domenica 2 novembre 2014

Novembre in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Ed ecco Novembre secondo i poeti italiani del Novecento. Si nota un insistente riferimento alla caduta quasi totale delle foglie dagli alberi; al vento che, spesso presente, soffia senza requie e disperde le foglie in terra; alla scarsa presenza di fiori; ai primi freddi che annunciano già l'imminente inverno... Ma, come spiegano altri versi, Novembre può ancora offrire delle belle giornate, anche se nel "cielo pacato" il sole è divenuto freddo, e non riesce più a scaldare chi ancora avrebbe tanto bisogno del suo calore; così, anche nei giorni soleggiati, affiora un senso di tristezza, e fa capolino "un sommesso piangere senza volto".


NOVEMBRE
di Corrado Alvaro (1895-1956)

Novembre, fa freddo qui in terra
e vogliono gli augelli fuggir;
attendono i morti sotterra
quegli altri che devon morir.

(Da "Il Viaggio", 1999)





ELEGIA DEL NOVEMBRE
di Carlo Betocchi (1899-1986)

Dall'immortale pace
sorge vergine morte
e reca, al fin d'autunno,
sulle vigne contorte
i venti senza pace
e il vel notturno.

Il puro firmamento
in più luoghi maltisce,
e delle stelle il raggio
cela tra ombrose striscie
con il suo sentimento
alto e selvaggio.

Mena tra i giunchi e il nulla
per desolate piaggie
fiume che va diserto:
e l'alma roccia piange
l'onda, dov'ebbe culla,
in giogo aperto:

e la pigra fanciulla
che va cuore felice
coglie lungo la sponda:
non s'agita né dice
con la sua bocca brulla,
e in cuor le affonda.

Ma se alle case sue,
queste bagnate e frolle,
viene vergine morte;
che appaiono sul colle
tra le nebbie e son pure
apparse e morte:

qui, nel mio cuor, conserva
la colomb'alba un nido
bianco, com'ebbe l'ale:
che già, stamani, il fido
vol suo raccolsi, all'erma
montagna australe.

(Da "Tutte le poesie", 1984)





NOVEMBRE
di Gherardo Del Colle (1920-1978)

Gli alberi sono rimasti senza foglie
e gemono al vento che le sparpaglia;
si trattiene ai tuoi occhi quel color di paglia
arido, che s'affolta alla tua soglia.
Se nella strada tu procedi, ascolti
che al tuo piede s'infrange
quasi un sommesso piangere senza volto...

(Da "Il fresco presagio", 2008)





NOVEMBRE A PESTO
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Ci furono le rose
un tempo, gli asfodeli.
Ora passa nei cieli
il cielo che rispose 

alla notte degli anni,
alle paludi,ai morti.
Ci restano più forti
del tempo questi inganni

della dolce stagione
E il povero che vede
fermarsi sul suo piede
il sole, già s'espone

al suo sorriso cieco.
Felice si somiglia,
balbetta con le ciglia
il soliloquio greco.

Poi trova il freddo, stretto
nelle stesse parole
con cui si scalda il petto.
A non volere vuole

il fondo del bicchiere.
La morte porge al nonno
degli anni sul braciere
di cenere quel sonno.

(Da "Tutte le poesie", 2005)





MOLTE VOLTE NOVEMBRE È RITORNATO
di Margherita Guidacci (1921-1992)

Molte volte Novembre è ritornato
Nella mia vita, e questo che oggi ha inizio
Non è il peggiore: quieto
Benché non privo di apprensioni. China
Mi trova su una culla, dove l'ultima
Mia nata dorme il misterioso
Profondo sonno dell'infanzia, ancora
Ospite più che cittadina in questo
Nostro mondo per lei straniero. Sento
La dolce ondata del latte salirmi
Al seno: tenerezza
Che di sé gonfia tutte le mie fibre,
Dilata i miei confini. Qui lo stanco
Sangue si rifà puro a una segreta
Sorgente, si rifà vergine e può
Calmar la sete di vergini labbra.
Il mio corpo è strumento di miracolo
Come già fu nel dare vita. Il seno
È la collina favolosa, scorrono
I fiumi d'abbondanza in un'età
D'oro, che segnerà
Per la creatura ignara il più profondo
Alveo della memoria, a cui più tardi
Ritornerà nel sogno o nel dolore...
Per lei intatta è l'immagine; per me
Che ne sono occasione, la scolora
Già il tempo, amaramente. È forse l'ultima
Volta che ho un figlio al seno, poiché incalzano
Gli anni ad inaridire
La mia linfa. Oggi sono
Ancora un vivo albero, frusciante
Di foglie, benedetto
Di succhi, ma in cammino è la stagione
Spoglia che su di me si chiuderà.
Tanto più dolce è questa sosta, prima
Ch'io stessa sia l'autunno: pure un'ombra
Di presagio la vela e di paura.
Il passo si stende alle mie spalle
Come una lunga via. So del futuro
Solo una cosa: che difficilmente
Potrà uguagliare per me la durata
Del tempo ch'è trascorso.

(Da "Le poesie", 1999)





NOVEMBRE
di Sergio Ortolani (1896-1949)

Vedo la casa tua china sugli orti
maceri, il fiume gonfio, il cielo scuro;
e pensosa seguir ti raffiguro
le foglie morte giù dai rami morti.

Anch'io recluso medito le lente
ore. La pioggia tremula s'adagia.
L'ombra bianchiccia come la bambagia
ricolma le contrade sonnolente.

Esco, e ti penso. Vedo il tuo vestire,
ma contro voglia, neghittosamente.
T'aspetto in piazza tra la poca gente
che borbotta: comincia a rinfreddire.

Ecco, tu passi, bianca fuggitiva,
lieve falena delle nere strade;
e sul mio sguardo che ti brucia viva
sento il tuo sguardo, gocciola che cade.

(Da "Poesie", 1957)





NOVEMBRE
di Aldo Palazzeschi (1885-1974)

Dei giovani e dei vecchi
si raggruppano
fra le rovine calde di Roma
su cui i platani lasciano cadere
con frusciare di carta
le loro foglie dorate.
I giovani
fanno sapere ai vecchi
quello che a loro piace
e i vecchi
fanno finta di non sentire.

(Da "Cuor mio", 1968)





SOTTO IL CIELO PACATO DI NOVEMBRE
di Sergio Solmi (1899-1981)

Sotto il cielo pacato di Novembre
come nette profondano le linee
dei rettifili, preciso lo spigolo
dell'edificio l'ombra della luce
scompartisce, e beato posa l'albero.
Avrei voluto apprendere cotesta
tua chiarezza infallibile, meriggio
senza una nube, che a questo discreto
ed ovvio paesaggio cittadino
imprimi oggi un rigore architettonico
quasi di tela neoclassica. Invece
cancellarmi vorrei, tanto mi sento
un estraneo accidente in queste splendide
tue geometrie, non più che una confusa
macchia, una pena, un vagabondo errore.

(Da "Opere", 1983)





PRINCIPIO DI NOVEMBRE
di Carlo Stuparich (1894-1916)

O freddo sole di novembre, soltanto ricordi mi scalda in questo corpo rabbrividente. La mia vita ronza tutta dentro; guarda i miei occhi, ti pare che vedano la storia del prossimo, o quanto da godere darebbero quelle onde di carne femminile? La mia carne, se la tocchi, ti spaventi del suo poco fermento: è un ingombro di corpo che pesa brutamente sull'esilità nostalgica della mia anima.

Camminando fra due muri secchi - vi pendono tralci di vite intisichita, pampini rossi come gote assai febbrose - sento che la mia vita è tutta qui in questa solitudine soleggiata a freddo. In nessuna parte ho lasciato lembi della mia persona. Qui raccolgo e stringo tutta la mia anima come un lenzuolo piegato fittamente che odora di fresca lavanda.

