domenica 1 marzo 2015

Marzo in altre 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

MARZO
di Giorgio Caproni (1912-1990)

Dopo la pioggia la terra
è un frutto appena sbucciato.

Il fiato del fieno bagnato
è più acre - ma ride il sole
bianco sui prati di marzo
a una fanciulla che apre la finestra.

(Da "Poesie 1932-1986", Garzanti, Milano 1989)





MARZO
di Vincenzo Cardarelli (1887-1959)

Oggi la primavera
è un vino effervescente.
Spumeggia il primo verde
sui grandi olmi fioriti a ciuffi
dove il germe gia cade
come diffusa pioggia.
Fra i rami onusti e prodighi
un cardellino becca.
Verdi persiane squillano
su rosse facciate
che il chiaro allegro vento
di marzo pulisce.
Tutto è color di prato.
Anche l'edera è illusa,
la borraccina è più verde
sui vecchi tronchi immemori
che non hanno stagione,
lungo i ruderi ombrosi e macilenti
cui pur rinnova marzo il grave manto.
Scossa da un fiato immenso
la città vive un giorno
d'umori campestri.
Ebbra la primavera
corre nel sangue.

(Da "Opere", Mondadori, Milano 1981)





MARZO
di Arturo Onofri (1885-1928)

Marzo, fanciullo dal lungo sbadiglio,
i tuoi capricci incantevoli
come risa dopo le lacrime
sono trastulli di nuvole e sole.
Col tuo fresco fiato che sa di viole
appanni il verde novizio dei colli,
l’impiumo leggero degli alberi,
per poi rischiararli improvviso.
E il giuoco delle tue dita
dipana il groviglio del cielo
fra nero e sereno,
come in noi rifluisce e s’arresta la vita
divagando sospesa al tuo riso.
Scherzi col nostro cuore,
fanciullo dal lungo sbadiglio,
come fai sulla proda dei campi
con le piccole stille
che le accendi in minuscoli lampi,
per oscurarle di nuvole.

E il fiume che lento induce
i rilievi assolati della terra
verso il sospiro stanco della sera
accompagna il dolce belato
delle pecore al pascolo
secondo le curve indistinte dell’anima
che sogna in se stessa
e sorride al suo proprio pianto,
come te, fanciullo dal lungo sbadiglio.

Ma quando è calato il sole
e resta ancora un chiarore
nell’aria stanca di giuochi,
ecco un soffio più ilare
sgombra il sereno di tutte le nuvole,
e un filo di luce appena
pian piano tira su dall’orizzonte
fin sull’orlo del piccolo colle
la grande luna piena
che s’impiglia fra i rami senza foglie
della rossa robìnia tutta corolle,
come un gran frutto di luce
in mezzo ai suoi fiori.

Allora l’alta pausa notturna
addormenta la terra
dalle montagne lontane,
che sognano ancora turchino,
fino al gorghéggio romito
dell’usignolo fra i lecci,
che saluta il risveglio dell’infinito.

(Da "Arioso", Casa d'Arte Bragaglia, Roma 1921)





MARZO
di Giovanni Papini (1881-1956)

Sole di marzo e polverio di strade
sulle cascie e sul bòssolo patito
ne' vecchi prati margherite rade;
un melo bianco, primaticcio invito

al riprincipiamento intempestivo
d'ogni passione. E par che le sue palme
già protenda alla Pasqua il buon ulivo
che i rami torce sulle piogge calme.

Nel gran cielo di stagno liquefatto
di nuvoli leggeri una famiglia
taglia candidamente il campo intatto
come una primitiva meraviglia.

Un color di stanchezza solitaria,
d'umiltà consolata, di piacere
promesso e di rammarico è nell'aria,
quasi cenere d'altre primavere.

Nell'anime al calore disavvezze
tornano in compagnia memorie e voglie
e tutte le scordate tenerezze
come su' rami giovani le foglie.

(Da "Pane e vino", Vallecchi, Firenze 1926)





MARZO
di Alessandro Parronchi (1914-2007)

La brina s'è crettata sulle labbra dei campi 
e già il vino dell'alba s'è versato nel fango
macinato dai carri. La carne fra le coltri
troppo al caldo s'affina: ma la bocca del forno
fiata sull'erba odore di farina.

