lunedì 20 gennaio 2014

La neve in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

La caduta della neve può essere un evento usuale o eccezionale a seconda dei luoghi dove si verifichi questo fenomeno atmosferico che è tipicamente invernale; anche se, non di rado, può avvenire nelle stagioni che precedono o seguono l'inverno. Comunque sia, è certo che dopo una intensa nevicata il paesaggio cambia drasticamente aspetto: il bianco copre ogni cosa e domina su tutti gli altri colori. Per tale motivo, visivamente, la neve rappresenta una sorpresa e spinge un po' tutti ad osservare con più attenzione i luoghi che ha ricoperto. La maggior parte delle poesie qui sotto riportate vogliono descrivere lo stupore che tale visione suscita in chi osserva l'avvenimento. Ma ci sono anche poesie che vogliono esprimere un intenso dolore (quasi che la neve e il freddo ne siano i simboli) nato da fatti drammatici o da perdite affettive importanti. C'è infine, in alcuni versi, anche qualche accenno al sociale (si legga la poesia di Di Ruscio) e, immancabilmente, all'amore.



NEVE
di Giosuè Borsi (1888-1915)

Nel mattino d'inverno, che dirada
con luce scialba le notturne bende,
il suo candore immacolato stende
la coltre della neve in su la strada.

Il freddo punge, e volto e mani agghiada
al viator che va per sue faccende
e risonare il lastrico s'intende
per ogni goccia che dai tetti cada.

Ecco: si desta la città, si desta
la piccioletta opra e il lavoro umano,
lavoro di catelli irti e ringhiosi.

Da piedi e da veicoli calpesta,
la neve il suo candore a mano a mano
perde e s'ammucchia in cumuli fangosi.

("Versi 1905-1912", Le Monnier, Firenze 1922)





ATQUE IN PERPETUUM, FRATER...
di Giorgio Caproni (1912-1990)

Quanto inverno, quanta
neve ho attraversato, Piero,
per venirti a trovare.

Cosa mi ha accolto?

                    Il gelo
della tua morte, e tutta
tutta quella neve bianca
di febbraio - il nero
della tua fossa.

               Ho anch'io
detto le mie preghiere
di rito.

       Ma solo,
Piero, per dirti addio
e addio per sempre, io
che in te avevo il solo e vero
amico, fratello mio.

(Da "Tutte le poesie", Garzanti, milano 1993)





LA NEVE
di Bartolo Cattafi (1922-1979)

Saltano intoppi calcoli barriere
s'aprono un varco:
limpidi lunghi filati snodati
ora è acqua nel fiume
la neve di ieri.

(Da "Ultime", Idola Novecento, Palermo 2000)





NEVICA...
di Francesco Chiesa (1871-1973)

Nevica... La melanconia rilascia
sul regio ostello i suoi crini canuti;
né più le torri ostentano gl'irsuti
gesti: si stanno pallidi d'ambascia.

Lieto il cielo che torbido si sfascia,
sotto il peso che frange i guizzi acuti
dei cipressi e i rosai piega lanuti
di vecchiezza, ogni volontà s'accascia.

Ma allor che giacea prono, il suo nerbo
raccogliendo ad un tratto, la solinga
fronda raddrizza nell'inverno acerbo.

Ergesi pronto all'immortal lusinga
della vita, come un gesto superbo
che il funereo lenzuolo respinga.

(Da "Calliope", Avanguardia, Lugano 1907)





RACCOLGONO LA NEVE
di Luigi Di Ruscio (1930-2011)

Raccolgono la neve
con le mani coperte di sangue guasto
la mettono sulla bocca
per tutti i gelati che quest'estate non hanno avuto
montano su pezzi di legno
e scivolano per tutti i sogni che non hanno fatto
e sarà giorno di festa anche per loro
fuori delle case
con le vesti bucate le scarpe sfondate
mentre la neve fascia di gelo le case
in questa vostra terra
dove dio ci ha fatto bastardi.

(Da "Non possiamo abituarci a morire", Schwarz, Milano 1953)





HANNO SPARATO A MEZZANOTTE
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Hanno sparato a mezzanotte, ho udito
il ragazzo cadere sulla neve
e la neve coprirlo senza un nome.

Guardare i morti alla città rimane
e illividire sotto il cielo. All'alba,
con la neve cadente dai frontoni,
dai fili neri, sempre più rovina
accasciata di schianto sulla madre
che carponi s'abbevera a quegli occhi
ghiacci del figlio, a quei capelli sciolti
nei fiumi azzurri della primavera.

(Da "La storia delle vittime", Mondadori, Milano 1966)





NEVE
di Guido Marta (1882-?)

Neve, neve, neve;
come lieve!
tu sei stanca, tu sei fredda, non ài voglia
più d'andare:
se ti stendi sulla soglia,
non ti levi più: mi pare
di vederti in un gran letto
dalle candide lenzuola:
tu sei fredda, tu sei sola — e sei malata.

Neve, neve, quanta pace nel tuo male!
è il tuo male
grande come il mondo:
tutto il mondo è un ospedale
(quanti letti, quante suore,
quante cose fredde e bianche!);
passa l'ombra del dolore,
senza voce.

Una strada, un'altra strada: ecco, una croce
sul tuo corpo: non più strade, non più croci,
non dolori: tutto eguale:
la città, la piana, il monte,
tutto bianco l'orizzonte,
come un mare
di serenità.

Passa un uomo; una pedata
dietro l'altra, e ti fa male;
ma tu scendi lieve e buona
tu distruggi il suo cammino, in un momento,
come quella che perdona al suo morire.
Passa il vento e ti scompiglia:
tu, serena, ricomponi il tuo languore,
un candore senza fine.

