martedì 21 ottobre 2014

Gli spazzini in tre poesie

Quello dello spazzino, del netturbino o operatore ecologico che dir si voglia, non è certo uno dei mestieri più ambiti dalla gente; anzi, si può ben dire che sia tra i più disprezzati, schifati e evitati dalla maggioranza dell'umanità. Eppure tutti, penso, dovrebbero essere d'accordo sul fatto che questo sia uno dei lavori più utili, poiché senza l'intervento giornaliero degli spazzini le città sarebbero sommerse dall'immondizia. Passando alla letteratura, e in particolare alla poesia, c'è stato qualche poeta che ha dedicato a questi lavoratori bistrattati alcuni versi. Ho trovato tre componimenti poetici in cui gli spazzini la fanno da protagonisti. In tutte e tre le poesie, nei confronti di essi, si nota sia una simpatia, sia un non velato apprezzamento per il compito che assolvono, insieme ad una sorta di comprensione umana, se non di pena, per l'umiltà e la sofferenza che contraddistinguono spesso questi personaggi, per nulla considerati dalla moltitudine degli umani.



LO SPAZZINO
di Siro Angeli

Prima che ti ripari
dai raggi che sul letto
rimanda la persiana,
attendi, tanto usuale
da farsi necessario
al vuoto nell'orecchio,
il passo dell'addetto
alla Nettezza Urbana,
finché tra voci nuove
di fuori si riaccampa
nel sonno delle scale
trascorrono dall'albore
che piove il lucernario.

Paziente sale (il volto
leale, con i tratti
scavati e gli occhi chiari
di quando in lui t'imbatti,
affiora dall'ascolto)
e al sesto piano inizia
la sua fatica: frana
nel sacco l'immondizia
davanti ad ogni porta,
un tonfo d'ossa rotte
rintrona fino al tetto,
e nasce dal rammarico
ch'esso non sia minore
il gesto che riporta
al suolo, cauto, il secchio.

Così di rampa in rampa
discende sotto il carico
crescente, e il passo vecchio
ma fermo oltre il portone
si perde nello schianto
strozzato che sommuove
la mole d'alluminio
in sosta col motore
acceso, mentre inghiotte
a brano a brano quanto
rimane al condominio
d'un giorno e d'una notte.

(Da "Il grillo della suburra")





SPAZZINI FIORENTINI A DICEMBRE
di Arnaldo Beccaria

Nell'ora antelucana
(ma è ancora notte fonda,
non un bar che sia aperto,
e il gelo una camicia
di forza che costringe corpo e mente),
nell'ora antelucana,
i primi ad apparire sulla scena
della città deserta
sono i vispi spazzini
con gli arguti fumetti del lor fiato.
Ruzzan fra loro, sciolti e allegri, angioli
senza ali, nelle casacche blu;
nettano con le grosse
scope le vie della città
non calpestate, e i porticati,
ne fanno alvei politi,
dove fra poco
scenderà a insudiciarli
la fiumana degli uomini,
ancora addormentati.

(Da "Sull'orlo del cratere")





LO SPAZZINO
di Gianni Rodari

Io sono quello che scopa e spazza
con lo scopino e con la ramazza:
carta straccia, vecchie latte,
bucce secche, giornali, ciabatte,
mozziconi di sigaretta,
tutto finisce nella carretta.

Scopo scopo tutto l'anno,
quando son vecchio sapete che fanno?
Senza scopa, che è che non è,
scopano via pure me.

(Da "Filastrocche in cielo e in terra") 



Vincent van Gogh, "The Dustman"
(da questa pagina web)


domenica 19 ottobre 2014

Le foglie in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Camminavo, in una giornata grigia di metà novembre, su un viale alberato di Ostia, tutto ricoperto di foglie secche. Camminavo lentamente, ed ero quasi felice di ascoltare il rumore dei miei passi su ciò che restava di quelle povere foglie. Ogni tanto, ne vedevo qualcun’altra cadere, e se osservavo i rami dei platani, mi accorgevo che le poche ancora attaccate, si reggevano a stento (erano destinate a cadere a breve). Allora, come tanti che mi hanno preceduto, ho pensato che la nostra vita somiglia assai a quella delle foglie: sia noi che loro siamo destinati a cadere – chi prima, chi dopo – e a non rialzarci mai più. Eppure, tale pensiero non mi rattristava più di tanto, poiché non ho mai ambito all’immortalità, e anzi, pur non essendo ancor vecchio, mi sento addosso la stanchezza di vivere. In fondo, anch’io vorrei essere una di queste foglie: cadere senza drammi, in un giorno grigio di novembre, e dopo la caduta dimenticare tutto il male, tutto il bene di un’esistenza inutile. 




LA FOGLIA E TU

di Siro Angeli (1913-1991)

La foglia non si sente più sola
sul ramo, ora che l'hai accolta
nel tuo sguardo. Ecco esita, vola
per la prima e per l'ultima volta.

Chiedi al filo d'aria che la porta
almeno un indugio prima che tocchi
il suolo. Non si sentirà morta
finché non l'abbandoni con gli occhi.

(Da "Il grillo della suburra", 1990)





UNA FOGLIA
di Angelo Barile (1888-1967)

Una foglia nel giovane vento
è crollata che non sussurrò
sul ramo.
Non l'addolcì
rugiada a lungo materna e scarso
un sole la vestì
di verde.