(Da "Cose e ombre di uno", 1968)





ELEGIA DI NOVEMBRE
di Rina Sara Virgillito (1916-1996)

Se talvolta dalle ripe nebbiose si desti il richiamo;
se dal viluppo, fogliame di porpora e d'ombra
al fiume compagno, talvolta il richiamo ti giunga -
solitario, lontano, in questo morire dell'autunno -

oh ricorda: la primavera è perduta,
sfinita l'estate, anche il cielo dell'autunno
è consumato,

eppure eterna rimane, tra queste forme che sanno,
la sosta fuggitiva; le nostre vite si svolgono
in questi luoghi solo: inestricabili, intatte,
in un presente senza tempo al di là del presente.

(Da "I giorni del sole", 1954)



NSG-Wohldorfer Wald, Herbstnebel, 21 novembre 2016
(da questa pagina web)


sabato 1 novembre 2014

Il giorno dei morti in 10 poesie di 10 poeti del XIX secolo

Oggi è il Giorno dei Morti e io, dopo tanti anni che non lo facevo più, mi sono recato al cimitero di Ostia Antica. Avrei voluto visitare almeno una delle tombe in cui giacciono i corpi dei miei parenti, ma non ho potuto farlo: non ricordo più dove esse si trovino (se ci sono ancora). Allora ho vagato lungo le stradine del camposanto, osservando, di tanto in tanto, le lapidi che erano nei pressi. Erano le tombe di tante persone anziane, i cui cognomi mi sono spesso familiari; c’era anche qualche giovane, deceduto già da molti anni. Mentre mi aggiravo nel cimitero, dal cielo grigio è cominciata a cadere qualche goccia di pioggia. Ho pensato: in questo giorno la pioggia non poteva mancare. Ma quando l’intensità della precipitazione piovosa è aumentata, non avendo con me un ombrello, me ne sono andato piuttosto velocemente. Tornato a casa, ho pensato ai miei cari morti. Quante sono le anime assenti, che una volta vedevo quasi tutti i giorni, e alcune di esse mi volevano bene (io glie ne ho mai voluto?). Di loro, mi restano soltanto i ricordi (ogni anno più sbiaditi). E, considerata la mia profonda, irreversibile solitudine, si affaccia sempre di più in me una smania di raggiungerli al più presto: di entrare nel nulla dal quale provengo, e al quale - forse presto - ritornerò. 




DUE NOVEMBRE

di Vittoria Aganoor (1855-1910)

Oh se potessi ancora
sognar! ridirmi ancora:
— egli m'ama, egli pensa
a me, sempre; egli guarda
questi limpidi giorni e pensa a me;
guarda queste serene
notti, ed incontro sempre
l'innamorato suo pensier mi viene!
questa lucente vita
non gli par bella se non per me sola,
e con me sola; tutto l'altro ormai
follia, follia, follia,
e nessuna parola
lo accende e lo consola
se non gli viene dalla bocca mia.
Quando verrà l'inverno
coprendo il cielo d'una bigia trama
di nuvole, e cadranno
le lunghe piove e le melanconie
sovra la terra; intorno a me, ch'egli ama,
sarà il sole, una calda onda di sole,
l'ardente soffio dell'intensa brama,
la viva vampa delle sue parole
intorno a me, ch'egli ama!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ecco Novembre; s'aprono
i cimiteri. Oh se potessi ancora
sognar! L'inverno viene
ed il sol ci abbandona.
Oh se potessi ancora
sognar! L'inverno viene
ed il sol ci abbandona.
Cadon le pioggie lente,
s'aprono i cimiteri;
una campana suona
interminabilmente.

(Da "Poesie complete", 1912)





DUE NOVEMBRE
di Peleo Bacci (1869-1950)

Al giardiniere ho chiesto
perché l'ultime rose
cogliesse giù nell'orto,

ed ei col viso mesto
guardandomi, rispose:
- Pel mio bambino morto. -

E mentre al taglio eguale
cedeva la fiorita,
egli di tanto in tanto

la cocca del grembiale
prendeva colle dita
e s'asciugava il pianto...

(Da "Dai nostri poeti viventi", 1896)





I MORTI
di Giulio Carcano (1812-1884)

Dall'olmo solitario 
Le foglie inaridite 
Cadon sull'erba pallida; 
Già d'autunno la vesta ingombra il suol: 
Ma piove ancor col mite 
Ultimo raggio la sua gioia il sol. 

Più la canzon de' poveri 
Per l'aer non batte l'ale: 
Ma vive le memorie 
Albergano nel nido del dolor; 
Bagna il pianto mortale, 
In sacra terra, i pochi ultimi fior. 

Oh! chi non ama il memore 
Giorno de' mesti addii? 
Cui non è sacro l'angolo 
Ove dorme la madre ed il fratel? 
La prece umil, da' pii 
Sepolcri ascende, come incenso, al ciel. 

E possente dai tumuli 
Tuona il grido de' morti, 
Custodi della patria, 
E virtù desta de' viventi in cor. 
Ove dormono i forti, 
Là veglia sempre l'occhio del Signor.

(Da "Poesie edite ed inedite", 1895)





O VOI CHE NE LE FOSSE UMIDE E NERE
di Giuseppe Chiarini (1833-1908)

O voi che ne le fosse umide e nere
o sotto i marmi candidi dormite,
oggi un sordo romor per le severe
tacite sedi errar non lo sentite?

Oggi è il dì che i viventi in lunghe schiere
traggon pensosi e muti a le romite
vostre dimore; ed hanno in man fiorite
ghirlande, ed hanno in cor pianto e preghiere.

Anch'essa, o morti figli, anch'essa viene
oggi la madre vostra al cimitero,
porta anch'essa ghirlande al rito mesto;

ghirlande e pianto. Io no: dove conviene
molta gente, non vado: in casa io resto
a ragionar di voi col mio pensiero.

(Da "Lacrymae", 1880)





2 NOVEMBRE
di Renato Fucini (1843-1921)

Tornai! le lane sulle usate spalle,
Scende la brina dalle alture bianche;

Cadono in pioggia al suol le foglie gialle,
Suonano a morto le campane stanche.
Salute a noi dalle infiorale ajuole,
Dai marmi ghiacci dell'ospizio estremo!...

Cianciano i vecchi, sonnecchiando, al sole;
Vanno i malati pallidi a San Remo.

(Da "Le poesie di Neri Tanfucio", 1920)





DUE NOVEMBRE
di Pietro Gori (1865-1911)

Quante memorie, o Bice,
in questa notte buia e sconsolata!
Oh d'una infanzia garrula e felice,
      larva sfumata!

Oh fantasie gioconde,
ribelli al ritmo di studiato verso,
erranti strofe, nenie vagabonde
      de l'universo!

Oh per li elbani clivi
carme infinito di geniali accordi!
eravamo sì baldi e sì giulivi;
      te ne ricordi? 

Te ne ricordi? a piaggia 
de l'ondata vanìan le brume stanche; 
salpavan da la ripa erma e selvaggia
      le vele bianche.

Tu eri piccolina,
gaia, gentile; io ruvido monello;
oh infantil bisbiglìo d'ogni mattina,
      com'eri bello!

O Bice, ho ripensato,
stanotte, le paure d'altre volte,
le fole udite, mezzo addormentato,
      lugubri e stolte.

Nella notte dei morti 
in sogno rivivean quelle leggende, 
scendean di scheltri, da l'avel risurti,
      fosche tregende.

La visïon spettrale
riddava al mesto suon de le campane,
novellanti nel buio a funerale
      favole arcane.

Oggi non più. L'affetto
solo rivive memore al dolore,
oggi son morte le paure, e in petto
      non trema il core.

Eppur, deh, s'io vorrei
di nostra infanzia la illusione pia!
ma la tua fede nei moderni Dei
      non è più mia.

Ahimè! se fosse vero,
che un trapassato spirito errabondo
potea stanotte uscir dal cimitero,
      e gir pel mondo;

ei ben sarìa venuto,
il tuo mesto Luigi a la prigione,
m'avrìa portato il bacio ed il saluto
      de l'alme buone.

Ahi! muta è la sua tomba,
chiusa dal gelo nel silenzio eterno,
e la tragica squilla oggi rimbomba,
      come uno scherno.