Ma se il sole viene, vai:
te ne vai senza parlare,
come certe malate che si muoiono
nell'inverno di riviera
— tra le viole di una falsa primavera, —
con le mani bianche
trasparenti di sole.

Te ne vai poco per volta:
la tua anima che fuma sotto il sole:
casolari che rigettano la vesta
di candore, quasi vecchi imbronciati
la maschera della festa;
alberi che piangono la loro
serenità perduta.
Una grande scena muta: un morire
lento: cose che stillano, strade bagnate,
campi bagnati;
resta come dei malati:
pianto solo.

Io mi penso di morire —
nei momenti di tristezza —
come tu, neve, sai morire:
un po' per volta, lasciando
un poco del mio candore
dietro ad ogni amore, un poco
di giovinezza dietro ad ogni sogno,
un po' di vita dietro ad ogni gioia
e il sole che mi farà morire
sarà la gioia che durerà di più.

(Da "La neve in giardino", Il Giornale dell'Isola, Catania 1922)





NEVE
di Rocco Scotellaro (1923-1953)

E queste nubi sono così ferme
a raggiera di viola, sovrastano
gli uomini sviati sui pendii.
Se pure danno uno spillo di sangue,
queste giornate dell’ultimo inverno
sono più larghe di cuore nella sera.
Tu puoi sentire nella notte fonda
lievitare la neve sopra i vetri
e come si cerne fina al setello,
acceca i finestrelli delle case.
Quando il cielo porta la bufera
il più vecchio si muove dalla seggiola
a spalare la cenere bianca:
- Non uscite, lo so io cosa accadde!
Non rasparono più la terra
i cavalli atterriti nel valico,
il polvischio radeva sibilando,
il trainiere portava il nostro sale,
lo trovammo con la mano di pietra
spingeva ancora le ruote affogate.

(Da "È fatto giorno", Mondadori, Milano 1954)





NEVE
di Giovanni Tecchio (1872-?)

E neve e neve e neve...
E tutto intorno imbianca:
Passa un sussurro breve,
Il fru d'un'ala stanca.

Mentre nell'aria lieve
Danza la ridda bianca,
Una tristezza greve
Scende col dì che manca.

Chi studia a un lume fioco,
Chi dorme in letto morbido,
Chi ride accanto al foco;

Va un vecchierel lontano,
Un pan cercando e querulo
Stende la scarna mano.

(Da "Canti", Monanni, Milano 1931)





LA BALLATA DELLA NEVE
di Paolo Volponi (1924-1994)

Sono scesi i passeri a branchi
dai calanchi di neve;
si sono posati tutt'insieme
sulle peste davanti a casa
come se la tua veste
tenessero per gli orli,
sfrenati nel volo
quasi per una pena del cuore.

È solo il tuo sguardo, amore,
che li tiene in vita,
o il loro stesso timore
di presto morire.

Se appena ti chiamo,
altri volano dai pagliai:
l'inverno si spalanca
nel tuo grembiule celeste,
un filo d'oro di paglia
resta a metà nell'aria.

È d'oro la tua medaglia
ogni sabato d'inverno
e bianca è la tua pelle
nel nido sopra il ginocchio.

Salendo lentamente a germinare,
la stagione mantiene
il seme del tuo pudore:
l'una e l'altro maturano insieme
e cantano in silenzio
come il vento e la neve
nel tuo piccolo paesaggio
che arriva appena a domani.

Anche i passeri al tramonto
tremando sui rami,
vivi uno per uno
e tutt'insieme come le stelle,
ti chiamano in silenzio
per arrivare a domani.


(Da "Poesie 1946-1994", Einaudi, Torino 2001)


William Degouwe de Nuncques, "Snowy landscape with barge"
(da questa pagina Web)

lunedì 13 gennaio 2014

L'inverno in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Ed ecco altre dieci poesie sull'inverno, questa volta però gli autori sono dieci poeti italiani dell'800. Come nelle precedenti anche qui risaltano versi di profonda tristezza e di sentito dolore, ma accanto ad essi si trova dell' altro: la satira di chi descrive la crudele stagione in modo irriverente e originale; la stranezza di chi invoca l'inverno perché stanco delle solite immagini di "splendidi cieli" e di "fronzute piante"; la curiosità di chi osserva una pianta che coraggiosamente fiorisce quando il freddo più è intenso; la rabbia di chi vede la povera gente che non ha né casa né alcun altro rifugio per proteggersi dal gelo e per questo muore per la strada; la fantasia di chi paragona la sua vita all'immagine di un interno nel momento in cui la luce va scemando perché avanza il tramonto invernale; la memoria di chi ricorda un curioso momento famigliare in un inverno lontano nel tempo; la solitudine di chi si ritrova a camminare sui colli Berici e si consola del canto di un uccellino: unica compagnia rimastagli durante la stagione inclemente.




DIARIO
di Vittoria Aganoor (1855-1910)

Piove. Certo laggiù, povero morto, 
è freddo e buio, ma più freddo e buio 
è qui, qui sulla terra, ove le foglie 
son tutte gialle, e van col vento, e cadono, 
cadono, e il cielo copre una gramaglia 
fredda. È quassù l'algore, in questo immenso 
deserto, dove sola una smarrita 
anima va, senza più meta, incontro 
a un'infinita tenebra, sbattuta 
dalla tempesta che non posa, in questo 
inverno di dolore.

(Da "Leggenda eterna", Treves, milano 1900)





IMPRESSIONE
di Evelina Cattermole (nome d'arte: Contessa Lara, 1849-1896)

Nella sala da pranzo ampia e fiorita 
d'antichi arazzi, il sol s'indugia un poco 
in una lista d'oro scolorita, 
mentre scoppietta nel camin il fuoco. 
È un tramonto d'inverno. Ecco la vita. 
Ecco quale vorrei che a poco a poco 
mi fuggisse dagli occhi, scolorita; 
mentre in una quiete ampia e fiorita 
gli ultimi sprazzi ancòr mandasse il fuoco. 