Orfana foglia
che l'aprile in un soffio sospinge
e indifesa l'avvia
alle soglie della prim'estate:
già straziate di luce, incendiate
di papaveri. Ostile
alla sua scarna pagina, un raggio
la trafigge, la spoglia
in una viva geometria di nervi.

(Da "Poesie", 1986)





A UNA FOGLIA
di Gherardo Del Colle (1920-1978)


Stamattina ti ho colta,
povera foglia, e la mia mano fu
forse un precoce autunno...
ma tu resta con me:
fuori di questa soglia
più nessuno ti ascolta - o si ricorda
di te.

Ti ho colta, a primavera,
nella serenità del mio giardino
di fanciullo poeta:
perché tu mi ripeta
nell'insonne mia sera
le giulive canzoni del mattino.

(Da "Il fresco presagio", 2008)





E QUESTE FOGLIE
di Libero De Libero (1906-1981)

E queste foglie
e questo amore,
questa sera che viene.
Dove io trascorro
fa orma il silenzio,
già sento nella notte
diffusi papaveri.
Voglia di stare
nel folto sonno
fedele, amore,
alla tua mano.

(Da "Scempio e lusinga", 1972)





COME MAI LE FOGLIE...
di Franco Fortini (1917-1994)

Come mai le foglie e le campane
le foglie che il vento muove e le campane
che il vento porta e la sonnolenza
che l’estate porta e come mai questa dolenza
e perché continuare a guardare i colori
della sera sulle montagne multicolori
le nuvole che da tutta eternità ripetono
decoro miserabile divieto
se ormai solo le foglie
chiedono a te come oscillare
nella notte senza mai variare
sine rationis lumine le gemelle foglie.

(Da "Versi scelti", 1990)





FOGLIE E FIORI
di Nicola Moscardelli (1894-1943)

Aprile chiama, settembre risponde:
son d'uno stesso lago opposte sponde
echi diversi d'una stessa voce,
sono due specchi d'uno stesso volto:
l'uno ti prende quel che ti fu tolto
quel che l'uno ti dà l'altro ti toglie:
uno di fiori e l'altro è pien di foglie.

(Da "Tutte le poesie", 2007)





STRIDONO LE FOGLIE
di Leonida Repaci (1898-1985)

Io cammino
su tappeti di foglie arrossate
dagli ultimi barbagli del sole
e non le guardo
quelle foglie secche che stridono
sotto il mio passo.

Cammino senza meta aspettando
che cosa? Nulla nulla
ma pur mi debbo convincere
di aspettare qualcosa qualcuno
perché la maggior povertà
è sapere di non aspettare nessuno
nessuna cosa.

Ma le foglie non stridon più forte?
Ora sento nettissima
una presenza che mi cammina
al fianco e mi osserva
invisibile, mi scruta spietata,
entra in me, diventa me stesso.
Ma chi sei chi sei mai
che cammini al mio lato
confondendo alla mia
la tua ombra?
Fratello o nemico
chi sei, sconosciuto, che batti
la stessa strada
sulle stesse foglie invetriate?
Oh potessi levare gli occhi dal cielo
specchiarmi in te senza fremere
sapere da te
perché mi segui così
perché dài un accento
tanto solenne alla mia melanconia?
Sei tu forse la Morte?

(Da "Poesie", 1999)





LA FOGLIA MORTA
di Umberto Saba (1883-1957)

La rossa foglia morta
che il vento porta via,
il vento e lo spazzino,

- sotto il fulgido cielo cadde, insanguina
con le altre la via -

imiterei. Per nausea
delle parole vane,
dei volti senza luce.

Ma la tua voce, o gentile, mi parla;
fa' che non cada ancora.

(Da "Tutte le poesie", 1999)





FOGLIE CADONO, VITE. C'È UN ISTANTE
di Francesco Tentori (1924-1995)

Foglie cadono, vite. C'è un istante
che chi le stacca le tiene con mano
lieve nell'aria, nella luce e vedi
come mai prima le fragili vene
per cui correva l'esistenza, il palpito
che viene meno. Affréttati, raccogli
nello sguardo fedele quanto ancora
è, prima che con le altre spoglie
anche queste si perdano.

(Da "Migrazioni", 1997)





LE FOGLIE
di Giorgio Vigolo (1894-1983)

Guardavo le macere foglie
che il vento ammulina fra i turbini
della pioggia e le macina e le stritola
fino a mutarle quasi nel suo ululo, 
nella sua marcia funebre di sibili.

Allora m'è venuto il pensiero
della morte che stacca noi pure
così dai rami dell'albero umano,
quando vecchiezza o fuoco
di febbri hanno consunto
la nostra foglia grama.
Un soffio appena più forte
il tremulo gambo recide;
e saremo così trascinati
negli abissi, mischiati
a nuvole d'altre foglie?
La morte ci scioglie
nelle grida del vento.

Eppure, chissà quale senso
di felicità originaria
ci libererà nell'immenso,
quando tutte le corde
troncate dalla morte fremeranno
all' unisono con l' accordo
maggiore dell'universo.
Forse l'estrema gioia
che invano chiedemmo alla vita,
è quella che ci folgora al momento
di morire, nel gran mutamento.