Con dolore ora preme alle radici
il nero della terra, con dolore
l'acqua serra i ginocchi della roccia
entro ceppi di ghiaccio, dalla rossa ferita
del sole, già richiusa, in tumori viola
pallida nel segreto ora filtra la vita.

Si scioglie un suono d'organi, si sveglia alle gengive
l'aceto, nella stanza tutta luce di vetri
passa e ripassa la mamma in faccende
come vista nel cavo d'una lente.

Senti come se tutti in te si riconoscano
veri ma tu non possa riconoscerti in loro.
Sei vivo, ma di terra. Nei cavalli che vanno
vedi il cielo che fuma vedi il giorno di nuvole.

(Da "Diadema. Antologia personale 1934-1997", Mondadori, Milano 1998)





MARZO
di Francesco Pastonchi (1874-1953)

Ieri, giochi di marzo, i praticelli
incipriati di neve e il Po nero;
oggi sereno che abbaglia su l'acque,
e le barche già cullano l'estate.
Torino, in una frale filigrana
d'alberi con le rivelate strade,
bella, e con quell'assistere di monti.

(Da "Endecasillabi", Mondadori, Milano 1949)





PRESAGI DELLA NUOVA STAGIONE
di Giuseppe Raimondi (1898-1985)

Marzo, 
che fai sbatter
le persiane alle finestre,
e nei giardinetti
vai risvegliando
le adolescenti
in blusa verde,
concedimi
di riposar la mia
freddolosa scontentezza invernale
sotto un cielo mattutino
di zaffiro,
ammorbidisci
la luce in fronte
alle bianche ville.

[Da "Poesie (1924-1982)", Scheiwiller, Milano 1999]





MARZAIOLA
di Mercurino Sappa (1853-1926)

Già da la neve fuor, che in sé trapela,
I petali sporgea bruni a guardare
Una mammola, un cuor nato ad amare,
Che nel tacito effluvio si rivela.

E un'alauda invisibil, che s'inciela,
In note diffondea squillanti e chiare
L'anima, che nel sole odi tremare,
E 'l mondo abbraccia e a l'infinito anela.

E quell'inno parea tutto fragrante,
E parea quel profumo una melode
Sopra la terra candida, aspettante.

Sentìasi un'aura di lontane prode
Nunzia di primavera in quell'istante.
L'anima delle cose apresi e gode.

(Da "Il manipolo", Streglio, Torino-Genova 1908)





MARZO
di Diego Valeri (1887-1976)

Marzo è lassù nella sua nuvola
di vento e sole, di fumo e argento.
Tu sei quaggiù nella tua favola
d'anima e carne, di gioia e tormento.

(Da "Poesie", Mondadori, Milano 1962)





ACQUERELLO DI MARZO
di Bruno Vignola (1878-1956)

Giù nella strada
sotto la mia finestra aperta su un cielo biadetto di marzo
c'è un subito stropiccio di passi.
M'affaccio: un funerale. Sul grande
carro ammantato di ghirlande
rosse batte ora un vivo sprazzo di sole
di questo sole così nuovo, così buono - - -
Va lento e grave il carro, e passa
con dietro il suo sommesso scalpiccio.
E c'è nell'aria un odore così strano:
di fiori:
come un filamento di primavera,
se non ci fosse insieme anche questo odor di cera:

che mi fa pensare al morto
che là in fondo, di via in via, fino al cimitero,
agli urti del carro che traballa
su l'acciottolato
tentennando i suoi pennacchi neri,
scrolla nell'inchiodato
buio della cassa
la sua ermetica faccia gialla:

ora... che su pe' muri dei giardini
bianchi di ghiaia a brune macchie di fresche aiuole
i glicini scuotono alla brezza
in fitti grappoli azzurrini
i loro mille bùbboli di odore - - -