Stanotte, o Bice, invano
nel mio carcer movean le ricordanze,
invano a requie un suon tessea lontano
      macabre danze.

Ma l'aerea cöorte
de li spirti ne' miei sogni non scese,
non temo più dai morti e da la morte
      ire od offese.

Da che i vivi crudeli
m'ebber, pel mio pensiero, i polsi avvinti,
se pur non credo ne li empirei cieli,
      amo gli estinti;

amo questa serena
folla di atòmi, cui morte travolve;
corrosi anelli d'immortal catena,
      perpetua polve.

E so ben che la vita
è un episodio ratto e passeggiero,
un'audacia di brame inassopita,
      un sogno altero;

ma so pur che, se il flutto
de l'essere, onde l'uom soffre, o gioisce,
è materia che palpita, non tutto
      con lui finisce.

L'umanità non muore,
e i ruderi di noi serba immortali,
perpetüando i nostri odî, l'amore,
      il fango e l'ali;

ali di cherubino,
torve passioni, aurore scintillanti,
di libertà radiosi in sul cammino
      martiri e santi.

Qui l'averno o l'eliso
son la fraterna pace, o l'aspra guerra;
lotta il veggente, e vuole il paradiso
      qui sulla terra.

Ma tu, sorella, speri,
levando prieghi supplici e devoti,
ch'ei viva in grembo ai fulgidi emisferi
      di mondi ignoti.

Non io. Pur se il tuo pianto
men triste è al raggio de l'antica fede,
prega, sorella, nè ti offenda il canto
      di chi non crede.

(Da "Prigioni", 1911)





OGGI È IL GIORNO DEI MORTI...
di Giacinto Ricci Signorini (1861-1893)

Oggi è il giorno dei morti. Ed una densa
Nebbia le cose intorpidisce, e serra
Il cielo tetro e livido.
L'anima tace nel mister: non pensa;
Quasi smarrita in questa fredda terra.

Solo percorro sul mattin le logge
Del cimitero; a poco a poco miro
Indifferente e rapido,
Adornarsi le tombe in nuove fogge:
Ma la tua tomba è lunge al mio desiro.

Come è vuoto il mio spirito! Non trema
Al fluir di quest'ora triste; e pare
Anche il creato esanime;
E che per l'aria senza sol mi prema
Come un silente transito di bare.

Or delle cose seppi la profonda
Vanità, la fuggevole parvenza:
Tutta scopresi l'intima
Fibra bestiale, nauseosa, immonda,
Che invigorisce questa nostra essenza.

E a che la lotta disperata agogna,
E la rabbia implacabile, omicida?
Son come al vento polvere.
Ronza d'intorno acuta la menzogna,
Ma non mi curo, se il mio cuore uccida.

Operi l'uomo a suo capriccio. Alcuna
Speranza non richiamo: il vento forte
Dentro i cipressi sibila.
Tesso la tela della mia fortuna,
Calmo, aspettando il bacio della morte.

(Da "Poesie e prose", 1903)





NEL DÌ DE' MORTI
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1869)

I.
suonano a festa: olezzan di viole
Le morte zolle e si allegra la terra;
Cantano augelli, sfogliansi le aiuole...
Tacciono i morti e dormono sotterra.

Inverno riede; Autunno, come suole,
L' ultime gemme de' fiori disserra,
Ronzano insetti e volteggiano al sole...
Tacciono i morti e dormono sotterra.

Dormono stesi, immobili, stecchiti
Nell'umido, che stilla entro la fossa,
Col lenzuol roso e co' stinchi imbianchiti.

O padre mio, una voce mi dice
E mi suona nell'anima commossa
Che tu sei morto e non fosti felice!


II.
Che felice non fosti! E questo ingrato
Rimembrar che la mia vita addolora,
È il rimembrar che de' tuoi cari il fato
Non allieti la tua fredda dimora;

Ma dimmi, per le lacrime, che dato
Mi fia versar su la tua fossa ancora,
D'un'altra vita, in forme altre rinato,
Vedesti o vedi una più lieta aurora?

Dimmi: pel duolo ond'è l'anima oppressa
Per il negro avvenir, che m'impaura,
È una mercede alla virtù concessa?

Ma tutto è muto! — Il sol dall'alto sferra
Gl'ultimi raggi, e sorride natura... 
Tacciono i morti e dormono sotterra.

(Da "Disjecta", 1867)





LE CAMPANE DEL 2 NOVEMBRE
di Giuseppina Turrisi Colonna (1822-1848)

È la voce degli angeli e dei morti,
E dei secoli il pianto e di Natura,
Che noi, nel sogno della vita assorti,
Ad altro viver chiama, ad altra cura!
Ah tu, squilla mestissima, conforti
I languidi pensier della sventura;
Tu m'insegni a soffrir, tu mi riveli
Che fugge il duol, fuggono i dì crudeli.

Coi prischi vati, coi guerrier, con Dio
Vissi fuor della terra e de' suoi mali.
Chi mi destò dall'incoscente oblio?...
Ah, chi mi tolse la speranza e l'ali?...
Nell'audacia di nobile desìo
Bramai cangiar la sorte dei mortali,
Render tutti felici: ahi! tutto in pianto
Miro, e dei giorni miei rotto è l'incanto.

No, non vorrei coi morti e nell'orrore
Di gelido sepolcro addormentarmi;
Vorrei, come rugiada in grembo al fiore,
In grembo a rosea nuvola celarmi,
Piangere, amar, pregare, in fin che fuore
Me dal recesso mio, gli altri dai marmi
La novissima tuba un dì ridesti,
E n'apra i tabernacoli celesti.

Fuggir sopra una nube! ad ogni umana
Cosa fuggire è un nobile deliro,
Un sogno eterno, un'esistenza arcana,
Un mesto placidissimo ritiro.
Esser viva, esser sola, esser lontana,
Desìata nel mondo e nell'empiro,
Mistero a tutti, nota sol nei canti,
Ebbrezza di cherùbi, amor di santi!

Ecco: dell'aurea nube armoniosa
Veglio la Patria mia, desto gli eroi,
Parlo a' miei cari, e tenera, pietosa
Memoria sono al cor gli affetti suoi.
Lungi, o cari, da voi, solo riposa
Chi troppo e invano s'agitò per voi;
Addio per sempre... E tu di là tranquilla
Ripeti il mesto addio, funerea squilla.

(Da "Poesie", 1915)





POVERI MORTI!
di Annie Vivanti (1868-1942)

In lugubre cadenza le campane
Vogliono ricordarci i nostri morti;
E noi, che pure vi crediam risorti,
In vesti nere andiamo al Camposanto,
A rammentarvi che v'amammo tanto,
         Poveri morti!

Vedeste quanti fiori vi rechiamo!
D'ogni foggia e color, croci e corone!
De' fiori freschi non è la stagione
(Che vivon tutt'al più una settimana),
Ma quelle di perline o porcellana
         Son di durata!

Se gli occhi aveste ancor, poveri morti,
Sui vostri marmi leggereste tutto
L'amor che vi portammo e il nostro lutto.
Ed anche un grande elenco di virtù
Che forse voi non ricordate più
         D'aver avute.

Ma si fa tardi. Al caso un altro Requiem
In carrozza al ritorno è presto detto,
O guai! con questo freddo maledetto
Si corre il rischio di pigliar malanno.
Che autunno indiavolato abbiam quest'anno!
         — Cocchiere, a casa. —

(Da "Lirica", 1915)

Il giorno dei morti in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Il giorno dei morti, nei ricordi lontani della mia infanzia, era destinato – come da tradizione – alla visita delle tombe dei cari defunti nei cimiteri. Io, insieme alla mia famiglia, andavo al cimitero di Ostia Antica, dove, in verità, c’erano le tombe di parenti che non conoscevo affatto, o perché troppo lontani, o, nella maggior parte dei casi, perché erano deceduti prima che io nascessi. Quel luogo non mi appariva triste, al contrario piuttosto allegro, sia perché per me, andarci, rappresentava soltanto uno svago, sia perché vi erano tanti fiori colorati, difficilmente rintracciabili in altri posti nei dintorni. Il giorno dopo, a scuola, la maestra puntualmente ci faceva fare un tema sul giorno dei morti.




