 'l calvario" (1889).
Adolfo De Bosis: "Ala caduca" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Federico De Maria: "La caduta del campanile" in "Voci" (1903).
Luigi Donati. "La fine" in "Poesia di passione" (1928).
Giuliano Donati Pétteni: "L'Estate defunta" in "Intimità" (1926).
Vincenzo Fago: "Addio!" in "Discordanze" (1905).
Diego Garoglio: "La veglia" in "Sul bel fiume d'Arno" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Verso le morte cose" e "Il funerale" in «Nuova Antologia», luglio 1906.
Corrado Govoni: "Rassegnazione angosciosa" in "Le Fiale" (1903).
Corrado Govoni "Aegri somnia" in "Gli aborti" (1907).
Arturo Graf: "Nirvana" in "Medusa" (1890).
Achille Leto: "Naufragio" in "Piccole ali" (1914).
Giuseppe Lipparini: "Paolina" e "Il frutteto" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Gian Pietro Lucini: "La Ballata delle Dame della Foglia" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Remo Mannoni: "Sonetto simbolico" in «La Stella e L'Aurora Italiana», aprile 1905.
Tito Marrone: "Desolazione" in "Cesellature" (1899).
Tito Marrone: "Speranza" in «Rolando», ottobre 1907.
Fausto Maria Martini: "Meditazione" in "Le piccole morte" (1906).
Pietro Mastri: "Addio" in "Lo specchio e la falce" (1907).
Guido Milelli: "Canzonetta disadorna" in "Settimana Artistica Letteraria", febbraio 1908.
Mario Morasso: "Del giorno estremo della terra" in "Sinfonie luminose" (1893).
Nicola Moscardelli: "In nero" in "Abbeveratoio" (1915).
Pier Ludovico Occhini: "Sans trite" in "Biscuits de Sèvres" (1897).
Luigi Orsini: "Ultima estate" e "Una fine" da "Canti delle stagioni" (1905).
Aldo Palazzeschi: "Vittoria" in "Poemi" (1909).
Francesco Pastonchi: "Canzone antica e nuova" in "Il pilota dorme" (1913).
Yosto Randaccio: "Crepuscolo di cielo e d'anima" in "Poemetti della convalescenza" (1909).
Guido Ruberti: "Vesperi latini" in "Le fiaccole" (1905).
Emanuele Sella: "Fuor della vita" in "Monteluce" (1909).
Giovanni Tecchio: "Moriente octobre" in "Mysterium" (1894).
Diego Valeri: "Pagina di diario" e "Lied" in "Umana" (1916).
Remigio Zena: "La pace" in "Olympia" (1905).



Testi

VERSO LE MORTE COSE
di Cosimo Giorgieri Contri

Vidi l'ultime rose
fiorir l'ultimo clivo;
lento, assorto, io salivo
verso le morte cose.

L'odore, a quando a quando,
m'inviava un addio:
indugiava il mio
cuore, rammemorando.

Pure, io pensavo: Affretta;
ogni olezzo è fugace,
è nell'alto la pace:
ascendi: ella ti aspetta!

Io salivo, io salivo
verso le morte cose:
e più rade le rose
si facean sul declivo.

L'anima si chetava
in silenzio. Ogni vano
sogno era già lontano:
ogni desìo passava

sul mio capo, con volo
d'uccel che migra al norte:
verso le cose morte
io salivo: ero solo.

(Da «Nuova Antologia», 1° luglio 1906)

sabato 3 agosto 2013

Agosto in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Agosto, ottavo mese dell'anno, rappresenta l'estate ai suo massimi livelli di caldo. In tali giorni molte persone smettono di lavorare e vanno in ferie. Tra queste, la gran parte abbandona per un periodo che può essere più o meno breve, la sua abitazione e i luoghi che frequenta per il resto dell'anno, cercando in un luogo ospitale, incantevole e lontano, un relax ed un benessere di cui non può godere rimanendo a casa. In queste dieci poesie, però, si parla d'altro: emergono ricordi precisi, sensazioni e meditazioni che scaturiscono dal trascorrere dei giorni di questo mese estivo, che nei suoi ultimi giorni mostra già qualche traccia dell'autunno prossimo a venire, ormai tutt'altro che lontano. Segna in tal modo la massima espansione della calda stagione ed anche il suo imminente declino.


PIOGGIA D'AGOSTO
di Guido Gozzano (1883-1916)

Nel mio giardino triste ulula il vento,
cade l’acquata a rade goccie, poscia
più precipite giù crepita scroscia
a fili interminabili d’argento...
Guardo la Terra abbeverata e sento
ad ora ad ora un fremito d’angoscia...