(Da "Nuovi versi", Galli, Milano 1897)





SCUOLA MODERNA
di Antonio Ghislanzoni (1824-1893)

- Al diavolo l'estetica, 
La logica, il buon senso, 
E l'idëal melenso! 
Poichè l'arte pöetica 
Dai vecchi impacci è sciolta, 
Farò il comodo mio.... 
E spero questa volta 
Coi famosi del secolo 
Salire agli astri anch'io. 

- Il verno io canto, il verno, 
La stagione crudele - 
Stanotte il Padre Eterno 
In cima alla montagna 
Ha fatto il lattemiele.... 
E gli Aquiloni batton la campagna. 

- Al piè del Resegone 
Ve'! come il lago fuma 
Immoto, senza schiuma!... 
Visto dal mio balcone 
Il gelido cratère 
Sembra la catinella d'un barbiere 
A cui mancò il sapone. 

- Dalle nuvole rotte 
Il sole ad intervalli 
In berretta da notte 
Mette fuori la faccia stralunata, 
Sbadigliando di noja - 
E frattanto, di neve disgelata 
Sgocciola la tettoia, 
Come il nasuccio d'uno scolaretto 
Che smarrì il fazzoletto. 

- Al margine del fosso 
Sulla morta natura 
Squittisce un pettirosso, 
Coll'aria d'un becchino, 
Che d'una vergin sulla sepoltura 
Legga ghignando un romanzo di Dròz, 
O si sfiati a trillar sull'ottavino 
Un tema di Berliòz. 

- Se scendo all'orticello, 
Cui bieco irride il sole, 
Le assiderate aiuole 
Mi chieggono un mantello.... 
Gli alberi incappucciati 
Come convalescenti 
Ringhiano da dannati: 
Dio! che dolor di denti! 

- Pur, dai gracili steli 
Una pallida rosa piccioletta 
In bianca parrucchetta 
Sfida il rigor dei geli; 
Tanto bella e gentil, che la diresti 
Ai languidi colori, ai tratti mesti, 
La crèola di Balzac, 
Una smilza figura 
Di Dorè, di Kaulbach, 
Una giovin marchesa in miniatura. 
Se non temessi offenderti, 
Piccola Pompadour
Vorrei offrirti un cigaro Cavour! 

- Là, sulla opposta riva, 
Poderosa, anelante, 
Una locomotiva 
Fra i gioghi si allontana, 
Come un tetro elefante 
Che sbuffi il fumo d'un superbo avana. 
E dietro a quella sfilano schierati 
Dieci vagoni in sembianza di abati 
Che vanno al Giubileo 
Grugnendo il Laus Deo

- Sull'ultimo vagone 
Gaia e modesta ascendi, 
O mia nuova Canzone; 
E nella letteraria sinagoga 
Se mai, per caso, apprendi 
Che oggigiorno hanno voga 
Dei carmi così fatti, 
Raccomanda a chi studia pöesia 
Di andare a scuola all'ospedal dei matti.

(Da "Libro proibito", Tipografia Editrice Lombarda, Milano 1878)





INVERNO
di Domenico Gnoli (1838-1915)

Ricordi i campi tepidi, lucidi?
Or su pel monte scote le roveri
cacciando innanzi l'atre nubi
soffio di borea lungo, greve.

Or dove i lieti giorni che corsero
sì brevi? Dove sotto la pergola
la mensa e i gai colloqui e i versi
facili, liberi e i motti e i canti?

La grinza vecchia scote la candida
sua testa, e i grossi ceppi che bruciano
attizza lenta sul camino,
narra le favole e i prischi tempi.

Ed io cavando fuor da la cenere
castagne dolci, l'aureo calice
vuotando, te richiamo e i versi
facili, liberi e i motti e i canti.

(Da "Odi tiberine", Loescher, Torino 1879)





ERA D'INVERNO...
di Olindo Guerrini (1845-1916)

Era d’inverno, tardi, e sedevamo 
Accanto al fuoco, soli, imbarazzati, 
E, parlando del tempo, arrossivamo 
Come due collegiali innamorati. 

Ella chinava gli occhi al suo ricamo, 
Verso il soffitto io li tenea levati; 
Non si direbbe, eppur ci vedevamo 
Meglio che se ci fossimo guardati. 

Ed io pensava - Sol per un sorriso 
Ti darei dell’ingegno i fior più belli 
E il sangue giovanil delle mie vene... - 

Quand’ella si levò pallida in viso, 
Mi cacciò le due man dentro ai capelli 
E - senti - rantolò - ti voglio bene! - 

(Da "Postuma", Zanichelli, Bologna 1889)





SOSPIRI ALL'INVERNO 
di Emilio Praga (1839-1875)

Stanco son io di splendidi 
cieli e fronzute piante; 
mi annoia lo spettacolo 
di una beltà costante; 
venga il dicembre, ed operi 
un cambiamento a vista: 
un grazie al macchinista 
dal petto esalerò. 

Venga il gennaio, il placido 
mese di pioggie e nevi, 
venga, ed io chiuda il guscio: 
oh giorni inerti e brevi, 
vetri appannati, e amabili 
grilli del focolare! 
Voglio l'uscio inchiodare, 
cantar l'inverno io vo'! 

Come cadenze tremule 
di cori in lontananza, 
belle, ridenti, tiepide, 
nella tranquilla stanza 
tornano le memorie 
del luglio e dell'aprile, 
a colorir lo stile 
del pallido pittor. 

E accosciata in un angolo 
al muro crepitante, 
sospirosa e pettegola 
come una vecchia amante, 
la stufa mi consiglia 
a non varcar la soglia, 
e alle dolcezze invoglia 
del solingo lavor. 