2 NOVEMBRE

di Arnaldo Beccaria

Le dimore dei morti, i bianchi marmi,
oggi l'amore dei viventi adorna
di colorati fiori e di fiammelle.

(Da "Sull'orlo del cratere", 1966)





IL GIORNO DEI MORTI
di Carlo Betocchi (1899-1986)

Sarà fatto di dolore
questo giorno anche nell'alba,
quando l'aria al colpo duole
di chi mura e spacca in palma
pietra al suo vero colore
che va in polvere, si calma.

Dentro i taciti conforti
dell'odore in cui si monda
la beltà breve degli orti
che di muri si circonda,
sovra i banchi, in verdi assorti,
l'erba in fiore ha la sua tomba.

Sarà voce come cera
che vanisce mentr'è giorno,
che ritorna nella sera
delle case, al suon profondo
d'una provvida preghiera
mormorata in crocchio tondo.

Sarà a lei trafitta a morte,
che da questo in altro giorno
verrà un lume anche più forte
d'ineffabile ritorno,
voce d'anima, a una sorte
sconosciuta in questo mondo.

(Da "Tutte le poesie", 1984)





DUE NOVEMBRE
di Giuseppe Casalinuovo (1855-1942)

Alzati, è tardi. Già fin dentro l'orto
è giunto il sole e suona la campana,
come un'eco di cose assai lontana,
suona da un pezzo, tristamente, a morto.

Ho raccolto assai fiori, guarda. Ancòra
le corolle son cariche di brina,
li ho raccolti per tempo, stamattina,
prima del sole e prima dell'aurora.

Prendi i tuoi fiori: questi, questi... e questi
sono per me. I tuoi ceri, ecco, e i miei ceri;
ora tu va di là pei tuoi sentieri,
io piglio a manca i miei sentieri mesti.

Oggi è il sol giorno che si fa due strade,
e si va soli, ognun per la sua via,
perché la mèta tua non è la mia:
abbiamo due sepolcri in due contrade.

Baciamoci, e ricorda il crocivìo:
noi qua ci rivedremo verso sera,
dopo che avremo detto la preghiera
pei nostri morti. Un altro bacio, e addio.

(Da "Giornata breve", 1981) 





NOTTE DEI MORTI
di Olindo Giacobbe (1889-1954)

Contro la casa che sta sorda e immota,
nella notte dei morti ulula il vento:
stanno in attesa d'una voce nota
tre ombre intorno al focolare spento.

Nessuno arriva. Prese di sgomento
girano intorno la pupilla vuota
e sospirano. A ognuno il pianto, lento,
riga cocente l'una e l'altra gota.

Non vi sia greve l'aspettar! Siamo stanchi
e gli anni come sabbia tra le dita
ci sfuggono e i capelli son già bianchi.

Verremo. Se, travolti dalla sorte,
da voi lontano ci scagliò la vita,
in grembo a voi ci spingerà la morte.

(Da "Emmaus", 1949)





NEL DÌ DEI MORTI
di Emilio Girardini (1858-1946)

Donde la gioia che in tutte le vene
mi scorre in questa sì triste giornata
di tutti i morti, di nebbie velata,
                        donde proviene?

Non già dai campi, da gli orti spogliati
che più non dànno se non crisantemi,
né dai vigneti con pochi racemi
                        dimenticati.

Eppure in mezzo a sì squallide cose
ove lo scricciolo méndica solo,
nel cuor mi sbocciano, senza più duolo,
                        mistiche rose.

Il vostro mare sonoro, o campane,
che su le rive si frange ignorate
dei morti, il senso mi dà di beate
                        sagre lontane,

e fra le nebbie lo squillo remoto
del gallo, a cui porgo orecchio, mi pare
voce che inviti di là da quel mare
                        verso l'ignoto.

(Da "Poesie", 1952)





IL GIORNO DEI MORTI
di Corrado Govoni (1884-1965)

Questo giorno, ogni vecchio camposanto
schiude i cancelli per la processione
de le ghirlande comemorative;

questo giorno, ogni lapide nel canto
più solo s'orna d'una comunione
d'aster e di calendule tardive.

Si raddrizzan le croci reclinate
che già s'incominciavano a guastare,
si rinnovan l'iscrizioni tombali

e le fotografie dissanguate;
e gli avelli diventano un altare
di lampade e di fiori artificiali.

Nel sagrato de l'antica Certosa
i coni funebri dei tassi tetri
àn l'aspetto di neri catafalchi;

una chiesa ferisce la dogliosa
costa del Tempo. Nei fanali i vetri
sono appannati, simili a dei talchi.

Un'acquerugiola che pare ranno
al lutto de le cose dà un convegno.
E tra i veli di nera tarlatana,

nei portici le cere si disfanno
dai candelabri di tarlato legno
su le rose di gialla porcellana.

(Da "Armonia in grigio et in silenzio", 1903)





LAS ANIMAS
di Mario Luzi (1914-2005)

Fuoco dovunque, fuoco mite di sterpi, fuoco
sui muri dove fiotta un’ombra fievole
che non ha forza di stamparsi, fuoco
più oltre che a gugliate sale e scende
il colle per la sua tesa di cenere,
fuoco a fiocchi dai rami, dalle pergole.

Qui né prima né poi nel tempo giusto
ora che tutt’intorno la vallata
festosa e triste perde vita, perde
fuoco, mi volgo, enumero i miei morti
e la teoria pare più lunga, freme
di foglia in foglia fino al primo ceppo.

Da’ loro pace, pace eterna, portali
in salvo, via da questo mulinare
di cenere e di fiamme che s’accalca
strozzato nelle gole, si disperde
nelle viottole, vola incerto, spare;
fa’ che la morte sia morte, non altro
da morte, senza lotta, senza vita.
Da’ loro pace, pace eterna, placali.

Laggiù dov’è più fitta la falcidia
arano, spingono tini alle fonti,
parlottano nei quieti mutamenti
da ora a ora. Il cucciolo s’allunga
nell’orto presso l’angolo, s’appisola.

Un fuoco così mite basta appena,
se basta, a rischiarare finché duri
questa vita di sottobosco. Un altro,
solo un altro potrebbe fare il resto
e il più: consumare quelle spoglie,
mutarle in luce chiara, incorruttibile.

Requie dai morti per i vivi, requie
di vivi e morti in una fiamma. Attizzala:
la notte è qui, la notte si propaga,
tende tra i monti il suo vibrìo di ragna,
presto l’occhio non serve più, rimane
la conoscenza per ardore o il buio.

(Da "Tutte le poesie", 1988)





RINTOCCA MESTA LA CAMPANA AI MORTI
di Clemente Rebora (1885-1957)

Rintocca mesta la campana ai morti
nel ciel brumoso tutto prono a terra,
la nostra morte muore, e si disserra
al Ciel la vita in Cristo pei risorti.

(Da "Le poesie", 1994)





2 NOVEMBRE
di Cesare Vivaldi (1925-1999)

Le nostre idee di libertà e giustizia
sono solo fantasmi od illusioni,
Franco? Mi colma il cuore la mestizia
delle stagioni

che senza posa scorrono: e domani
conterò trentun anni. In mezzo ai morti
stendo le braccia, come un fico i rami
spogli sugli orti.

Così solo, così grigio, così
contorto! E tutto avanti a me si fonde
in una nebbia: passato, avvenire,
presente. Fonde

malinconie m'assalgono, e non basta
a disperderle il riso delle donne,
non basta il vino, le ciarle, la lastra
rovente d'onde

nel bianco ristorante il cuoco toglie
la carne abbrustolita e me la porta
perché m'ingozzi. Saranno le foglie
secche, la morta,

gialla stagione che con esse trema
freddolosa sul cuore, il grido acuto
d'una tardiva rondine, l'estrema,
il suo saluto

lamentoso, che ancora «Iti» chiamando
dall'eco, «Iti» raccoglie. Mitologico
ricordo, da sorriderne pensando
me in antologico

cacciatore di fiabe trasformato.
E vedi, Franco, come per te scrivere,
a te pensando, m'ha rasserenato,
e forse a vivere

di nuovo in pace penso, di me stesso
sorridendo, con la facilità
dell'ironia, che è surrogato spesso
di libertà.