(Da "La luce ricorda", 1967)



Louis_Grube, "Study of Autumn Leaves" 
(da questa pagina web)


domenica 12 ottobre 2014

L'autunno in 20 poesie di 20 poeti italiani del XIX secolo

PENSIERI D'AUTUNNO
di Giuseppe Arnaboldi (1827-1896)

Amo le nebbie ond' è coperto il piano,
Qui nerissime e grevi e là sfumato,
Le lunghe nebbie che lontan lontano
Hanno aspetto di mura o di cascate;
Amo il lume che in voi splende sì arcano
dell'autunno pallide giornate,
Ed incoloro e senza moto il lago,
Specchio appannato dove muor l'imago.

Traverso all' acqueruggiola che scende
Lentissima, di filo e fine fine,
E che col fitto suo vel ne contende
Qual'è sfondo di monti e di colline.
Amo veder quai forme di tregende
Giganteggiar le balze più vicine;
Amo le foghe gialle e turbinanti
Ed i vigneti ove ammutirò i canti.

A tal scena sei triste, anima mia,
E nondimanco non domandi il sole.
Ah, nell'inconscia tua malinconia
Più pensieri non hai né più parole!
Eppur misera è l'anima se oblia
Come da lei l'assidua opra si vuole
Onde in sé chiusa ver' l'Idea s'innalzi,
aperta il mercator secol v'incalzi!

Malinconia figliuola è a gentilezza,
Che non conosce lei cuore villano;
Ma se ognora sé stessa ella accarezza,
Se l'un verso la circonda invano,
Dell'indico papavero è l'ebbrezza,
È la Villi del canto lituano
Che in fondo all'acque, ove sepolto giace,
Tragge chi troppo accanto a lei si piace.

Oh migriam cogli augelli! In liete schiere
Ei mi passano innanzi alle vetrate
Sorvolando con lor piume leggere
Le sodaglie ed i colti e le boscate.
E un gruppettin dall'alto aere mi fere
Di note sottilissime e serrate,
E par che ad esse di lontan risponda
D'un ragazzetto la canzon gioconda.

La fredda Alpe lasciando e l'Apennino,
Ei cercano oltre il mar cielo novello,
Le plaghe d'onde a noi spunta il mattino,
I regni della prole d'Ismaello;
E allegreran, danzando, il pellegrino
Quando sceso dal docile cammello
Adora Macometto e la sua legge
Che gli esulati volator protegge.

E un sorriso sul labbro or mi balena,
E, dentro a nube dal color di rosa,
Di Damiata m'adagia in sull'arena
La fantasia ch'è donna e capricciosa.
Già sento dalla libica catena
Della mirra spirar l'aura odorosa,
Già m'affido del Nilo ai mille giri
Fra i boschetti di palme ed i papiri!

Ma ogni sogno gli è sogno, e, se la vita
Attorno a me già quasi tutta è spenta,
Il tenace voler nella romita
Anima mia di ridestarla tenta.
Un vegliardo, un poeta, a sé m'invita
Che, fulmineo lo ingegno e l'orma lenta,
Dal mio lago ove al dì gli occhi ei schiudea,
Povero prete, alla città scendea.

Sul colle ancora il suo tugurio siede,
Ed un senso ineffabile ne spira;
Se appena poso sulla soglia il piede,
Tosto m'esulta il cor, tosto sospira.
«Oh Parini,» esso grida, «oh qual ti diede
«Genio l'arguta e formidabil lira?
«Qual sacra fiamma ti lambì le chiome,
«Nato di plebe che non sa il tuo nome?»

Sulle grandi librarsi ali dorate
Veggo del veglio allor l'ode civile.
Del veglio che le nuove e non fucate
Idee scolpì col verecondo stile,
E quante poscia l'alme rassegnate
Piansero nenie avrebbe avute a vile,
E affilò l'ironia per cui non muore
Colle sue ciprie il giovine Signore.

Ma il sole è ricomparso, e su pei monti
S'arrampica la vinta nuvolaglia
Che percossa dai crocei tramonti
Di molteplici tinte n'abbarbaglia;
Onde ne par che dalle auguste fronti
La fiamma e il fumo d'un incendio saglia,
Mentre il cielo su noi stendesi azzurro
D'una fresca del norte aura al sussurro.

Lago gentil, poetica parola,
D'oro e d'argento l'Eupili risplende
E un color di simpatica viola
Sul verde delle selve si distende; 
Poscia l'ultimo raggio al pian s'invola
E lenta l'ombra le montagne ascende
E in suon di voce lamentosa e pia
Intuonano le squille: «Ave Maria!»

«Ave Maria!» Già tace ogni lavoro,
Si chiudon limitari e davanzali,
E dall'opre del dì cercan ristoro
Gli uomini affaticati e gli animali.
Scendon gli angeli a schiere, e sogni d'oro
Depongono dei bimbi in sui guanciali;
Indi suona il rosario entro le stalle,
Prece d'afflitti in lagrimosa valle.

Strano fumo frattanto esce dai tetti
Dov'ardon torbe a preparar le cene,
E alternata a fantastici diletti
Una tristezza dentro al cor me 'n viene,
Poich'esso evoca in me squallidi aspetti
Di borusse pianure e di rutene
Ove in luogo di gelsi e di vigneti
Provan eriche solo e negri abeti.