(Da "Gamma", Taddei, Ferrara 1918)

venerdì 20 febbraio 2015

La raffinata poesia di Adolfo De Bosis

Nacque ad Ancona nel 1863 e ivi morì nel 1924. Laureato in legge, direttore di società commerciali, ebbe una fervente passione letteraria che lo spinse a fondare e a dirigere una prestigiosa rivista: Il Convito, pubblicata tra il 1895 ed il 1907. All'interno delle pagine del Convito si trovano, tra l'altro, molte poesie di Giovanni Pascoli che in seguito furono stampate nei Poemi conviviali. Ma anche De Bosis si dedicò alla scrittura di versi, con ottimi risultati. Già diciottenne pubblicò un volumetto di Versi, ma è del 1900 il suo libro più significativo: Amori ac silentio sacrum. La poesia di De Bosis fu definita da molti critici estetizzante; seppur sia impossibile negare ciò, va comunque sottolineata la grandissima abilità poetica dello scrittore marchigiano, che ebbe certamente delle simpatie nei confronti di D'Annunzio e di Pascoli, ma che comunque trovò il modo di esprimersi in maniera originale e squisita. Anche nei successivi versi, riuniti poi nel definitivo volume del 1914 e ristampato nel 1924, si trovano autentici capolavori poetici che purtroppo pochi oggi ricordano. Il De Bosis fu etichettato anche quale poeta decadente, preraffaellita e, addirittura, stilnovista. Ma è piuttosto da evidenziare che alcuni suoi versi mostrano peculiarità non distanti da quelle che si riscontrano nelle opere poetiche di due "mostri" della poesia mondiale, tra l'altro tradotti dal nostro: Percy B. Shelley e Walt Whitman. Insomma si può definire De Bosis un poeta molto bravo e completamente immerso nel suo tempo, capace di attingere, con ottimi risultati, sia dalla poesia nostrana che da quella straniera. Chiudo, dopo un elenco delle sue opere poetiche e delle antologie in cui è possibile leggere poesie di De Bosis, pubblicandone tre componimenti fra i miei preferiti.


Opere poetiche

"Versi", Pasqualis, Fano 1881.
"Amori ac silentio sacrum", Tip. dell'Unione Cooperativa Editrice, Roma 1900.
"Amori ac Silentio e le Rime Sparse", Studio Editoriale Lombardo, Milano 1914.





Presenze in antologie

"Dai nostri poeti viventi", 3° edizione, a cura di Eugenia Levi, Lumachi, Firenze 1903 (p. 137).
"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (p. 355).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. II, pp. 201-223).
"Antologia della lirica contemporanea dal Carducci al 1940", a cura di Enrico M. Fusco, SEI, Torino 1947 (pp. 317-318).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 200-202).
"I poeti minori dell'Ottocento", a cura di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955-1958 (vol. IV, pp. 238-241).
"Un secolo di poesia", a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957 (pp. 293-294).
"Poeti minori dell'Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Ricciardi, Napoli 1958 (pp. 1217-1227).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 145-148).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp.753-759).
"Secondo Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Zanichelli, Bologna 1969 (pp. 1224-1228).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (volume secondo, pp. 93-99)
"Poesia italiana dell'Ottocento", a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978 (pp. 472-476).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo primo, pp. 55-59).



Testi

ANIMA ERRANTE

Odoravano le viole
nel chiuso breve (rammenti?...)
e tra le nubi fuggenti
piovevano raggi di sole.

Tacevamo. Io dissi: "Morire".
Null'altro io dissi. Le cose
risposero elle, o rispose
un'eco nel core...? "Morire".

E d'intorno accennavan neri
cipressi al vento; le fronti
adamantine de' monti
si ergevan da lungi in pensieri

degni soli ne l'infinita
pace d'azzurro e di neve...
O doglia umana! E tu, breve
piangevole favola, o Vita!

E mi parve il mondo un altare,
a le cui soglie la nostra
anima errante si prostra,
ma un attimo solo, a pregare:

poi per una deserta riva
che non ha foce, obliosa
fluttua con ogni altra cosa,
per sempre, né morta né viva.

E per quella eterna fiumana
(deh leniente!) si sciolse
l'anima, via... Né si volse.
Tu, eri nel mondo; lontana.


"Anima errante" è la ventunesima poesia compresa nella sezione "Amori ac silentio" del volume "Amori ac Silentio e Le Rime sparse", Studio Editoriale Lombardo, Milano 1914 (pp. 59-60). Uscì anche nella rivista "Il Convito" del dicembre 1907. Molti critici hanno parlato, a proposito di questa lirica, di atmosfere pascoliane; ma a me sembra che questi versi, più che al Pascoli, siano vicini allo Gnoli (alias Giulio Orsini) di "Fra terra e astri".