(Da "Poesie 1952/1992", 1993)





IL 2 DI NOVEMBRE
di Paolo Volponi (1924-1994)

Nella mia capitale di campagna
oggi ancora più fitta sale
la nebbia dalla porta di Lavagine,
la porta che guarda verso il mare.

Restano fuori i contadini a seminare
e qualche frate verso gli Zoccolanti.
Dopo la semina si chiude l'anno;
il resto è uguale,
oppure una gran voglia di pane.

(Da "Poesie 1946-1994", 2001)

venerdì 31 ottobre 2014

Ognissanti in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Oggi è iniziato novembre: è il giorno di Ognissanti. Dopo essermi alzato, ho tirato su la serranda della mia stanza ed un bel sole mi è apparso. Probabilmente oggi non pioverà, e non mi pare che faccia tanto freddo. Uscirò allora, per fare una passeggiata in campagna. Mi piacciono i paesaggi autunnali, soprattutto dove domina la natura. Amo anche i colori delicati dell’autunno, e adoro il mese di novembre. Non mi ricordo un novembre triste nella mia vita: l’undicesimo mese dell’anno si è sempre rivelato tranquillo, in tutti o quasi i suoi trenta giorni. Della festa di Ognissanti ho pochissimi ricordi, quasi tutti risalenti ai tempi della scuola elementare, quando, il giorno prima, la suora-maestra ci parlava dei santi italiani più famosi, e in particolare di San Francesco. Sì, oggi uscirò per fare una lunga passeggiata, perché novembre, quest’anno, è iniziato proprio bene.




PRIMO NOVEMBRE

di Jacopo Bocchialini (1878-1965)

Pioggia dei Santi, fortuna dei morti,
anche se ai vivi dispetto tu porti!
Men calpestate le povere aiuole,
meno eleganza a la luce del sole.
Ceri bagnati, angustia repressa;
fiori sgualciti, preghiera sommessa.
Pianti in silenzio, occhiaie profonde,
ombre fugaci e anime monde.
Chi passa? Un vecchio che cerca sotterra
l'ultimo figlio che gli è morto in guerra.
Galleria scura: che pena cercare,
guardar dovunque, e invano guardare!
Un corpo a terra: un velo, un affanno...
Quella è una mamma... Così tutto l'anno.
Tutti in silenzio, tutti raccolti:
stanche le spalle, maceri i volti.
Un sol legame: dolore e preghiera,
cuore che spera, cor che dispera.
Così su tutto la pioggia dei Santi,
su vane gioie e su animi infranti.

(Da "Nido nella siepe", 1921)





ET OMNIBUS SANCTIS TUIS
di Giovanna Fozzer (1932)

Risalire
per i rami di quell'albero
che si affolla di
fisionomie antiche

Ignazio Alessandro Marcellino Perpetua
Agata Lucia Agnese
Cecilia Anastasia
Luciano Camilla Paolina Luigi
Mariapia Clementina Giovanni

volti coraggiosi
fatiche generose
fino al martirio.

(Da "Un tuffo al cuore", 1998)





OGNISSANTI
di Corrado Govoni (1884-1965)

Ognissanti! Domenica! La pioggia 
sembra che tessa de le funebri ghirlande... 
Sul marciapiede tra la noia roggia 
s'affretta una chiassosa squadra d'educande. 

Soffia il vento. Domenica! Ognissanti! 
giorno de gli ineffabili preparativi 
e dei pellegrinaggi ai camposanti 
coi cuscini di verdi e rossi semprevivi! 

Lo stellato del vecchio gelsomino 
odora nel testo dal fodero di vaio. 
Tra il fruscìo de le foglie, nel giardino 
bagnato (è il pomeriggio) ferve il passeraio. 

I vetri de la stanza a gli insistenti 
sbruffi raggrinzano i loro pomelli smorti; 
e le campane da tutti i conventi 
recitano l'ufficio a lutto per i morti. 

(Da "Armonia in grigio et in silenzio", 1903)





GIORNO DEI SANTI E IL CIELO DI NOVEMBRE
di Margherita Guidacci (1921-1992)

Giorno dei Santi e il cielo di Novembre
Riflesso nell'asfalto delle vie
Inondate di pioggia, due grigiori
Paralleli ad opprimere lo sguardo
Dovunque cerchi fuga. La città
Sembra di piombo e cenere, ed il crudo
Lampo dei fari rende più spettrali
I visi dei passanti. Lente scorrono
Le ore in questo scroscio
D'acqua, tra schizzi brevi
Di fango e il volteggiare
Di foglie marce dai giardini. È arduo
Oggi pensare al Paradiso: tutto
Ci riconduce e prostra sulla terra.
Occorre troppa fede a superare
L'alta barriera di tristezza. Facile
Sarà invece domani, nella scia
D'una stagione di disfacimento,
Ricordare la fine d'ogni carne.

(Da "Le poesie", 1999)





OGNISSANTI
di Nicola Moscardelli (1894-1943)

La prima neve ingemma la terra ma non riesce ad acchiarire l'aria.
Di là dal velo che ci infrena la vista le legioni invisibili degli Angeli esultano e paiono costellazioni improvvisamente alate.
La cima dell'ala dell'uno tocca la cima dell'ala dell'altro.
Nemmeno la neve del monte che solo la luna sfiora col suo lume è candida come quell'ala.
È un fuoco circolare che arde senza consumarsi.
Nemmeno il più puro pensiero è puro come quel fuoco.
Odono in sonno i fanciulli un gran trascorrere d'ali e l'anima loro è presa nel vortice e attorta a somiglianza d'un fiore.

(Da "Le grazie della terra", 1928)





OGNISSANTI DEL 1906 (A MARIA)
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Son tutti i Santi, e in cielo è la tempesta.
È la tua festa, ma il tuo viso è smorto.

Dolce sorella, non piegar la testa
come gli smorti fiori del nostro orto!

Sorella pia, non esser così mesta
come son mesti i fiori che ti porto!

Suonano, senti, le campane a festa!
Suonano un poco, e poi... suonano a morto!

(Da "Poesie varie", 1912)





SANTI
di Mario Rivosecchi (1894-1981)

Nivee le spume
nell'impeto opaco dell'onda;
nel fragore, silenziose, lievi;
fra le rupi, un mito.

Santità, azzurro stelo
dai contorti rami,
tremule foglie e fiori;
sopra la terra scura
vaste carezze di spighe.

Santità, umano fiore
grappoli di stelle
sui mondi neri.
Dalle impervie catene,
fluido polle e fiumi.
Santità, sorgente viva
pargoli, cielo
luce entro le case.
Santi di povertà,
santi di umiltà,
santi di carità,
figli dell'uomo,
creature di Dio, Santi
tornate alla terra.

(Da "Foglie sul mare", 1948)





I SANTI
di Roberto Rebora (1910-1992)

La cattedrale si piega nell'aria magica
dove ombre s'innervano nel gioco
consueto del cuore: un moto naturale
nel rapido chiarore dell'avvento.
Maturano gl'animi una foresta ondosa
di figure distanti accanto alla perenne
morte dell'ora.
Oggi l'albero lascia le foglie, mansueto.