Fra quei vari pensieri inavvertito
Il fedele mio sigaro si è spento,
Ed invan colle labbra, invan col dito,
Di richiamarlo vivo io m'argomento.
Ma poi che il picciol astro è disparito
Io sollevo gli sguardi al firmamento;
E mi veggo sul capo arder Boote
E stelle e stelle oltre ogni dir remote.

Oh di Laplace ipotesi stupenda
Che plasmasti d'ardente etere il cielo!
Quando sarà che tutto alla tremenda
Dilacerar si possa Iside il velo?
Ah ovunque, ovunque il mio pensier si stenda,
Arcano al core si raccoglie un gelo...
Ma la via per cui movo è sterpi e sassi,
E gli è buio che tinge... Occhio a' ma' passi!

(Da "Versi", 1872)





AUTUNNO E AMORE
di Bruna (Laura Clementina Maiocchi)

Giunto è novembre; dal cielo plumbeo
cade la pioggia, lenta, monotona;
la brezza il fior distrugge,
la rondinella fugge.

A noi che importa? se i fiori sbocciano
nel maggio eterno delle nostre anime?
se il vivo sol d'amore
le inonda di splendore?

(Da "Petali e lagrime", 1894)





AUTUNNALE
di Giovanni Camerana (1845-1905)

Io son l’albero strano, che protende
Sotto le fredde nubi accavallate
I biechi rami; e fra le interminate
Solitudini, e per le steppe orrende

L’albero maledetto io son, che attende
Giù dalle torve nubi accavallate
La folgore fatale, onde troncate
Vi sperda Iddio, presàghe ansie tremende,

Infinite stanchezze, ore più affrante
Ore più tristi che un calar di feretro
Dentro la sepolcral fossa beante;

A me il vento di morte!... A me i tramonti
Del funereo novembre; io son lo scheletro
Spaventator dei lùgubri orizzonti.

(Da "Poesie", 1968)





NOTTE D'AUTUNNO
di Tommaso Cannizzaro (1838-1912)

Tacito, inerte e dentro ascose al seno
Le palme irrigidite
Da la brezza marina,
Allor ch'alta è la notte ai bruni ferri
Di quel veron sovente il fianco io poggio.
E la notturna brina
Silentemente cade, e la natura
Ne l'ombra oscura un ferreo sonno dorme.
Sol la profonda ascolti
Cupa voce de l'onda
Risonar per l'azzurro aer sereno,
Ne per le sparte case o a' verdi colti
Rumor di passi alcuno,
O soffio alcun di vento
Per entro ai folti arbori.
Io le pupille , ignude
Sì tosto, ohimè, dei più gentili amori,
Al mio "zenitte" appunto, e tu dal cielo
Sette raggi di luce a me tu piovi
O grand'Orsa cui sempre, or mi ricorda,
Ne la mia lunga via
Di sospiri e d'affanni,
Per le notti serene
Ancor fanciullo a contemplar venìa.
Tu vivi ognor! Ma che più a me rimane
Altro che il pianto e il lamentar de gli anni?

Quai sovrumani , orrendi
Martìri a me dischiude
Ciascun'ora che avanza!.. e nulla intanto
Esprimer sa, ne puote
L'onda affannosa del dolor che m'ange!
Niun labbro, niun accento
Aita i dolorosi:
E per mesto concento
Occhio mortai non piange;
Ahi! forse irride il vulgo, irride ancora
A queste voci, e già non sa ne crede
L'alto gemer de l'alma. — Altri, seggendo
A riguardar la vaga
Stella polare, o il sommo
Pianeta eccelso a cui per quattro lune
Piove a notte la luce, e lunge il fioco
Scintillar di Saturno,
A se va discoprendo
Nuovi e più lieti mondi ond'ei felice
Nulla curando il vero
Che a lui non morde il seno
Vive di dolci sogni in suo pensiero.

Ma se dal sommo là dei bruzii monti
Lenta emerge la luna
E i bianchi rai rifrange infra le nubi,
Se tondeggiante e bella
Andar la veggo e tremolar nel cielo,
Quanti pensieri aduna
La mente mia! talora in simil guisa
A lei mi volgo: o tu, cui tanto abbella
Nostro pensier, di questa atra dimora
Forse men vii non sei: —
E qui sommessamente il cor dolora
In pensar che da lunge il tutto scende
Gradito e ne innamora!
Così parrà gentile
Ai figli tuoi questa meschina sede
Se lei riguarderanno
Qual noi già te, d'ogni altro ignari e in forse,
Quando pel ciel si tragge e il sol la fiede.
E torno poscia sconsolato a quello
Vagar sublime e puro
De l'alma in sé ristretta; a quella dolce
Idealtà natia
Da cui disvelto, io giaccio
Come in orrendo esislio
Quasi presso a morir di nostalgìa!
Ogni amor mi fu tolto! ahi, non un viso
Sorride al mio sorriso;
E perché dunque io più non son quell'io?
Ciascun legame è infranto:
Fino i più cari a me dièrmi un addio!