ULTIMAMENTE...

Ultimamente, poi che il limitare
di giovinezza taciturno scesi,
odo per entro i miei spiriti illesi
pur di lunge la sua voce chiamare.

Però mi volgo, ad esplorar le chiare
vette ove indarno il mio gran sogno attesi
non già ch'io speri alfin mi si palesi,
scarso, omai, faro a mio selvaggio mare.

Ma temo forte aver lasciato in cima
d'un'erma torre, diva ospite sola,
Una che chiama, non mai scorta prima

E per lei ricercar dietro li sguardi
l'anima figgo; e d'ogni sua parola
non mi giunge che questa unica: TARDI.


Questa poesia, come la successiva riportata, uscì nel 1914 sia sul volume sopra citato, sia sulla rivista "La Riviera Ligure". Sono versi certamente malinconici, con, in più, una figura misteriosa personificata da una donna che chiama, da un'erma torre, il poeta, dicendogli parole non comprensibili a parte una: quel "tardi" evidenziato da lettere maiuscole, che riassume il rimpianto di "ciò che poteva essere e non è stato".





TORBIDA, LA NOTTE CALA

Torbida, la Notte cala,
con un brivido, da l'arco
del cielo. - Non odi l'ala
sua rader l'ombra del parco? 

Non trema vetta né stelo:
e l'anima perchè trema? 
Una tristezza suprema
fluisce dal muto cielo,

simile ad un tardo fiume
che tragga fra cupe rive
senza né rombo né lume
le vite nostre malvive.

E ne la notte silente
taluno (o il Tutto?) a ginocchi,
da' suoi smisurati occhi
piange, inconsolabilmente.


Colma di atmosfere misteriose, questa poesia può definirsi tra le più simboliste dell'autore. Per alcuni versi molto somiglia a certe liriche suggestive e lugubri di Arturo Graf; ma, come anche "Anima errante", non è lontana dall'ultimo modus poetandi di Domenico Gnoli.

mercoledì 18 febbraio 2015

Il fascino nella poesia italiana simbolista e decadente

Il fascino è qui riferito alla seduzione e alla bellezza tipicamente femminili, che nelle poesie dei simbolisti acquistano significati diversi. Sotto la fascinazione provocata da una donna si può nascondere l'essenza del male o, al contrario, lo splendore del divino. Una bellissima ragazza diviene a volte il simbolo della felicità; altre volte assume le caratteristiche del mistero che sovrasta il mondo intero. Una signora che possiede un fascino tutto particolare può essere collegata alla malinconia ed alla tristezza, essendo portatrice di una bellezza che mostra i segni del tempo ed è, quindi, prossima a sfiorire. Ci sono poi i ricorrenti riferimenti alla morte, che si mostra affascinante perché promette l'oblio e la pace eterna. Il personaggio leggendario maggiormente ricordato in questo contesto dai poeti simbolisti è senz'altro Salomé: incarnazione del fascino, dell'erotismo e soprattutto del male, visto che, in cambio della sua ipnotica esibizione, spietatamente e senza un motivo plausibile, chiede ad Erode la testa del Battista.