(Da "Della voce umana e poesie inedite", 1998)





PREGHIERA PER IL GIORNO D'OGNISSANTI
di Brunello Rondi (1924-1989)

Mai la luce del mondo è stata tanto
bianca come in questo giorno
d'inverno. Le campane
pur ora in questo tenero
acclamare parevano non l'ombra
delle sagrestie ma il suono
stesso della maturità del mondo, il gesto
che romperà il suggello delle messi al giorno
pieno d'estate. I ragazzi
col sangue in questo rombo odo parlare
sulla strada come se una nuova
stagion battesse chiara nei pensieri o il cielo
monumentale come albero mostrasse
i frutti. Vieni a casa
dico piano al mio Dio guardando in petto
me stesso e in questa luce
frequentaci come sale al profondo
cielo degli uomini un volo altissimo
di gru confuse con le nuvole o il rombo puro
del tuono annuncia un movimento
del cielo e della luce che saprà venire in pioggia
sulla terra. Visitaci, come risale dall'Oriente
il sole o ritorna sulla donna
lo sposo, e questi uomini (ch'io,
sono) illumina e nutrisci tu con la luce
ch'è grano, e governa con l'amore
ch'è semenza e caldo soffio dei venti. Ti cerco dove
i popoli si pongono in antiche
e soprattutto nuove posizioni
di giustizia come il vegetale
si accomoda alla luce per mostrare
la propria faccia e alla foresta
far posto. Ti cerco nella pace
dei pastori col loro gregge ma soprattutto in fondo
alle assise degli uomini che fanno
regole per i propri simili. La legge
matura, se vuoi, nel vulcano di sapienza
del tuo azzurro, ove ti vedono segreto
i fanciulli, ma tempera nel muto
equilibrio d'ogni giorno i legami che nascono
agli acuti profili delle ore tra uomo e uomo e insegna
con la fiamma del sole che si spande identica
in tutti i meandri del cielo come l'uomo
è uguale al proprio simile e quei bracieri
che in sé trattengono cupide fiamme mentono
il tuo nome. Non amare i nuovi
traditori della tua prima patria
originaria ch'è il corpo dell'uomo, il tuo Cristo, se dicono
che il suo avvento è dei cieli e in questa magra
meraviglia del mondo non ti ospitano, profondo
come se tu abitassi per Noi e nelle intime
camere della terra nostro amico dei giorni migliori.
E non mi tolgo agli umili
dialoghi della sera quando intorno
alla cena del giorno diventato
pane gli uomini si dicono
le parole più calme se ti parlo
così: «Dio mio fratello e padre
meraviglia dei credenti ma del tutto
domestico come alla grande solitudine
amorosa degli sposi il lor tetto od il mare
ai marinai, dialogo dei labbri
più intimi, parola detta al caldo
dell'orecchio e più lenta di quante mai parole
han detto gli uomini, mio infinito
amico sempre eguale e pur così
nuovo, Dio di fedeltà, d'origine
dolorosa e di memoria, Dio di passione
espressiva e Dio di musica, se i suoni
il Crocifisso indovinano nelle
braccia aperte del suo silenzio, Dio della cenere
e del ritrovamento e dunque Dio del focolare
e del fuoco, Amico degli amori e anche
Primo amante, sorveglia, ravvedi
tempera, correggi
e custodisci, spaventa, rasserena
illumina metti spegni abbandona
governa traduci dimetti
assalisci trasporta tramuta».

(Da "La giovane poesia", 1957)




TUTTI I SANTI
di Antonello Satta Centanin (1967)

Se fossero davvero tutti, Ilario
Fidanza, noto barman di Viggiù,
avrebbe il posto suo nel calendario,
e lo si stimerebbe un po' di più

Di adesso che ogni volta che abbandona
il bar per espletare le funzioni
qualcuno lo deruba. «Vai in mona!»,
è quello che gli dicono. Ragioni

Che valgano la canonizzazione?
Il rassegnato scuotere la testa
nel preparare un'altra colazione,

nel traghettare con anima mesta
sua discendente anodina legione
degli avventori dentro la foresta.

(Da "Poesia contemporanea. Quarto quaderno italiano", 1993)

martedì 28 ottobre 2014

I cimiteri in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

Tombe su tombe, ve ne sono dappertutto qui, in questo luogo che ispira una calma ineguagliabile. I morti, in realtà, non sono qui, né in un altro luogo. I morti sono scomparsi per sempre, o sono tornati dove erano prima che nascessero: nel nulla. Allora io, quando visito un cimitero, mi diletto a guardare le foto presenti sulle tombe, con le date di nascita e di morte. Ovviamente, rimango colpito quando scopro qualcuno che è deceduto prematuramente, e mi chiedo quale possa esserne stato il motivo. Guardo con curiosità anche i fiori sulle tombe: grandi, piccoli, finti, secchi… E poi i lumini rossi, i pupazzetti, le statuine e chissà quali altri oggetti che qualche parente ha voluto aggiungere nei pressi della tomba di un caro venuto a mancare. Ci sono anche delle frasi, che naturalmente leggo, rimanendo, a volte, perplesso. Amo i cimiteri, perché sono luoghi tranquilli, silenziosi, ordinati, puliti e spesso semideserti. La compagnia dei morti (che se non ci sono) è di gran lunga preferibile alla compagnia dei vivi.




DOLCE DORMIR COSÌ

di Vittorio Betteloni (1840-1910)

A me grato è il pensier, che sotto queste
zolle solinghe avrò riposo un giorno,
ne 'l camposanto umile, a 'l quale agreste
ride Natura sì benigna intorno;

ne 'l camposanto de 'l villaggio, appresso
a 'l padre mio, che qui spontaneo scese,
e de le pene, onde fu in vita oppresso,
a quest'amica terra il termin chiese;

qui accanto a 'l padre dormir voglio anch'io:
né lunge Pietro a riposar qui venne,
il buon fattor, che sotto il tetto mio
già nacque, e vi morì più ch'ottantenne.

Dolce dormir così! Sorgon là dietro
densi i colli di viti e d'uliveti,
dinanzi il lago, come terso vetro,
brilla del sole a i caldi raggi e lieti.

Ultimo asilo d'un poeta è questo
degno davver, fra tanto di Natura
almo sorriso, e degno d'uom modesto,
che oscuro visse, ed avrà morte oscura.

Dolce dormir così, tra l'umil gente,
tra pescatori e tra coloni: io molti
conobbi e amai di questi; e di frequente
stavo con essi intorno a me raccolti,

a ragionar de 'l più e de 'l men; d'amene
oppur di gravi cose: e perché peggio
di me vestiano, e discorrean men bene,
non usavo io però porli in dileggio,

né disprezzarli. Oh! non pensate; allora
che anch'io discenda sotto il verde suolo,
io, come voi, ne l'ultima dimora,
vestito non sarò che d'un lenzuolo,

e non de 'l bel parlare avrò il vantaggio,
che tanto, in vita, sopra voi mi tenne:
qui tutti parleremo egual linguaggio,
de 'l silenzio il linguaggio alto e solenne:

che rotto sol sarà una volta a l'anno,
ma non da noi, quando co i primi algori
de 'l vicin verno, a qui pregar verranno,
e qui i nostri congiunti a sparger fiori.

Dolce dormir così, ne la secura
pace de' campi, in grembo a l'ubertosa
terra, che il vino e il mite olio matura,
lungi da la necropoli fastosa,

lunge da i marmi e da le sculte moli,
fra l'umil gente pria di me qui scesa,
non obbliato, in morte, da que' soli
pochi per cui fu la mia vita spesa.

(Da "Poesie edite e inedite", 1946 )





PAX
di Giovanni Camerana (1845-1905)

L’anima triste dice al corpo affranto:
“Meglio è lasciarci, o misero!”
E una voce laggiù dal camposanto
“Vieni!” par che mi mormori.

Sento attirarmi nella sua malìa
Quella chiostra funerea,
Come se intenta la pupilla mia
Guardasse una voragine.

Sento alle nari ascendermi soavi
Gli effluvi sotterranei;
Sento il tumulto degli istinti pravi
Dileguare in quel balsamo.

Al fastidio del sole, alla stanchezza
Che l’azzurra vertigine
Mi spiove, sento sottentrar l’ebbrezza
Strana del fuoco fatuo.