Quando la nebbia intorbida 
l'ampia campagna rasa, 
è pur dolce l'immagine 
delle donne di casa: 
le muse son, son gli angeli 
del domestico cielo 
cui della pioggia il velo 
imperla la beltà! 

Le gonne allor bisbigliano 
come selvette in maggio, 
e se il capo ti aggravano 
nuvole di passaggio, 
ascolta... erra uno strascico 
nella vicina stanza? 
Ascolta; e la speranza, 
la fede tornerà. 

Venga il febbraio: ho un piccolo 
vaso di sempre-vivi 
che i vezzi non invidiano 
dei fiorellini estivi; 
ho un uccellino in gabbia, 
un canerin gentile... 
febbraio, marzo, aprile... 
ecco l'estate ancor! 

L'estate ancor!...Fantastico 
mio cor di pellegrino, 
né avran cessato i cantici 
il bardo e il canerino: 
giacché siam quattro in gabbia, 
ed all'amor si beve, 
il mandorlo è una neve, 
la stalattite è un fior! 

(Da "Penombre", Casa Editrice degli Autori-Editori, Milano 1884)





UNA SERATA D'INVERNO 
di Giovanni Prati (1814-1884)

Dovunque io mova sospirando gli occhi, 
spopolata è la terra e l'aer greve. 
Stridemi il passo infido. E a larghi fiocchi 
                          casca la neve. 

Quanta bellezza sotto lei si perde 
di musiche, di raggi e di colori! 
Ahi! come langue sulla terra il verde, 
                          languono i cuori. 

Fuggito è dalle labbra il dolce riso; 
si volgon l'ore desolate e corte; 
pallido e senza lume è il paradiso, 
                          come la morte. 

Io, qui raccolto in solitaria cella, 
al crepitar di quattro tizzi ardenti, 
io penso i giorni dell'età più bella 
                          gioiti e spenti. 

E dalla ricordante anima oppressa 
sale il pianto negli occhi a poco a poco, 
sin che tutto è silenzio, e anch'egli cessa 
                          d'ardere, il foco. 

Oh! torni a noi la primavera e il sole, 
la stagion dei sorrisi e della gioia: 
coronati di rose e di viole 
                          almen si muoia. 

(Da "Poesie varie", Laterza, Bari 1916)





ROSE D'INVERNO
di Mario Rapisardi (1844-1912)

Tu, caro cespo, or ch'ogni ramo intorno
      Vedovo stride al nembo,
      E, come in pio soggiorno,
S'asconde il seme della terra in grembo,

Tu, non già sordo all'invernal tormento,
      Ma generoso e pago,
      Gitti al nemico vento
La fragranza de' fiori, onde sei vago.

Non dissimile io son: contro al cor mio
      Scocca l'odio gli strali
      Avvelenati, ed io
Lieto di mia virtù rido a' miei mali.

E in ogni piaga mia rosseggia un fiore;
      E per ogni saetta
      Fiorisce un verso. O amore.
È questa, e tu te 'l sai, la mia vendetta.

(Da "Le Poesie Religiose", Giannotta, Catania 1895)





NOTTE D'INVERNO
di Alessandro Seveso (?-?)

Girava come pazza,
scrutando dietro i vetri dei caffè,
e pensava: - perché là si gavazza
e di fuori si muore, perché, perché?

E pensava: - de' pranzi,
delle forbite loro imbandizion
a disfamarmi basterian gli avanzi...
È triste il verno, è fredda la stagion.

Tentò l'ultima speme,
pregò i passanti in nome del Signor...
le fecero proposte infami, oscene:
davan pranzi, chiedendo baci e amor.

Nella profonda notte
le membra pel gran gelo intirizzir,
e i lunghi spettri della fame a frotte
vennero, presenziando al suo morir.

Distesa nella via
e coperta di gelido lenzuol,
colla bocca che rigida s'apria
fu trovata al risorgere del sol.

(Dalla rivista «Giustizia», gennaio 1893)





UN MATTINO D'INVERNO SUI COLLI BERICI
di Giacomo Zanella (1820-1888)

Vittorïoso il sol spezza le nebbie,
Che, sgominate, in lieve
Falange si dileguano
Dietro le selve ancor vacue di neve;
E paiono velate monacelle
Che in lenta fila tornino alle celle.

Laggiù nella pianura escon, dal candido
Mar, palagi e tuguri;
Ritti, come fantasime,
Giganteggian dell'alpe i coni oscuri
In lontananza; e luccica, ad imago
D'argentea benda, appiè de' boschi, il lago.

Tutti gli augelli o valicâr l'oceano
O, nelle grotte occulti,
Il grigio ciel sogguardano;
Tu sol, crollando la brina, a' virgulti,
Saltelli, o re delle siepi piccino,
E conforti di canto il mio cammino.

Picciolo alato, alla natura in lagrime
Fedel solo rimasto!
Cosí le spalle volgere
Suole sovente alla sventura il fasto;
E nel tetto dei ricchi, or senza pane,
Ultimo amico il povero rimane.

(Da "Liriche", Vallardi, Milano 1934)

domenica 12 gennaio 2014

L'inverno in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Ecco dieci poesie italiane del secolo appena trascorso che parlano della stagione più fredda: l'inverno. Ci sono poeti che scrivono versi tristi perché vedono, con l'arrivo dell'inverno, la fine definitiva di ogni cosa bella e altri che sentono, a causa della stagione, crescere dentro di loro una inconsolabile amarezza. Ci sono poeti che, usufruendo delle atmosfere tipicamente invernali, sognano e fanno riaffiorare dolci ricordi lontani; altri ancora, in giornate in cui il freddo ed il maltempo si attenuano, parlano di visioni ultraterrene indimenticabili. C'è infine chi invita all'ottimismo pensando che il freddo e il gelo sono in breve tempo destinati a finire e che presto tornerà la primavera.