Poesie sull'argomento

Diego Angeli: "Ricordo di un giorno d'estate" e "Inno all'anima crepuscolare" in "L'Oratorio d'Amore. 1893-1903" (1904).
Sandro Baganzani: "Ave" in "Senzanome" (1924).
Gustavo Botta: "Madrigale" in "Alcuni scritti" (1952).
Alfredo Catapano: "Per giovane donna canuta" in "Dai Canti" (1929).
Francesco Cazzamini Mussi: "Desiderio della donna in lutto" in "Le allee solitarie" (1920).
Giovanni Alfredo Cesareo: "Gratiae plena" in "Le consolatrici" (1905).
Girolamo Comi: "Le furie di carezze non sentite" in "Lampadario" (1912).
Adolfo De Bosis: "Vien ne la notte..." e "Ben per quante costringe isole" in "Amori ac Silentio e Le rime sparse" (1914).
Luigi Donati: "L'Eletta" in "Le ballate d'amore e di dolore" (1897).
Vincenzo Fago: "Il bagno d'Egle" e "Torna forse l'antica melodia" in "Discordanze" (1905).
Cosimo Giorgieri Contri: "Il nostro sogno" in "Il convegno dei cipressi" (1894).
Corrado Govoni: "Incoronazione" e "Invocazione" in "Le Fiale" (1903).
Corrado Govoni: "Contrasto" in "Gli aborti" (1907).
Luigi Gualdo: "Resurrecta" in "Le Nostalgie" (1883).
Amalia Guglielminetti: "Fascini" in "Le Seduzioni" (1909).
Virgilio La Scola: "Speculum Danae" in "La placida fonte" (1907).
Giuseppe Lipparini: "Stephana" e "L'incantesimo" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Gian Pietro Lucini: "Idolo strano, sotto un padiglione" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Enzo Marcellusi: "Oh, la grazia, la grazia d'una bionda " in "Il giardino dei supplizi" (1909).
Tito Marrone: "Beatrix" e "Evocazione" in "Sonetti dell'estate e dell'autunno" (1900).
Tito Marrone: "Il fresco" in "Le Gemme e gli Spettri" (1901).
Mario Morasso: "L'Apparizione" in "I Prodigi" (1894).
Angiolo Orvieto: "Le due Etrusche" in "La Sposa Mistica. Il Velo di Maya" (1898).
Antonio Rubino: "Mare con onde" in «Poesia», ottobre 1908.
Emanuele Sella: "Nella notte illune" in "Il giardino delle stelle" (1907).
Emanuele Sella: "Monteluce" in "Monteluce" (1909).
Emanuele Sella: "Intus alit" in "Rudimentum" (1911).
Domenico Tumiati: "L'òmero", "Il braccio" in "Musica antica per chitarra" (1897).
Remigio Zena: "La conocchia" in "Olympia" (1905).



Testi

FASCINI
di Amalia Guglielminetti

Colei che a un riso di seduzioni
tutta sola sen va, volgesi e gode
or dei fascini belli ed or dei buoni.

Talora si sofferma e una sua lode
sorridendo susurra, ma sì piano,
che niuno fuor del suo silenzio l'ode.

Ascolta il mare urlar tragico un vano
suo amore, oppur gioisce in numerare
gl'intrichi delle vene in una mano.

Sosta in ansia d'attesa al limitare
d'un vecchio parco, oppur s'abbaglia al gioco
d'arcobaleno delle gemme rare

sotto rovesci calici di fuoco.

(Da "Le seduzioni", 1909)





MADRIGALE
di Gustavo Botta

Nel dorato mattino, altro non vidi
che la tua fronte pallida e i tuoi grandi
occhi, sotto le ciglia che son ali;
e la bocca rossissima, ove nidi
al desiderio schiudono i tuoi blandi
sorrisi, ed i capelli ardenti, quali
fogliami effusi al sole mattutino.
Odimi: non vidi altro in quel giardino.


(Da "Alcuni scritti", 1952)

giovedì 29 gennaio 2015

Poeti dimenticati: Mario Vugliano

Nacque a Vestignè, in Piemonte, il 9 marzo del 1883. Laureatosi in legge, si interessò di giornalismo e di letteratura; divenne redattore-capo del quotidiano La Perseveranza e pubblicò suoi scritti su varie riviste di inizio Novecento. Scrisse qualche romanzo, un libretto d'operetta e, in collaborazione con Egidio Possenti, anche un'opera teatrale. Non pubblicò mai in volume le sue poesie, seppure la rivista Riviera Ligure, nell'ottobre del 1904, avesse annunciato a breve l'uscita di un libro intitolato: Prima del sole. Morì nel 1964.


Testi

LA CAMPANA

Fievole or sì, or no, mi reca il vento
nell'ombra vespertina una lontana
soave e mesta voce di campana
singhiozzante in un tremito d'argento.

Dan, dan, dan... forse vien da un convento:
la suona un frate nella chiesa vana;
forse romba sui monti qualche frana,
nel mondo giacque qualche umano spento.