Un poco d’erba, un po’ di terra smossa,
Un cataletto squallido;
E sull’ospite immoto de la fossa
Un tranquillo sudario;

In eterno svaniti e gaudii, e ardenti
Baci, occhi bruni e ceruli;
Ma svaniti in eterno anche i tormenti
Dell’affanno e del tedio;

In quel gelido oblìo soli compagni
Aver gli orrendi lòmbrici;
Ma non più nelle viscere i grifagni
Strazi patir dell’odio;

A poco a poco diventar l’informe
Orgia de la putredine;
Perdermi a poco a poco nell’enorme
Caligine degli atomi...

È questo il sogno mio; questo il pensiero
Che un sorriso mi suscita
Allor ch’io veggo uno scheletro nero
Apparirmi al crepuscolo.

Dunque schiudasi l’urna. E tu m’appresta,
Sorella, amica ed angelo,
Coi fiori che orneran la bara a festa,
L’amplesso tuo più splendido.

Voglio morire come il sol si muore
In braccio dell’ocèano;
Voglio morir nell’ocèano d’amore,
Morire in braccio all’estasi!...

Al mio frale talvolta il cor ti guidi.
E là, se il duol ti soffoca,
Muta commedia, e sul mio capo ridi;
Io nol saprò, quel ridere!...

(Da "Poesie", 1968)





AL CIMITERO DI GHEVIO
di Felice Cavallotti (1842-1898)

Biancheggia tra ’l verde sul culmine
Il picciol recinto sagrato...
Appare, scompare tra gli alberi,
Qual bianco fantasma appiattato...

— Sorella, non senti pel calle
Che lungo di frondi stormir?
E lenti quassù da la valle
I canti del vespro salir?

Sorella, già fresca è di vespero
La brezza... già l’ama s’oscura...
A valle, giù a valle ne aspettano...
De’ morti non hai qui paura?

Se ad essi qui dài la preghiera,
La nonna non chiede di più...
Tu soffri... e già fredda è la sera...
È l’ora di scendere giù. —

— Oh, l’ombre che a valle si stendono
A me son cortesi e son pie:
M’è cara la brezza di vespero,
Mi porta sì dolci armonie!

Un canto di fiori sì mesto
La nonna qui or or mi narrò...
Discendi, fratello... io qui resto...
Dei morti paura non ho.

Te triste! che a valle t’aspettano
I giorni di cantici privi!
Oh, no, non dai morti che t’amano,
Ti guarda, fratello, dai vivi!

Non dalle memorie che pia
La terra per sempre coprì:
Da l’altre, da l’altre ti svia
Che vive passeggiano al dì!

Te triste! non ora di requie
Per te non è l’ombra che cade!
Non dolce a te farmaco piovono
Le molli notturne rugiade!

Nell’ora che il piangere è bello,
Nell’ora che è dolce obliar,
Tu torni, tu torni, o fratello,
Sul labbro lo scherno, a lottar!

Pur io te l’ho vista la lagrima
Che lenta dal cor ti salìa:
Io sola t’ho visto nell’anima
La fitta che il riso mentìa!

Oh dolce, fra il nulla de’ giorni,
Non rider, non fingere più!
Te triste, che al mondo ritorni,
Che a fingere torni laggiù!

Ma quando la tacita lagrima
Laggiù, fra le pugne, dia schianto,
E rompa all’eterno fantasima
Ch’è teco, le fonti del canto,

Qua, in vetta, alla margine bella
Non giunge di tristi rumor!
Qua riedi, alla morta sorella
Che dorme tranquilla tra i fior! —

Biancheggia tra ’l verde sul culmine
Il picciol recinto sagrato...
Appare, scompare tra gli alberi,
Qual bianco fantasma appiattato...

Scompare nell’ombra... Gemendo
Fa il vento le frodi stormir...
Addio, mia sorella! io discendo
Il triste mio fato a compir.

(Da "Il libro dei versi", 1921)





UMILI CROCI DI LEGNO
di Giovanni Cena (1870-1917)

Umili croci di legno,
brune recenti, grige antiche, segno
di dolori obliati nei riposi perenni,
errai tra voi come in calvario antico.
Un giorno dell'autunno qui riverente venni,
un giorno bianco al pari di canizie giuliva,
in cui Natura assume l'aspetto virgineo, pudico,
quasi d'una rinascita. Veniva
il padre accanto faticosamente.
Non era ancor la croce di lei. Sostò repente,
chinossi e ricordando impallidì:
«È qui...»

Egli si pose a ginocchi.
Radi fili ingiallivano sopra la terra nera.
Mi si velaron gli occhi;
ma non dissi, com'egli, la preghiera
consueta. S'udiva tristissimo dal rio
vicino un mormorio
qual d'umane parole.
Ma il cielo era sì bello, sì prodigioso il sole!
Guardai intorno i campi sterminati,
e le foreste gialle che sul fiume sonoro
parevan tutte d'oro, e i tersi monti,
che già nevosi, tra nubi di fiamma
splendeano quali fronti
alto levate in un'apoteosi:
e dal soggetto borgo sùbiti scampanii
ruppero. Trasalii:
«O MAMMA,»

sclamai: «A TE FIN CH'IO VIVA
LA FESTA DELLA VITA CH'HAI DONATA
CON DOLORE E PERDUTA TROPPO IMMATURAMENTE
E QUESTA VOCE UMANA DI GIOIE E DI SPASIMI VIVA
E IL PALPITO ROMPENTE FUOR DELL'ABISSO ENORME
E I COLORI E LE FORME
E QUEL CHE VIVE NELLA VITA E FUOR DELLA VITA
E QUEST'ANIMA MIA, QUEST'ANIMA MIA CHE S'ACCENDE
COME UN ASTRO ED ASCENDE
VERSO I CIELI SERENI DELLA LUCE INFINITA
PER SEMPRE».

(Da "Poesie", 1922)





AL CIMITERO
di Augusto Ferrero (1866-1924)

Sempre ch'io ti costeggio, o camposanto,
ove i miei nonni giacciono sotterra,
nel pensier della morte il cor si serra.
Dormir laggiù, sotto le zolle ignote,
che la bufera oltraggia e il sol percote,
né dei vivi ascoltare altro che il pianto...

Non più sentir gli uccelli a primavera
e l'infrondarsi de' novelli maî
tutta la mite fragranza de' rosai;
né intenerirsi alla calante sera,
quando sui colli ottobre impallidisce,
e si colora il bosco a varie strisce...

Il bacio di mia madre la mattina
più l'augurio pel dì non mi darebbe,
onde il collegio agli anni verdi increbbe;
né, come oggi, d'un palpito segreto
tremante mi farei, mi farei lieto,
per una fronte a salutarmi inchina...

No! Vo' vivere ancor! Sole ed amore,
gloria ed amor vogl'io sul mio sentiero,
sempre bramati al fervido pensiero.
Voglio vivere ancor. Voglio agitarmi
nella lotta dell'opere e dei carmi,
dovesse infranto rimanervi il core!...

Così, s'io ti costeggio, o camposanto,
o ai mesti giorni varco le tue porte,
non mi parla desìo vile di morte.
Penso degli avi la virtù, la gloria,
ond'ei vivono ancor nella memoria
e di noi nel durevole compianto.

Virtù, gloria vo' anch'io. Tenera faccia
di mia madre, sorridimi lunghi anni,
confortatrice ne' stringenti affanni.
Tu sorridimi ancor, pallida imago,
occhi limpidi come acqua di lago,
che in me lasciaste incancellabil traccia.

Meglio viver così, voi ripensando,
degne di voi serbando opre e pensiero,
o miei nonni giacenti al cimitero,
che questa nostra età, piagnucolando
seguir nei dubbi e nella brama imbelle,
maledicendo alle inimiche stelle.

(Da "Nostalgie d'amore", 1893)





NEL CIMITERO DI PADOVA
di Antonio Fogazzaro (1842-1911)

I.
Seguii dentro le arcate al mondo ascose
D'una lanterna spenzolata il lampo.
Vi sapea di putredine e di rose;
Fuori piovea sul tenebroso campo.