METEORA CONTEMPLATA DA UNA SCUOLA CAMPESTRE
di Fernando Bandini (1931-2013)

È questa l'ora
che una fredda meteora picchia agli usci
di remoti casali dichiarando il suo nome
in una lingua sconosciuta,
l'ora che la galassia
scende dai cieli e nell'aria si muta
in polverìo di neve.

Che la grande finestra dell'aula volta a nord
verso il bosco e la landa
con un piccolo tremito riceve
l'urto del vento. Fuori
c'è un rintocco remoto di campana,
c'è il fumo dei camini
che per un poco sale
diritto, poi si sbanda;

c'è un merlo sopra un ramo che trasecola
nel bianco tempo astrale:
lo guardano dai vetri i miei bambini
aprendosi una specola
tra i rabeschi del ghiaccio col calore
del fiato.

È l'ora che l'Europa si dimentica
dei suoi giorni di sole. La bufera
ha sepolto le basi della Nato
e più non fa rumore il passo degli eserciti
sulle strade del secolo innevato.

(Da "Meridiano di Greenwich", Garzanti, Milano 1998)





INVERNO
di Attilio Bertolucci (1911-2000)

Inverno, gracili sogni
sfioriscono sugli origlieri,
giardini lontani fra nebbie
nella pianura che sfuma
in mezzo alle luci dell'alba.
Voci come in un ricordo
d'infanzia, prigioniere del gelo,
s'allontanano verso la campagna:
ninfe dagli occhi dolci e chiari
fra gli alberi spogli, sotto il cielo grigio,
cacciatori che attraversano un ruscello,
mentre uno stormo d'uccelli s'alza in volo.
       
Là in fondo quella casa
che ospitale appare
coperta di bianco,
in un silenzio da fiaba.
E attraverso i vetri
si vede la fiamma rossa
nel caminetto vacillare.

I treni arrivano,
è domenica, è Natale?
Più non scende lieve
sulla terra la neve.

(Da "Poesie", Garzanti, Milano 1990)





UN DOLCE POMERIGGIO D'INVERNO
di Carlo Betocchi (1899-1986)

Un dolce pomeriggio d'inverno, dolce
perché la luna non era più che una cosa
immutabile, non alba né tramonto,
i miei pensieri svanirono come molte
farfalle, nei giardini pieni di rose
che vivono di là, fuori del mondo.

Come povere farfalle, come quelle 
semplici di primavera che sugli orti
volano innumerevoli gialle e bianche,
ecco se ne andavan via leggiere e belle,
ecco inseguivano i miei occhi assorti,
sempre più in alto volavano mai stanche.

Tutte le forme diventavan farfalle
intanto, non c'era piu una cosa ferma
intorno a me, una tremolante luce
d'un altro mondo invadeva quella valle
dove io fuggivo, e con la sua voce eterna
cantava l'angelo che a Te mi conduce.

(Da "Tutte le poesie", Mondadori, Milano 1984)





ECLISSE
di Libero De Libero (1906-1981)

L'inverno ha gelato la luna,
quella che dava agli ulivi
calore nel lungo settembre.
Erano puerili nel sonno
i cavalli all'albero amici
per la notte campestre.
Allora segreti al fiume
ci teneva silenzio di foglie:
esuli i nostri volti
dall'ordine celeste,
a nuova luce assorti.
Sui ciottoli morti
insieme l'affanno pativamo
dell'acqua, cresciuto. Quando,
al fischio del pastore sospetto
nella tana entrò la luna
e l'ombra a noi fu prato,
d'altro deserto m'era l'avviso.

(Da "Solstizio", Novissima, Roma 1934)





INVERNALE
di Oreste Ferrari (1890-1962)

Perché dobbiamo essere tristi?
Tutto non è perduto ancora!
Nella memoria ancor s'infiora
la stagion verde che ci ha visti

lieti nei prati che oggi sono
niveo sopore e indifferenza,
mentre dovunque la pazienza
dell'inverno è l'unico dono.

Sotto la neve il buio attende
il segno magico dell'anno.
Verrà il giorno! Rifioriranno
le più ineffabili leggende.

Sarà la nuvola rosata
del pesco apparso in cima al clivo,
il grido tenero e giulivo
della rondine alla nidiata.

Sarà il miracolo che fa
sorger dai bruchi le farfalle,
l'arcobaleno sulla valle,
o un viso: e la felicità.

(Da "Poesie", Tallone, Parigi 1956)





CANTO D'INVERNO
di Adriano Grande (1897-1972)

Canto d'inverno, terrore solenne,
scialbore immane che uccidi, è fuggita
ogni gioia serena della vita.
L'aria di nebbia è satura, gremita
di voci in pianto; e il vento le create
forme distrugge. Svanì quel che venne
ad illustrare i cieli dell'Estate...
Come lontana sei tu, Primavera!
Anche il ricordo ne ha perduto il cuore.
Ed esiliata in questo freddo orrore
l'anima aspetta, senza rifiatare,
non sa che cosa: se la morte o il sole.

(Da "La tomba verde", Buratti, Torino 1930)





INVERNO RINSECCHITO
di Leo Paolazzi (nome d'arte: Antonio Porta, 1935-1989)

Inverno rinsecchito
sotto sparse gelide nevi,
tra i cipressi e le case segnate dagli anni,
aggrappate a colline pietrose,
inverno del mio primo bacio,
con poche parole in accenno,
taciturno come i tuoi alberi senza fronde
e il volo breve timoroso del passero.

Stagione assorta
dove parlavo del vento
e le carezze di lei
intimorite, con le mani fredde,
con il cielo limpido
chiaro sopra di noi.