Soffro la pena di colui che sa
la sua tristezza vana e senza mete;
l’acqua tessuta dall’immensità
chiude il mio sogno come in una rete,
e non so quali voci esili inquiete
sorgano dalla mia perplessità.

«La tua perplessità mediti l’ale
verso meta più vasta e più remota!
È tempo che una fede alta ti scuota,
ti levi sopra te, nell’Ideale!
Guarda gli amici. Ognun palpita quale
demagogo, credente, patriota...

Guarda gli amici. Ognuno già ripose
la varia fede nelle varie scuole.
Tu non credi e sogghigni. Or quali cose
darai per meta all’anima che duole?
La Patria? Dio? l’Umanità? Parole
che i retori t’han fatto nauseose!...

Lotte brutali d’appetiti avversi
dove l’anima putre e non s’appaga...
Chiedi al responso dell’antica maga
la sola verità buona a sapersi;
la Natura! Poter chiudere in versi
i misteri che svela a chi l’indaga!»

Ah! La Natura non è sorda e muta;
se interrogo il lichène ed il macigno
essa parla del suo fine benigno...
Nata di sé medesima, assoluta,
unica verità non convenuta,
dinanzi a lei s’arresta il mio sogghigno.

Essa conforta di speranze buone
la giovinezza mia squallida e sola;
e l’achenio del cardo che s’invola,
la selce, l’orbettino, il macaone,
sono tutti per me come personæ,
hanno tutti per me qualche parola...

Il cuore che ascoltò, più non s’acqueta
in visïoni pallide fugaci,
per altre fonti va, per altra meta...
O mia Musa dolcissima che taci
allo stridìo dei facili seguaci,
con altra voce tornerò poeta!

(Da "I colloqui", Treves, Milano 1911)





SERA D'AGOSTO
di Giovanni Descalzo (1902-1951)

Stanno alla fonda le barche
leggere su l'acqua ondulante;
ferve di un solo riflesso
giallo-arancione il Tigullio!
Non è più giorno,
non è ancor sera,
l'indugiar della luce ora sembra
l'ampia scia del sole scomparso.
Oh incerto chiarore
del lento giorno d'estate;
oh senza tumulti di fiamme
tramonto d'agosto!
Beatitudine nuova s'effonde
dalla tua calma sapida
di fervidi succhi vitali,
che fanno del sangue
un dolce rivo tepido:
alimento di sogni perenni.
D'ogni figura
che in questa luce s'intaglia,
non scorgi che un nero profilo,
e due pescatori sul bordo
di una barca che oscilla nel golfo
paion viventi polene.
Nella quiete perfetta
tutto si fonde e si placa.
Soltanto l'anima emigra
e vaneggia nell'ansia,
essa che già precorre
turbandosi, il domani.

(Da "Risacca", All'insegna della Tarasca, Genova 1933)





FINE D'AGOSTO
di Gaetano Arcangeli (1910-1970)

Dal sentiero
dove si apparta
dal mare aperto
la ritrosa campagna,
vedo al tramonto
vaghi colori
di brevi incanti terreni
sui monti violacei lontani.
Echi di clàcson
(perché mai così dolci)
si striano nell'aria
e vi affondano morbidi,
echi rispondono
dal cuore che pronto si desta
dall'arido sonno
del giorno,
e già si son tese nel cielo
gracili braccia,
bianche vene,
certo amorose
nel trasalire dell'ora.
Dall'arcaica campagna
del remoto sentiero
dov'è solo arsa verdura,
il tramonto che, appena
acceso, in cenere spegne
il fasto delle sue luci,
è un cupo fiore selvatico
che prova il ritegno
di spandere un suo
a cuto e raro profumo.

(Da "Dal vivere", Testa, Bologna 1939)





28 AGOSTO...
di Arnaldo Beccaria (?-?)

Bianco qual cigno il vaporetto doppia
il breve molo. Il velo
che agitava l'estremo tuo saluto
anche è scomparso.
E questa colma rigogliosa luce
che allacciò i nostri slanci, e li assumeva
alle dorate aree del sogno,
ora m'è vuota, estranea come quella
di un silenzioso fiordo.

(Da "Adamo", Edizioni della Cometa, Roma 1942)





LUNA D'AGOSTO
di Cesare Pavese (1908-1950)

Al di là delle gialle colline c'è il mare,
al di là delle nubi. Ma giornate tremende
di colline ondeggianti e crepitanti nel cielo
si frammettono prima del mare. Quassù c'è l'ulivo 
con la pozza d'acqua che non basta a specchiarsi,
e le stoppie, le stoppie, che non cessano mai.