Dan, don, dan, don..., pietà, pietà, Signore,
per quei che cadde vinto nella guerra,
pace, pietà per quei che nasce o muore.

Tutto il divino bene che rinserra
soavemente l'urna del tuo cuore,
sparga, o Signore, sopra questa terra.

(Dalla rivista: "La Riviera Ligure", ottobre 1904)

mercoledì 28 gennaio 2015

La poesia ironica e malinconica di Pompeo Bettini

È certamente da annoverare tra i migliori poeti del secondo Ottocento italiano, il nome di Pompeo Bettini, nato a Verona nel 1862 e vissuto quasi sempre a Milano, dove è morto nel 1896. Povero, malato fin dall'adolescenza e senza affetti per buona parte della sua esistenza, lavorò come correttore di bozze presso l'editore Sonzogno. Si interessò di politica e aderì al socialismo. Pubblicò i suoi versi in un volume uscito nel 1887, in collaborazione con l'artista Attilio Pusterla. Altri versi ancora, alcuni dei quali erano usciti su riviste dell'epoca, furono stampati in un libro edito l'anno successivo alla sua morte. Bettini fu anche egregio prosatore, drammaturgo e traduttore, ma è indubbio che come poeta egli diede il meglio di sè; ciò è dimostrato pure dal fatto che alcuni illustri intellettuali italiani si interessarono alla sua opera in versi: Benedetto Croce per esempio, che mezzo secolo dopo la sua dipartita pubblicò un volume che raccogliesse tutte le sue poesie. Considerato da alcuni quale prosecutore della poetica scapigliata, da altri anticipatore di certo crepuscolarismo, Bettini fu sicuramente poeta ironico, a volte malinconico e contemplativo; più raramente polemico e impegnato. Forse i suoi versi migliori sono proprio quelli in cui emerge una sincera disperazione, dovuta sia alle precarie condizioni fisiche, sia ad una tendenza spontanea verso la tristezza (in questo preciso contesto indimenticabili sono le sue Liriche di primavera)Chiudo riportando, dapprima l'elenco delle opere poetiche di Bettini, quindi un elenco di antologie che comprendono i suoi versi, infine tre liriche fra le mie predilette.    



Opere poetiche

"Versi e acquerelli", Quadrio, Milano 1887.
"Poesie", Brigola, Milano 1897.
"Le poesie", Laterza, Milano 1942.
"Poesie e prose", Cappelli, Bologna 1970.





Presenze in antologie

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 268-269)."Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 366-368).
"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. I, pp. 93-101).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (pp. 169-171).
"Poeti minori del secondo Ottocento italiano", a cura di Angelo Romanò, Guanda, Bologna 1955 (pp. 366-368).
"Un secolo di poesia", a cura di Giovanni Alfonso Pellegrinetti, Petrini, Torino 1957 (pp. 47-49).
"Poeti minori dell'Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Ricciardi, Napoli 1958 (pp.1009-1025).
"Poeti della scapigliatura", a cura di Mario Petrucciani e Neuro Bonifazi, Argalia, Urbino 1962 (pp. 273-281).
"L'antologia dei poeti italiani dell'ultimo secolo", a cura di Giuseppe Ravegnani e Giovanni Titta Rosa, Martello, Milano 1963 (pp. 105-113).
"Poeti minori dell'Ottocento italiano", a cura di Ferruccio Ulivi, Vallardi, Milano 1963 (pp. 743-752).
"Poesia dell'Ottocento", a cura di Carlo Muscetta ed Elsa Sormani, Einaudi, Torino 1968 (volume secondo, pp. 1927-1940).
"Secondo Ottocento", a cura di Luigi Baldacci, Zanichelli, Bologna 1969 (pp.1152-1160).
"Poeti simbolisti e liberty in Italia", a cura di Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1967-1972 (vol. 2, pp. 26-27)
"Dio borghese", a cura di Adolfo Zavaroni, Mazzotta, Milano 1978 (pp. 125; 218-219).
"Poeti della rivolta", a cura di Pier Carlo Masini, Rizzoli, Milano 1978 (pp. 281-289).
"Poeti italiani dell'Ottocento", a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978 (pp. 465-471).
"Poeti del riflusso", a cura di Rina Gagliardi, Savelli, Roma 1979 (pp. 57-58; pp. 67-68).
"Lirici della Scapigliatura", seconda edizione aggiornata a cura di Gilberto Finzi, Mondadori, Milano 1997 (pp. 303-318).
"Dagli scapigliati ai crepuscolari", a cura di Gabriella Palli Baroni, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2000 (pp. 338-380).