Ma se tu vivi, o cara,
Se qui ancor tu rimani al petto mio,
Oh, non d'affetti avara
Fia la terra ch'io premo! a un sol tuo sguardo
Mi si dilegua alle pupille il mondo!
Oh novo amor sublime
Ch'ogni altro amor più santo in me travanzi!
Teco io vissi e morrò: per te di rime
L'aer qui trema! Oltre lontan que' mari,
Che si stendean dianzi
Qual molle ed ampio velo in lieve azzurro
Tra l'una e l'altra terra;
Oltre là quelle cime
Brune di monti, cui l'oscura notte
Quasi una negra fascia or mi dipinge,
Che dietro a sé già serra
Ai mio veder quei lucidi orizzonti,
Tu posi, fior d'ogni gentile idea!
In me, sì come bella
Appar l'attesa luce a quei del polo,
Con quai dolci desiri, ahi lasso, un giorno
La tua beltà sorgea!
Da me tu lunge or vivi: ed io quest'alma
Sento spezzarsi! oh, se compìti or fièno
Morendo i voti miei,
Diletta mia, deh voglia al tuo ritorno
Accor con ferrea calma
L'opra del fato; e i gemebondi lumi
Ah, non posar su l'infelice salma!

(Da "Ore segrete", 1862)





AUTUNNO
di Luigi Capuana (1839-1915)

Come fiocchi di neve
van cadendo le foglie
e gli alberi fra breve
saranno senza spoglie.

Soffia il vento, s'oscura
di tetre nubi il cielo,
e tutta la natura
par si copra d'un velo.

Ah, la bella stagione
con le foglie è finita!
Al sonno si compone
la terra intorpidita.

Ma, mentre così dorme,
tutte operosamente
rinnova le sue forme
la vita onnipossente.

Dormi, terra; dormite
alberi, erbe, fiori:
a primavera uscite
giovani e freschi fuori.

Oh, v'attendiam! Saremo
rinnovati noi pure.
No, non c'è un giorno estremo,
sorelle creature!

Creature sorelle
si migra ad altre rive;
in più serene, belle
forme, tutto rivive.

(Dalla rivista "Illustrazione Popolare", ott. 1899)





SALUTO D'AUTUNNO
di Giosuè Carducci (1835-1907)

Pe' verdi colli, da' cieli splendidi, 
e ne' fiorenti campi de l'anima, 
Delia, a voi tutto è una festa 
di primavera: lungi le tombe! 

Voi dolce madre chiaman due parvole, 
voi dolce suora le rose chiamano, 
e il sol vi corona di lume, 
divino amico, la bruna chioma.

Lungi le tombe! Lontana favola 
per voi la morte! Salite il tramite 
de gli anni, e con citara d'oro
Ebe serena v'accenna a l'alto.

Giú ne la valle, freddi dal turbine, 
noi vi miriamo ridente ascendere; 
e un raggio del vostro sorriso 
frange le nebbie pigre a l'autunno.

(Da "Odi barbare", 1893)





MARIA
di Pietro Cossa (1830-1881)

L'autunno si dispoglia
Omai d'ogni sua foglia,
E riedono le piogge e il verno tristo.
Soletto ne la stanza,
A me sovvien de la stagione andata
Come d'una speranza,
E richiamo i suoi fiori, e la tepente
Aura, e il dolce sereno
Onde suole beata
Ai campestri piaceri uscir la gente.

Or dove ti nascondi,
Gracile giovinetta,
Che più non ti rincontro in su la via?
Una donna diletta
Chiamandoti Maria
T'accompagnava con materna cura,
E tu pesando sul fidato braccio
Venivi, uguale a stanca creatura
Che non spera vicino
Il termin del cammino,
Ma del penoso andar non si lamenta.
Talvolta, affatto spenta
Ogni forza provando, t'assidevi
Dove una quercia antica
Sparge freschezza amica
Da un lato del sentier che mena al borgo,
E colà sorridevi
Mesta, vedendo trapassar le belle
Che t'erano sorelle
In giovinezza, e ch'ivano cantando
A mover danze in mezzo a la campagna.

Io sentiva tristezza
In riguardarti, o tenerello fiore
Dell'autunno che muore,
E pien la mente e il petto
D'un angoscioso affetto,
Seguia quel tenuissimo profumo
Che lasciavi fuggendo da la terra.
Nel loco ch'è il più erto
Del bel villaggio, stava
La tua casa modesta,
E intorno v'aleggiava
Il venticel che vien da la marina;
Ivi io solea gran parte
De la notte vicina
Spender vegliando sotto la tua cella.
Pensoso del destin che si riserba
Si spesso a la donzella
Nell'età sua più acerba.
L'ultima volta che ti vidi, il giorno
Splendeva de la festa,
E le fanciulle attorno
Uscìan contente de la veste nova,
E adorne il crin di rose e di viole,
Segno a loquaci sguardi
E a timide parole;
I tuoi passi eran tardi
Più dell'usato, e fra la gente amena
Passava quella tua melanconia
Come picciola nube ov'è del cielo
La parte più serena.
O povera Maria,
Conscia quaggiù mai fosti
De la fiamma che ardevami nel core
Sì sconsolata, e uguale
A quel tuo chiuso male;
E che felice avrei
Dato a fine immatura i giorni miei
Per conservare il tuo gentil sorriso
Più a lungo in queste valli?