(Da "Calendario", Schwarz, Milano 1956)





A PUGNI CHIUSI
di Roberto Roversi (1923-2012)

Sento la stagione
cadere nei vicoli, annerire
con le bucce d’arancio;
stride adagio come un gatto ferito.
Non fui mai tanto solo
nella sera di un grigio, freddo inverno:
ascolta i battiti del mio cuore,
le mie segrete voci
(arrossisco a nominarle).

So che ad altri
la fortuna docile ha riso;
a volo, in un prato, con ali
gialle, l’afferrarono,
solitaria farfalla
inebriata di sole.
Sul mio libro non ho
che poche cifre e scarso guadagno,
né gazzetta che lecchi
con una grossa lingua di vitello
il mio volto in fiore.
Sgrondano bianche foglie sulla strada;
io mi torco e contrasto
mentre penso agli anni che non tornano.
Quand’ero giovane e forte
non m’accorgevo
che l’inverno era sui tetti.

(Da "La raccolta del fieno", Einaudi, Torino 1960)





INVERNO A LUINO
di Vittorio Sereni (1913-1983)

Ti distendi e respiri nei colori.
Nel golfo irrequieto,
nei cumuli di carbone irti al sole
sfavilla e s'abbandona
l'estremità del borgo.
Colgo il tuo cuore
se nell'alto silenzio mi commuove
un bisbiglio di gente per le strade.
Morto in tramonti nebbiosi d'altri cieli
sopravvivo alle tue sere celesti,
ai radi battelli del tardi
di luminarie fioriti.
Quando pieghi al sonno
e dài suoni di zoccoli e canzoni
e m'attardo smarrito ai tuoi bivi
m'accendi nel buio d'una piazza
una luce di calma, una vetrina.

Fuggirò quando il vento
investirà le tue rive;
sa la gente del porto quant'è vana
la difesa dei limpidi giorni.

Di notte il paese è frugato dai fari,
lo borda un'insonnia di fuochi
vaganti nella campagna,
un fioco tumulto di lontane
locomotive verso la frontiera.

(Da "Tutte le poesie", Garzanti, Milano 1986)





OGGI COL GIORNO
di Walter Valeri (1949)

Oggi col giorno è in cielo
il tanfo terso di un sole che va
cupo l'inverno così feroce e bianco
quasi volasse d'una luce mai usata

e così chiuso nei suoi vapori intensi
che pare un corpo sordo come zinco
e spinge il cielo e gli occhi già finiti
e stanchi nel buio di navata - giù!,

dov'è l'occhiata tristemente tinta
del nero interno che doloroso Goya
vomitò cantando!

(Da "Canzone dell'amante infelice", Guanda, Milano 1980)

giovedì 2 gennaio 2014

L'Epifania in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Nelle seguenti poesie si parla di Epifania, ovvero della festa che cade il 6 di gennaio e che celebra l'arrivo dei leggendari Re Magi nel luogo ove nacque Gesù e dove i Re recarono in dono al bambinello oro, incenso e mirra. Ma l'Epifania si festeggia anche per un altro motivo: l'arrivo nelle case dove abitano dei bambini della cosiddetta Befana: una vecchia brutta e malvestita che viene da paesi lontani viaggiando sopra una magica scopa volante e ogni anno, nelle prime ore notturne del sesto giorno di gennaio, ha l'abitudine di visitare le dimore dei più piccini e di lasciargli in dono qualcosa (giocattoli, dolci o cose simili). I versi qui presenti sono, per la maggior parte, dedicati a questo favolistico personaggio che, specie nella città di Roma, vanta ancora molti ammiratori.



ALLA BEFANA
di Sandro Baganzani (1889-1950)

Befana sicuro con lo scialle di lana
e la cuffia
a cavallo di un raggio di luna
arrivi dalla Mecca
arrivi forse da più distante,
dal paese dove le piante
sono cariche sempre di verzura
dentro i giocondi orti,
per portare i tuoi doni
ai fanciulli più buoni.
A me, cosa mi porti?
Giocattoli strani, dorate delizie,
datteri, dolci è il tuo carico.
Per i camini versi
le ceste ricolme,
ricolmi le calze
sospese sul davanzale.
Hai le ale per volare dove vuoi.
Ma se puoi
fammi ancora camminare
in letizia tranquilla
lungo le campestri vie,
ch'io mi commuova, se squilla
un richiamo di avemarie:
ch'io pieghi i ginocchi davanti
il dolcissimo riso
di Colei che non mente.
Ch'io ami le viole selvatiche
la tristezza dei tramonti,
l'odore paesano
delle corti sui miei monti.
E così,
fortemente amando
invecchiare fammi,
ma accanto ch'io senta
all'unisono il cuore palpitare
di colei che è eternamente giovine.

Befana,
che arrivi dalla Mecca
arrivi forse da più distante,
sai bene come si chiama
la mia «Non conosciuta amante»!

(Da "Senzanome", Mondadori, Milano 1924)




RACCONTINO PER IL 5 GENNAIO
di Gherardo Del Colle (1920-1978)

A sera, terminate le preghiere
della vigilia dell'Epifania,
il nonno favoleggia al nipotino
persuadendolo al sonno: "Se profondo
sarà il tuo sonno fino a domattina,
anche qui - anche qui
alla nostra casina -
sosteranno nel cuore della notte
i tre Magi d'Oriente che ogni anno
di questi dì
si mettono in cammino per il mondo
ricercando Gesù....".
Il nipotino
non piagnucola più. Dorme. E già sogna
i tre Magi d'Oriente sopra enormi
cammelli; e un agitarsi di mantelli
e di vessilli e di cimieri: frotte
di cavalieri ed uno stuolo immenso
di servitù con mobili ed anella
tempestate di gemme; ed una stella
che riluce lassù: la bella stella
che riporta a Betlemme
i buoni Magi e i loro buoni doni 
d'oro
e di mirra e d'incenso per Gesù...
E continua a dormire il nipotino,
e continua a sognare. Ed il nonnino
ricolma via via
di lucenti regali
le scarpettine esposte ai davanzali
nella vigilia dell'Epifania.