Testi

I. NELLA VALLE SONORA MANCA IL GIORNO

Nella valle sonora manca il giorno,
giran le nubi per le cime intorno.
Io salgo al cimitero.

Coi bracci aperti disperatamente
le croci chiaman nell'ombra crescente
al loro amplesso fiero.

Saltan gli insetti per il cupo verde,
fischia un convoglio, e nel sasso si perde:
la nebbia stende il velo.

Io guardo ai monti che mi dicon forte:
Ama d'un sol amor fino alla morte,
e guarda spesso in cielo.


Porta la data: Wassen, agosto 1885 e fu quindi scritta nella località svizzera dove il poeta stava trascorrendo le vacanze estive. Riguardo al verso 8, ecco cosa scrisse il grande critico Luigi Baldacci nell'antologia Poeti minori dell'Ottocento: Wassen è un villaggio del cantone di Uri nel cui territorio corrono le gallerie elicoidali della ferrovia del Gottardo.





II. A UN TRATTO LE CAMPANE

A un tratto le campane
che annuncian mezzodì
mi dan voglia di piangere.
Quando le udii cosi?

Stamane m'ero alzato
con la mente serena,
ma poi sempre il passato
idee tristi rimena.

Oh che pensiero amaro
è quello di morire!
T'amo come un avaro,
o mio corto avvenire!


Questa è la settima delle dieci Liriche di primavera uscite per la prima volta sulla rivista Vita moderna nel marzo del 1892. Furono poi ristampate in Poesie, Brigola, Milano 1897 e in tutte le successive raccolte poetiche di Bettini.  È uno dei componimenti in cui si ravvisa di più la poetica dei crepuscolari; c'è una percezione della morte prossima a verificarsi, che in qualche modo ricorda certi versi di Guido Gozzano.





III. LE MIE BRACCIA SON GREVI

Le mie braccia son grevi
come rami coperti dalle nevi,
la mia faccia è severa
e fisso gli occhi nella primavera.

Cammino a passo lento,
guardo le cose ad una ad una, e sento
invadermi un languore
ch'è senza oggetto, ma sarebbe amore.

Il vento soffia e rade
i viali e le strade;
i fiori delle piante, fecondati,
lascian cadere i petali sui prati,

e nuvole grandiose,
senza tinte scherzose,
viaggiano nel cielo a somma altezza,
sospese in una frigida purezza.


È l'ottava Lirica di primavera in cui si palesa sia un amore fortissimo nei confronti della natura, sia una fatica di vivere, sottolineata già nei primi versi da una pesantezza corporea e una predisposizione dell'animo alla rigorosità (quest'ultimo concetto è evidenziato dal verso 3: la mia faccia è severa), sia una velata consapevolezza di vivere in una realtà indifferente e distante (come dimostra l'ultimo verso in cui le nuvole sono viste sospese in una frigida purezza). 

domenica 25 gennaio 2015

Due poesie di Paolo Buzzi

Accanto al più conosciuto Paolo Buzzi: poeta impetuoso, ribelle e propenso agli esperimenti, ve n'è un altro ben diverso, quasi contrastante col primo. È un uomo meditativo, che sembra a volte rattristarsi per ciò che non è successo e che poteva succedere; altre volte i suoi versi evidenziano un rimorso per dei comportamenti istintivi sbagliati, che lo hanno posto ai margini della società. Certamente Buzzi non è stato mai vicino alla poetica dei crepuscolari, come successe invece ad altri futuristi, ma esistono anche nei suoi versi delle tristezze e delle malinconie che qua e là affiorano, ed è quindi facile metterle in evidenza, come ho fatto riportando queste due poesie. La prima proviene dalla raccolta Aeroplani, del 1909, ed è uno dei volumi poetici più importanti del movimento futurista; la seconda appartiene al Poema dei quarantanni (1922), che è una sorta di autobiografia in versi di eccezionale valore. Sono due poesie bellissime, che meritano nuova attenzione, così come la merita il poeta, troppo sbrigativamente etichettato e considerato soltanto nell'ambito del movimento futurista.