Poiché sparia la vaga
Stagione, e le famiglie
Abbandonar questo soggiorno verde,
Ogni di più si perde
De' campi l'allegria,
Il tedio incombe e sue nebbie compagne,
E del cor mio più sanguina la piaga.
Ieri per quella via
Che fra i cipressi mena al campo santo
Men giva solitario,
E uscir de la funerea chiesuola
Vidi una donna che guardava il cielo
Con l'occhio grosso dal continuo pianto.
Qual altro avea disio
Se non deporre de la carne il velo,
E riabbracciare in Dio
La sua morta figliola?

(Da "Poesie liriche", 1876)





ROMANZA
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Prono, su 'l mar natale
cui nasconde la duna,
ride il sole autunnale,
dolce come la luna.

S'ode il mare pe 'l lido
gemere, lento e grave.
S'ode talora il grido
fievole d'una nave

che faticosa in vano
lotta co 'l vento avverso,
il richiamo lontano
d'un uccello disperso,

o l'improvviso tuono
d'un'onda più gagliarda.
Ride il sole, già prono,
e dolcemente guarda.

(Da "Isaotta Guttadauro ed altre poesie", 1886)





ROGHI D'AUTUNNO
di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)

Ricordi tu? Ti punge anche il disio
de' vespri gialli a' piani interminati,
o ben degli infantili anni passati
tiene l'anima vinta il pigro oblìo?

Oh! prati gialli nell'autunno! Oh foschi
vespri, di nebbia tenue nutriti:
oh strepente di uccelli impauriti
accidiosa ruggine dei boschi!

Io mi ricordo. Già mi piacque allora
la vostra intimità quasi dolente:
e a me bambino dolorosamente
voi già parlaste: e quella onde mi accora

la lontananza ch'io non so spezzare
meco bevve la vostra erma malia...
Or dove sei, prima compagna mia,
che non ti senti dal mio cuor chiamare?

Erravam per i campi. Eran silenti
i campi, e tristi: qualche foglia rada
s'udia pianger dai rami ai freddi venti:
tenean brevi pozzanghere la strada.

Noi soli... Oh! come il freddo vento a lei
scompigliava i capelli; e al dilicato
volto di bimba il timido incarnato
come fioriva sotto i baci miei!

Poi, per cacciare il freddo, ampia di stecchi
messe raccolta, e di foglie: scavata
una piccola fossa, ai rami secchi
davamo il fuoco: e su, lenta, serrata,

tra 'l fumo acre e 'l sonante crepitìo
salìa la fiamma vigile, sì come
balza da un cuore, al fiammeggiar d'un nome,
l'acre vampa del sogno e del disio.

Oh! pei campi deserti il breve foco!
sopra, qualche castagna abbrustoliva:
indi la fiamma si facea men viva,
e moriva e moriva, a poco a poco...

Restavano i carboni: e noi seduti
al morto rogo scaldavam le mani:
le tristezze perenni, i sogni vani
che dopo per tanti anni ho conosciuti,

oh! non allora mi crescean nel cuore,
oh! non allora il mio cuor sanguinava...
Ella parlava tenue, parlava;
io bevea dalla sua voce l'amore..

Tutto questo finì, tutto è caduto
nel vuoto abisso delle morte cose:
oh! con le nivee man piene di rose,
tenera visione io ti saluto!

Bionda bambina, che di poi dolente
seppi e pensosa del lontano amico,
io qua dirti vorrei, come non dico,
quanto soffersi e quanto t'ebbi in mente:

e ch'ogni anno, al tornar dei freddi giorni,
se pei campi io mi aggiri o a' gialli prati,
qua dove insieme non siam più tornati
dov'io solo ritorno, e tu non torni,

io ti penso e ti piango, e ti desìo;
e mi par di vedere anche, alla riva
d'un rosso bosco, una gran vampa viva
salir tra 'l fumo e 'l denso crepitìo:

i nostri roghi dell'autunno ai piani;
i roghi tristi, dove, a poco a poco,
simili a sterpi che divora il fuoco,
anche questi arderò sogni lontani.

(Da "Il convegno dei cipressi", 1894)





SONETTO D’AUTUNNO
di Arturo Graf (1848-1913)

O stanco autunno, o pia mestizia e cara
Allo stanco mio cor, dacché la folle
Lusinga tacque, e con lo sdegno a gara
L’inquïeto desio più non vi bolle;

O stanco autunno, dalle smunte zolle
Cui l’uom prostrato maledice ed ara,
Dal muto bosco, dal deserto colle,
Tu spiri al cielo una dolcezza amara.

E mentre il vento se ne trae le fronde
Inaridite, e pei cadenti clivi
Muojon, pregando il sol, gli ultimi fiori;

Tu, scolorate larve, e tremebonde
Ricordanze nell’anima ravvivi,
E dolci sogni di perduti amori.

(Da "Le Danaidi", 1897)





GLI ULTIMI GIORNI D'AUTUNNO
di Giuseppe Maccari (1840-1867)

Fosche nubi s' aggirano pel cielo
Nella pugna de' venti, e langue il sole.
Or qua or là s'imbruna la campagna.
Com'è solenne tal melanconia!
La vita alta e robusta delle piante,
E quella sottilissima dell'erbe
Languono insieme. Leva la farfalla
Melanconica il volo, che non trova
Un fior che la diletti nella valle.