(Da "Il fresco presagio. Poesie 1937-77", De Ferrari, Genova 2008)




EPIFANIA
di Mario Luzi (1914-2005)

Notte, la notte d’ansia e di vertigine 
quando nel vento a fiotti interstellare, 
acre, il tempo finito sgrana i germi 
del nuovo, dell’intatto, e a te che vai 
persona semiviva tra due gorghi 
tra passato e avvenire giunge al cuore 
la freccia dell’anno... e all’improvviso 
la fiamma della vita vacilla nella mente. 
Chi spinge muli su per la montagna 
tra le schegge di pietra e le cataste 
si turba per un fremito che sente 
ch’è un fremito di morte e di speranza.

In una notte come questa, 
in una notte come questa l’anima, 
mia compagna fedele inavvertita 
nelle ore medie 
nei giorni interni grigi delle annate, 
levatasi fiutò la notte tumida 
di semi che morivano, di grani 
che scoppiavano, ravvisò stupita 
i fuochi in lontananza dei bivacchi 
più vividi che astri. Disse: è l’ora. 
Ci mettemmo in cammino a passo rapido, 
per via ci unimmo a gente strana.

                                  Ed ecco 
Il convoglio sulle dune dei Magi 
muovere al passo dei cammelli verso 
la Cuna. Ci fu ressa di fiaccole, di voci. 
Vidi gli ultimi d’una retroguardia frettolosa. 
E tutto passò via tra molto popolo 
e gran polvere. Gran polvere. 

Chi andò, chi recò doni 
o riposa o se vigila non teme 
questo vento di mutazione: 
tende le mani ferme sulla fiamma, 
sorride dal sicuro 
d’una razza di longevi. 

Non più tardi di ieri, ancora oggi.

(da “Onore del vero”, 1957)




PASTORALE D'EPIFANIA
di Marino Moretti (1885-1979)

Ascolta, finalmente, anima mia,
in una sera azzurra d'ombra, folta
d'astri, vibrante di ricordi, ascolta
la pastorale dell'Epifania.

La melodia che in te, desta, s'ostina.
La melodia che in te, sopita, sogna.
È voce di zampogna
di fede montanina.

E tu chiudi le tue palpebre umane
ed apri gli occhi nel tuo sogno mite.
E sogni solitudini infinite
e vedi solitudini montane.

E grandi fuochi e greggi bianchi in via
e neri abeti in mezzo a tanto argento
e fonti ove s'abbevera l'armento
che va, che va verso la prateria.

Apparsa è in cielo stella di presagi
o della Profezia
che segue nella via
notturna i tre cavalli dei Re Magi.

Vestiti delle loro fogge bizzarre
giungono alla capanna per esporre
i lor doni Melchiorre,
Gaspare, Baldassarre.

Ed offre il Re di Saba al suo mostrarsi
l'oro ed il Re d'Arabia dall'immenso
mantello beduino il sacro incenso
e l'odorosa mirra il Re di Tarsi.

Or ecco la zampogna. E il cuore ingordo
respira tutta la dolcezza ignota
che passa in una nota,
o spira nell'ebbrezza di un ricordo.

Canta sommessa la zampogna e il cuore
ciò che non seppe aver forse le chiede
un conforto, una fede,
e la dolce virtù del suo pastore.

Chiede altre cose mentre il canto s'alza
e si diffonde nella sera blanda:
quante cose domanda
rinchiuse in una lor pendula calza.

Nell'aria di cristallo or voci strane
mescolate all'afrore degli agrumi:
e penduli salumi
e filze di banane...

Si tace la zampogna; uggiola un cane.
S'accendono altre stelle, e lumi lumi.
O dolce cuore, perché ti consumi
in desideri di cose lontane?

(Da "Poesie scritte col lapis", Mondadori, Milano 1970)




LA BEFANA
di Nicola Moscardelli (1894-1943)

  Una vecchia con un sacco sulle spalle ed un bastone nella mano, né si sa quale dei due sia più ricco di nodi, erra stanotte pei tetti, e penetrando per la cappa del camino nelle case dove il sonno dei bambini ingentilisce l'aria, lascia doni nelle calze appese alla cappa.
  Sul sonno degli innocenti stanotte volteggiano i desideri come farfalle sul queto specchio di un lago..
  D'ora innanzi in ogni vecchia essi ravviseranno una Befana incognita: e nella bisaccia piena di tozzi e di stracci immagineranno tesori.

(Da "Le grazie della terra", Carabba, Lanciano 1928)




CANZONE DELL'EPIFANIA
di Angiolo Silvio Novaro (1866-1938)

Pastorelli pastorelli
Che passate prati e ruscelli
Con in braccio la cornamusa
E gioia sul viso diffusa,
Dove andate così snelli?
Udiste forse qualche dolce nuova
Che il cuore vi muova?

E voi re magi dalla ricca sella
Che camminate dietro la stella
Portando un sacco di doni,
E parete così buoni
Con la barba e l'occhio mite,
Chi cercate? Dite, dite,
E i tesori a chi gli offrite?

Oh se andate a Betlemme
Con quel carico di gemme
Deh pigliatemi con voi!
Ch'io lo veda il Fanciullino
Fasciato nel pannolino
Tra l'asino e il bue suoi
Che gli fumano vicino!

Dentro l'umile capanna
Con la Vergine Maria
Sant'Elisabetta e Sant'Anna
San Giuseppe e Zaccaria
Inginocchiato io stia
Contemplando il buon Gesù
Custodito da lassù!