E si leva la luna. Il marito è disteso
in un campo, col cranio spaccato dal sole
- una sposa non può trascinare un cadavere 
come un sacco -. Si leva la luna, che getta un po' d'ombra
sotto i rami contorti. La donna nell'ombra
leva un ghigno atterrito al faccione di sangue
che coagula e inonda ogni piega dei colli.
Non si muove il cadavere disteso nei campi
né la donna nell'ombra. Pure l'occhio di sangue
pare ammicchi a qualcuno e gli segni una strada.

Vengono brividi lunghi per le nude colline
di lontano, e la donna se li sente alle spalle,
come quando correvano il mare del grano.
Anche invadono i rami dell'ulivo sperduto
in quel mare di luna, e già l'ombra dell'albero
pare stia per contrarsi e inghiottire anche lei.

Si precipita fuori, nell'orrore lunare,
e la segue il fruscìo della brezza sui sassi
e una sagoma tenue che le morde le piante,
e la doglia nel grembo. Rientra curva nell'ombra
e si butta sui sassi e si morde la bocca.
Sotto, scura la terra si bagna di sangue.

(Da "Lavorare stanca", Einaudi, Torino 1943)





UN 30 AGOSTO
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

Si vide subito che si metteva bene:
eventi macroscopici nessuno,
il sole ad un passo da settembre
diede la prima razione
alle isole di fronte,
il mare mandò lampi di freschezza,
il caldo soltanto fra tre ore,
un immenso celeste, ancora un giorno
per l'uva e gli altri frutti di stagione,
tra i pochi rumori di paese
l'ossigeno sibilando disse
di non farcela più con quel suo cuore.
Di primo mattino la morte di mia madre.

(Da "Qualcosa di preciso", Scheiwiller, Milano 1961)





FERRAGOSTO
di Gianni Rodari (1920-1980)

Filastrocca vola e va 
dal bambino rimasto in città.
Chi va al mare ha vita serena 
e fa i castelli con la rena,
chi va ai monti fa le scalate 
e prende la doccia alle cascate… 

E chi quattrini non ne ha? 
Solo solo resta in città:
si sdrai al sole sul marciapide,
se non c’è un vigile che lo vede,
e i suoi battelli sottomarini
fanno vela nei tombini.

Quando divento Presidente
faccio un decreto a tutta la gente;
«Ordinanza numero uno:
in città non resta nessuno;
ordinanza che viene poi,
tutti al mare, paghiamo noi,
inoltre le Alpi e gli Appennini
sono donati a tutti i bambini.

Chi non rispetta il decretato
va in prigione difilato».

(Da "Filastrocche in cielo e in terra", Einaudi, Torino 1961)





LA STRADA FUORI PORTA
di Lucio Piccolo (1901-1969)

La strada fuori porta,
e ogni anno agosto
alza fanali d'afa, e accende
la festa sui portali della chiesa
in archi, in pali, le luminarie gialle,
verdi, blu, agita nacchere, trombette
di cartone, dondola barconi
di rosse frutta ferite... poi cadono
dai balconi fiori di carta, l'ultimo
palco rimbomba al martello
che lo disfà a tratti,
già sono le foglie inquiete;
ogni anno fa ritorno
la festa, e la stagione tarda
in zone di svanito rosa,
ai margini del giorno
ferma siepi di bruno viola.
Ma nella chiesa, se scendo
tre gradini, sopra lastre di tombe
dove non giunge l'esitare dei ceri
ognuna ne l'informe
papavero confitta,
vedo l'anime in fuoco:
distorti volti, braccia
levate verso nuvole e colombe...
                                 nel profondo
del tempo e dei tramonti
lo sguardo si fermò sul fuoco
estremo, poi altrove si volse;
ma dove andava, brune
macchie, seguivano le vespertine
figure di brace e d'angoscia...

(Da "Plumelia", All'insegna del pesce d'oro, Milano 1967)





AGOSTO SFONDA L'ORIZZONTE
di Nico Orengo (1944-2009)

Agosto sfonda l'orizzonte.
E fa male guardare il volo
indeciso del rondone:
lo riporta in terra l'odore
bianco del fico, una rete che
imbriglia la sua sete di andare
là, dove il mare si appresta a curvare.

(Da "Cartoline di mare", Einaudi, Torino 1984)





SERA D'AGOSTO
di Giuseppe Raimondi (1898-1985)

Erano queste le ore.
Nessuno parlava. Ero
uscito per camminare
nel cortiletto. Rientravo
nella stanza. Mi riempiva
il tuo respiro. Non
udivo altro suono.
Si contavano i minuti.
Qualcuno disse: Sono
le nove. Poi il silenzio
di ogni cosa. Rimase
il mio gelsomino
nelle tue mani.

(Da "Poesie", Scheiwiller, Milano 1999)