Aquilone s'è desto; io ho veduto
Gli alberi turbinare sopra il colle.
Ricoprirsi di foglie inaridite
Il pratello ove rise primavera.
La fantasia vien meno, e più s'avviva
Del cor la vita e signoreggia, e move
Per la mente l'acerbe rimembranze.
Tutto soffre quaggiù; non è perito
L'amor del giglio e della rosa? ed era
Quell'amore innocente, e lo produsse
La forte giovanezza di natura.

Rosseggiavano i lampi, e il lume acceso
Ho nella cameretta; il primo sonno
M'ha interrotto la subita tempesta.
Io starò vigilante, che non posa
Il mesto core, e ad or ad or s'attende,
Perché crescon vicini li cipressi,
L'altissimo fragor della saetta.
La tortorella ha pur fatto lamento.
È timidezza propria di chi nulla
In sé confida, e figlia d'innocenza;
Ché la fiducia allora in Dio si pone.

Il cielo tenebroso piove il freddo;
Ma d' ogni parte all'occidente scoppia
Il fulgor del tramonto, e ancor da lunge
Le sovrapposte nuvolette pinge.
Riverenti alla luce che discende
Stanno le nubi; poi faran tempesta
Cozzando insiem regine della notte.
Cara fanciulla Emilia, ora m'attende
La famiglia che m'ama; un'altra sera
Mi sonerai le dolci melodie.

Quando tu siedi al cembalo fanciulla,
E i capei biondi toccano le spalle
E l'occhio azzurro ride come il cielo,
Io che ti sto d'incontro allora il vago
Paradiso degli angioli mi godo.
Io rinascer vorrei, fanciulla mia,
Vorrei com'ora languida tessuta,
Purché tutta con te pargoleggiasse,
Tutta con te fiorisse la mia vita;
Purché mi amassi, giovinetta, quando
In treccie avvolgerai la lunga chioma,
E sarà l'andar grave, e colmo il seno.

Tutta la vita di natura è un misto
Di gioia e di dolore; or, ecco, il cielo
Ch'era sì torbo, limpido risplende.
Cavalcano le nobili fanciulle;
E ve' tornata, com'april nascesse,
La scherzosa farfalla sui giardini.
Odi, Emilia, vo' dirti un bel secreto
Ch'all'orecchio m'ha amore susurrato;
Amano i fiori (ed esser si potrebbe
Senz'amor?), ma d'alcuni son desio
Mesto le fanciullette, e l'esser colti
Da queste è gioia dell'ingenuo amore.

(Da "Poesie", 1865)





AUTUNNALI
di Nicola Marchese (1858-1910)

Morta è la bella dai capelli d'oro
un'altra volta, la bella e la buona,
che, a fornir pane, ogni anno il suo tesoro
al taglio di più e più falci abbandona.

Pallido, veste l'autunno le spoglie
che nere gli han tessuto i nuvoloni;
e piange e piange lacrime di foglie,
torvo imprecando col rombo de' tuoni.

Ma il vento sperde delle foglie il pianto;
sbiadisce, al sol, delle gramaglie il nero;
i novi azzurri già ridono al canto
che d'immemori ebbrezze è messaggero.

E la vendemmia vien fervida e pia,
porgendo un nappo con prodighe mani,
al qual bevendo, ignorasi ed oblia
d'ieri e d'oggi ogni cura e di domani.

Bevi, autunno, e t'addormi, e di lei sogna
i capei d'oro, non falciata messe.
Creder del vin gli giovi alla menzogna:
un sudario l'inverno a lui già tesse.

(Da "Crisantemi", 1895)





OMBRA D'AUTUNNO
di Giovanni Marradi (1852-1922)

Or che si velano d'ombra cinerea
le notti roride, Falbe odorose,
che sotto il languido tedio dell' aere
               dormon le cose,

io della pallida mia solitudine
torno al silenzio, torno all' oblio....
Ahi com'è gelida l'ultima lacrima,
               l'ultimo addio!

(Da "Poesie", 1907)





FINE D'AUTUNNO
di Guido Menasci (1867-1925)

Ora il giardino è solitario. Posa
su 'l giardino la trista aria autunnale
grigia. Su 'l cespo arido una rosa
illanguidisce. È l'ultima. Il viale,

che già rideva a l'alba luminosa
d'april di voli e canti, un sepolcrale
silenzio vince. Pare in ogni cosa
un brivido ed un brivido qui assale

l'anima. Sembra che gli alberi spolti
sien scheletri ingialliti e dissepolti.
Poi come su le isterilite aiòle,

dispare il raggio ultimo del sole,
par che la voce non osi parole
e che il silenzio pauroso ascolti.

(Da "Il libro dei ricordi", 1895)





AUTUNNO
di Alfredo Oriani (1852-1909)

Vola, fuggiasca rondine,
che verrò teco a voi.
Tutto è qui morto — o rondine,
dove dirizzi il vol?

Lontan lontan ceruleo
sorride il ciel; sorride
più in alto il sole — o rondine,
quale più ti sorride?

Vola, fuggiasca rondine,
fuggiasco volerò:
tutto è qui morto — perdermi
lontan, lontan io vò.