Mentre voi cari pastori
Soffiate negli otri sonori,
E voi serviti dai valletti mori
Aprite, re magi, i tesori,
Devotamente io l'adori;
E piegato a lui leggiero
Gli abbandoni il cuore intero!

(Da "Il Cestello", Treves, Milano 1910)




LA BEFANA
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Viene viene la Befana,
vien dai monti a notte fonda.
Come è stanca! la circonda
neve, gelo e tramontana.
    Viene viene la Befana.

Ha le mani al petto in croce,
e la neve è il suo mantello
ed il gelo il suo pannello
ed il vento la sua voce.
    Ha le mani al petto in croce.

E s’accosta piano piano
alla villa, al casolare,
a guardare, ad ascoltare
or più presso or più lontano.
    Piano piano, piano piano.

Che c’è dentro questa villa?
uno stropiccìo leggiero.
Tutto è cheto, tutto è nero.
Un lumino passa e brilla.
    Che c’è dentro questa villa?

Guarda e guarda... tre lettini
con tre bimbi a nanna, buoni.
Guarda e guarda... ai capitoni
c’è tre calze lunghe e fini.
    Oh! tre calze e tre lettini.

Il lumino brilla e scende,
e ne scricchiolan le scale;
il lumino brilla e sale,
e ne palpitan le tende.
    Chi mai sale? chi mai scende?

Co’ suoi doni mamma è scesa,
sale con il suo sorriso.
Il lumino le arde in viso
come lampada di chiesa.
    Co’ suoi doni mamma è scesa.

La Befana alla finestra
sente e vede, e s’allontana.
Passa con la tramontana,
passa per la via maestra,
    trema ogni uscio, ogni finestra.

E che c’è nel casolare?
Un sospiro lungo e fioco.
Qualche lucciola di fuoco
brilla ancor nel focolare.
    Ma che c’è nel casolare?

Guarda e guarda... tre strapunti
con tre bimbi a nanna, buoni.
Tra la cenere e i carboni
c’è tre zoccoli consunti.
    Oh! tre scarpe e tre strapunti...

E la mamma veglia e fila
sospirando e singhiozzando,
e rimira a quando a quando
oh! quei tre zoccoli in fila...
    Veglia e piange, piange e fila.

La Befana vede e sente;
fugge al monte, ch’è l’aurora.
Quella mamma piange ancora
su quei bimbi senza niente.
    La Befana vede e sente.

La Befana sta sul monte.
Ciò che vede è ciò che vide:
c’è chi piange e c’è chi ride:
essa ha nuvoli alla fronte,
    mentre sta sul bianco monte.

(Da "Poesie varie", 1912)





LA BEFANA
di Lucio Pisani (1930)

Stasera
il bambino non vuole dormire
gli han detto domani
verrà la Befana
coperta di tempo
pesante di doni
verrà a premiare
fra tutti i più buoni.
Stasera il bambino non vuole dormire
inizia un'attesa
comincia a soffrire.

(Da "A mezza altezza", Mursia, Milano 1972)




LA BEFANA DI APPENNINO
di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (1871-1919)

Quatta, quatta - la Befana
questa notte
esce fuor da le sue grotte
d'Appennino;
un cestello
un gomitolo di lana
tra le mani
e una canna con l'uncino.

Non son grotte, ove s'appiatta
lungo l'anno
la Befana;
questo è inganno d'occhi umani:
ma un ostello,
ma è un castello
giù, cavato dentro il dosso:
un palazzo,
- colonnato, -
giallo e rosso;
di topazio e di rubino.

Fuor seduta la vecchietta
l'aria scruta e l'ora aspetta.

(Van le stelle
con lor greggi
da l'argentee campanelle
per i piani,
su, del cielo,
tra cui pare che si scheggi
senza un velo,
con il dosso cenerino
l'Appennino).

- L'ora! L'ora: -
mezzanotte! scocca ancora,
e già trae fuor di sua tasca
lesta lesta,
la Befana,
l'asinello,
bigio e nero,
che vi dorme un anno intero.

E a feltrargli i pie' s'appresta
muta, astuta
col gomitol de la lana
perché in aria
non echeggi
e in strepiti vaneggi
ripetuta
la sua pesta
solitaria.

Poi appende a l'asinello
con un nastro,
d'oro fino,
un arguto campanello
che giù prende
con la canna da l'uncino
piano, piano,
allungando un po' la mano
ad un astro,
più vicino,
sporta su da l'Appennino.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

(Da "Sillabe ed Ombre", Treves, Milano 1925)





LA BEFANA
di Mario Venditti (1889-1964)

È lieta una bimba e gioconda:
stamane, allor che s'è levata
al primo saluto del gallo,
tra i molli guanciali ha trovata
nascosta una bambola bionda
vestita di rosso e di giallo.

Le dicono tutti: - Oh, il bel dono
che a te la Befana ha portato! -
Ma ella, che ha finto dormire
e vigile in vece ha ascoltato
stanotte il fuggevole suono
dei passi materni, sorride.

È lieto anche un piccolo bimbo
che, a canto al camino sospesa
la logora calza ha dormito
e ignora che solo è discesa
dei suoi sogni d'oro nel nimbo
la fata al camino annerito.

Che cosa ha trovato, che cosa
quel bimbo stamane ha trovato
al nero camino da canto?
Non so. Ma avrà certo trovato
soltanto una povera cosa
quel piccolo bimbo, soltanto.

E pure, egli è lieto... E dovrebbe
solo egli esser lieto, non tu,
o vigile bimba: non ebbe
anch'egli una bambola bionda,
è vero; ma il raggio lo inonda
d'un'illusione di più.

(Da "Il terzetto", Perrella, Napoli 1911)