Era freddo, era scuro e la pensai
Adagiata nel torrido fulgor
Del suo salotto, porger la mirai
La sigaretta in alto e il suo vapor,

Lieve lieve blandirsi il negro fiume
Della chioma possente in se ritorta,
Abbandonar al molle boa di piume
Lenta la mano come spoglia morta.

Mirai cangiar i grandi occhi sinceri
Col vento che nel cuore or viene or va,
Dolci dolersi ed oscurarsi austeri,
Dar vampe ora di orgoglio or di umiltà.

Con subito la vidi impeto onesto
Levarmi incontro il volto acceso e scuro,
Pria di parlar con disdegnoso gesto
Significando il suo pensier sicuro;

E la viril parola udii vibrata
Che mai non scese basso né mentì.
Si arrestô la lanterna spenzolata,
Disse una voce indifférente: «è qui.»


II.
Davanti una piramide di fiori
Ginocchion sul funereo pavimento,
Acceso nel pregar parvi di fuori;
Dentro ero tutto un gelo di sgomento

Perché attraverso i sigillati marmi
Ella veniva lentamente in me
E la sentivo attonita guardarmi
Nel più occulto dell'anima; perché

Troppo indegno a me stesso si scoverse
Nello sguardo di lei l'occulto mio,
L'occulto che il mio labbro non le aperse,
Ch'ella non seppe, che sol vede Iddio.

Si rigirava torbida, inquieta,
Amara la Invisibile laggiù
Senza voce dicendo: ecco il poeta,
Ecco l'altezza ed ecco la virtù!

Allora le parlai: o fiera, o forte
Anima che ti offendi, abbimi a sdegno!
Ma poi che nella notte della morte
Mi dai del viver tuo sicuro segno,

Di' se quando lo spirito e l'Eterno
lo confessai veemente illusa t'ho.
Mi rispose la triste dall'interno:
So che soffro e che spero, altro non so.


III.
Ritornai alle tenebre piangenti;
Vi sapea di putredine e di rose.
Per chiarori e clamor di vie frequenti
Camminai dentro arcate al mondo ascose.

Nel treno in fuga ella salì, si assise
A me di fronte, lenta disvelò
Il volto, lagrimando mi sorrise:
So che soffro e che spero, altro non so.

(Da "Le poesie", 1908)





QUIETE LUNARE
di Arturo Graf (1848-1913)

Nel gemmeo seren del firmamento
La luna tersa, radïosa, brilla,
E gli ermi campi innonda e la tranquilla
Immensità del suo lume d’argento.

Fronda non trema, e non trafiata il vento,
Muto fra l’erbe il picciol rio sfavilla;
Un usignuolo innamorato trilla
Sopra una rama il suo dolce lamento.

In fondo al ciel due nuvolette stanche
Vanno insieme alïando, e d’un leggero
Sogno in balia mutan l’aeree forme.

Laggiù laggiù, con le sue croci bianche,
Co’ suoi negri cipressi il cimitero
Nella quiete luminosa dorme.

(Da "Le poesie", 1922)





UNA VOCE 
di Luigi Gualdo (1847-1898)

Era deserto il vasto cimitero, 
Nella pace suprema silenzioso; 
Qua e là pel verde prato, maestoso 
S'alzava un monumento alto e severo. 

E tra una fila di cipressi tristi 
Stavan gli umili avelli al par sacrati; 
Molti che qui passarono obliati 
Alfin dormivan là cheti e non visti. 

Pendean dal tempo scolorite e storte 
Le antiche croci in legno nero - rotte 
E infracidile ognor dalle dirotte 
Pioggie inondanti il campo della morte.

Qualcuna si vedea su cui d'affetto 
Ultimo pegno stava ancor posata 
Una ghirlanda misera e sfiorata 
Che la mestizia ne risveglia in petto. 

Coperte di mal erbe e insiem d'oblio 
Altre vedeansi ove taceano i lai: 
Stavano là da niun compiante mai, 
Con le due nere braccia aperte a Dio. 

E nel vento spirante intesi voce 
Lugùbre e fioca da una tomba uscita: 
Era suon che venìa dall'altra vita: 
Mi piegai per udir sovra la croce. 

- «O voi felici cui riscalda il sole!... 
Dimmi, mortal, che fate ancor tra i vivi? 
O voi che avete il cielo, il mare, i rivi, 
La terra, i fior, le piante, e le parole, 

«Sospirate? Piangete ancor? Sperate? 
Che fate là? V'amate ognor? Gioite? 
Ancor chiedete al tempo le infinite 
Gioie fuggenti già in dolor mutate? 

«Ai raggi incantatori della luna 
Sentite ancor le bramosìe nascose? 
Sonvi le selve ancor? Sonvi le rose 
Ch'esalano l'amore ad una ad una? 

«Ti parlo qui, mortal, dall'altra riva, 
Dalla riva ove il vero è senza velo. 
Mi appar chiara la terra e aperto il cielo, 
Benchè giaccia quaggiù di luce priva. 

«Son qui da sola, in questo avel, gelata 
Ultima stanza ove s'attende Iddio, 
- Verrà l'anime a scioglier dall'oblìo 
Dell'angelo divino la chiamata? 

«Ma fino allora, oh! quanto è questa cella 
Gelido albergo per il corpo stanco! 
 -Rigida sta nel suo lenzuolo bianco 
Colei che un giorno fu chiamata bella.» 

Gorgheggiavano intanto gli augelletti 
Smentendo tutte le tristezze umane. 
Splendeva il sol sulle iscrizioni vane, 
Sui nomi già scordati - o benedetti. 

Mormoravan le piante all'aura estiva, 
E volsi il guardo al calmo firmamento, 
Limpido come il ver, pien di contento, 
Eterno sulla vita fuggitiva. 

E dissi allor: Sognai. La tomba tace. 
La tomba è vuota. In tutto il cimitero 
Compie natura il suo vital mistero; 
Sorgono fiori dal terren ferace. 

È lieto il cimiter, natura è lieta, 
Il dolore è nell'uomo e nella vita. 
Il resto è pien della gioia infinita, 
Della gioia immortale a noi segreta, 

O voce ch'io credeva udir dal suolo 
Sorger vêr me con un mesto susurro, 
Piomba dall'alto invece e per l'azzurro 
Fino quaggiù discendi ratta a volo!

Volsi lo sguardo al ciel - l'orecchio invano 
Tesi aspettando l'implorata voce. 
Scordavo il duol della vicina croce, 
Ma il verbo non venìa dal ciel lontano. 

(Da "Le nostalgie", 1883)





IL PESCO 
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Penso a Livorno, a un vecchio cimitero 
di vecchi morti; ove a dormir con essi 
niuno più scende; sempre chiuso; nero 
              d’alti cipressi. 

Tra i loro tronchi che mai niuno vede, 
di là dell’erto muro e delle porte 
ch’hanno obliato i cardini, si crede 
              morta la Morte, 

anch’essa. Eppure, in un bel dì d’Aprile, 
sopra quel nero vidi, roseo, fresco, 
vivo, dal muro sporgere un sottile 
              ramo di pesco. 

Figlio d’ignoto nòcciolo, d’allora 
sei tu cresciuto tra gli ignoti morti? 
ed ora invidii i mandorli che indora 
              l’alba negli orti? 

od i cipressi, gracile e selvaggio, 
dimenticàti, col tuo riso allieti, 
tu trovatello in un eremitaggio 
              d’anacoreti?

(Da "Myricae", 1900)





AMORE MORTO
di Remigio Zena (Gaspare Invrea, 1850-1917)

Lisa, se è ver che i morti a mezzanotte 
       Raccolti stinchi ed ossa 
       Escano dalla fossa, 

E vadan brancicando fra le rotte 
       Croci del Camposanto 
       Non bagnate di pianto,

Che ogni morto scordato e solitario 
A cui mancan dei vivi le preghiere 
Debba dir per se stesso il Miserere,
Lisa, tu puoi restar nel tuo sudario, 
Perchè la mamma tua tutte le sere 
Dormicchiando ti brontola il rosario 
E al Curato io fui lesto a provvedere 
Quattro scudi pel primo anniversario.

(Da "Poesie grigie", 1880)