(Da "Monotonie", 1888)





SERA D'AUTUNNO
di Enrico Panzacchi (1840-1904)

Dove vanno le nubi? — In alto, fumide
Verso il ciel di Levante
Le spinge un turbo: viaggiando pigliano
Simulacri di mostro o di gigante

Mobili, strani: sui lor fianchi plumbei
In lunghe oblique file
Passan le gru, lontane, velocissime
Migranti a plaghe in cui s'innova Aprile.

Dove vanno le foglie? — Intorno ruotano
Della brezza sull'ali
Taciturne, o stridendo s'accartocciano
Delle chiuse finestre ai davanzali,

O tra' cespugli del giardin s'impigliano,
Sui fior già smorti infesta
Ghirlanda; cenci scolorati e laceri
Del superbo mantel della foresta.

Contro l'ultima luce del crepuscolo
I foschi baluardi
Erge intanto Bologna: fra i nudi alberi
Qualche acceso fanal brilla a' miei sguardi,

Dai viali del suburbio: un rumor languido
Vien di sopra le mura,
Mentre silenzio ed alta solitudine
Guadagnan d'ogni parte la pianura;

E sbucato pur or di sotto agli embrici
Mi gira un vipistrello
Dintorno al capo — muto, uggioso, assiduo
Come un pensier che ho chiuso entro il cervello...

(Da "Lyrica", 1877)





L'ULTIMO AUTUNNO
di Pietro Paolo Parzanese (1809-1852)

Fuggîr le rondinelle
lungi da questo ciel,
né come pria le stelle
splendono senza vel.

O autunno, e tu ritorni
un'altra volta ancor
co' pallidi tuoi giorni,
co' grigi tuoi vapor!

Eppur io non sperai
vederti ritornar,
ché a mezzo april pensai
la vita abbandonar.

Ma vidi sulla spina
la rosa rifiorir,
or veggo alla collina
i pampini ingiallir.

Deh! col morir dell'anno
potessi anch'io morir,
e senza nuovo affanno
la vita mia finir!

Meco morir vedrei
le foglie i cespi i fior,
le ciglia io chiuderei
ne' rai d'un sol che muor.

Ah! mi son cari tanto
i fiori il cielo il mar!
Nel lor più vivo incanto
non li saprei lasciar.

Chi visse ognor beato
non ama i cespi e i fior,
come chi abbandoanto
si pasce di dolor.

Le belle creature
già il vento scolorò;
già cascano, ed io pure
con esse morirò.

Oh addio! Se qualche fiore
pur dopo me vivrà,
la madre a me sul core
quel mesto fior porrà.

(Da "Canti del Viggianese", 1946)





TRAMONTO
di Mario Rapisardi (1844-1912)

Porporeggian le viti a la campagna
Nel bigio autunno in sul mancar del sole;
Il pettirosso invita la compagna
A saltellar su le zappate ajuole;

Nel vóto stabbio querula si lagna
La vaccherella a cui tolta è la prole;
Per l'erma strada il poverel si duole
Col cencioso fanciul che l'accompagna.

L'aure senton di muschi e di vinaccia;
E lontan, l'uste de la fiera scòrte,
Latran le mute signorili in caccia;

Mentre a' figli pensando e a la consorte
Il nero carbonajo alza la faccia,
E con bieco pensier fischia a la morte.

(Da "Giustizia", 1883)





MUORE L'AUTUNNO...
di Corrado Ricci (1858-1934)

Muore l'autunno — al vento del giallo mantello si spoglia
il denso bosco; vanno — correndo il bianco

cielo con l' ali stanche — le rondini a più miti plaghe. 
Mesta seduta presso l' alto balcone,

pensando al triste amore, le nuvole guarda sospinte
dal vento ai bianchi colli, fumide, oscure

e le striscie di pioggia che cadono oblique sul lago.
Declina il volto la povera fanciulla

e lagrima — «Fra poco nel freddo sepolcro rinchiusa
giacerò. Il core mi si chiude pensando

ch'io debbo, ahimé morire, morire su 'l fiore de gli anni!»
Mentre l'attrista crudelmente il pensiero

di morte, il sole rompe da ponente le negre nubi,
l'erma campagna di rosea luce innonda,

il lago scintillante, le cime nevose de i monti;
un caldo raggio corre sul bianco volto

de la tisica — Scossa a la nova luce sorride...
ahi sorridendo socchiude gli occhi e muore!

(Da "I miei canti", 1880)





TEDIO AUTUNNALE
di Alberto Rondani (1846-1911)

L'albe son fosche, e lividi i tramonti;
Cascan gocce dai rami e foglie gialle;
Nuvole dense e irresolute i monti,
E tutto fango è il fondo della valle.

Or dove sono i ceruli orizzonti?
Che ne sarà di quel romito calle,
Lungo quel rio, quel rio pieno di fonti,
Di serpilli, di muschi e di farfalle?

In queste scarse ore di luce, a quante
Ricordanze che me chiamano a nome
S'apre il mio cuore come una ferita!

Ed io vi seguirò, trepide e sante
Voci. Ma che, di già s'invecchia? oh, come
Son lunghi i giorni, e rapida la vita!

(Da "Voci dell'anima", 1883)