Paolo Buzzi (Milano 1874 - ivi, 1956)



I BIMBI

Quasi più non vivo coi bimbi.
Quasi, li ignoro.
E quelli ch'erano bimbi con me
perdon le chiome o imbiancano, han già le lunghe barbe.
E molti bimbi fecero.
Io, bimbi, no. I miei fratelli, pure,
son orfani di figli. Stagna il mio sangue
come gora fra sassi alti, nel continuo torrente della vita.

Amo, senza invidiarli, i bimbi.

Io non so se m'amino. Uno s'appressa
al pianoforte ov'io suono Danze Macabre sovente.
E mi guarda come si guarderebbe un Dio. Un'altra
(bella come l'amore che non s'incontra)
mi siede sulle ginocchia, quando scrivo,
e mi domanda - Tu scrivi alla Madonna?

Innocenze. Son figli

di stranieri. Nulla so
de' lor sangui, de' lor sogni: donde vengano,
chi li aspetti.
Entrano dalla mia porta aperta sempre.
E se ne vanno con qualche chicca in bocca.
Certo han le madri giovani. Ed io le fuggo
per non dar loro fratelli adulterini.
Lui m'ha chiamato - Zio! - ieri.
Lei, domani, può chiamarmi - Nonno! -
Sentono che son vecchio.
E, in fondo, già mi burlano
per tale. Se mi vedessero cadere nel fango, in istrada,
sarebbe un'altra risata, come pel vecchio Parini.
Ed io m'avrei quel tema per un'altra Ode.
Tutto ciò è un poco triste.
Ma non bisogna uccidersi, per questo. Anche i bimbi
diventano vecchi, a giorno a giorno.

(da "Aeroplani", Edizioni Futuriste di "Poesia", Milano 1909, pp. 159-160)





MISANTROPIA

Non amo gli uomini.
Nessun male profondo mi fecero
ché nessun male, pur lieve, io lor feci né farò.
Ma la suprema letizia mia è di sfuggirli.
Pagherò questo capriccio da sultano.
Morrò senza due righe di commento alle gazzette
assai simile all'ultimo dei consueti,
io, fenomeno degno delle meraviglie,
io che veramente avrò vissuto, sovra l'ali
una vita di sogno, di musica, di maestà.
Bimbo,
anelavo appiattarmi nei cantoni. Il buio
in solitudine mai m'impaurì.
La mia stanza chiusa,
la mia alcova velata,
il mio silenzio duro:
la parola alle carte, ai testi. Per ciò
credo alla futura e eterna grande Felicità.
Bocca chiusa nella bara chiusa dentro la tomba chiusa.
E dimenticato dagli uomini dimenticati.

(da "Poema dei quarantanni", Edizioni Futuriste di "Poesia", Milano 1922, pp. 346-347) 

martedì 20 gennaio 2015

Chiamò il mio cuore...

Chiamò il mio cuore, una mattina chiara,
con profumo di gelsomino, il vento.

- In cambio di questo aroma,
tutto l'aroma delle tue rose voglio.
- Non ho rose; fiori
nel mio giardino non ne ho più: sono tutti morti.

Porterò via il lamento delle fonti,
le foglie gialle e i petali appassiti.
Fuggì il vento... Il cuore sanguinava...
Anima mia, che hai fatto al tuo povero orto?




COMMENTO

Poesia di Antonio Machado (1875-1939) che possiede caratteristiche prettamente crepuscolari. In una bella mattina luminosa il poeta, che probabilmente si trova nel suo giardino, percepisce l'arrivo improvviso del vento che porta con sé un gradevole odore di gelsomino. Quindi, sorprendentemente e segretamente, il vento comincia a parlare rivolgendosi all'anima (il cuore) del poeta e gli propone una sorta di baratto: in cambio del suo aroma vorrebbe il piacevolissimo odore delle rose del suo giardino. Ma il poeta confida al vento l'impossibilità di un simile scambio, essendo il suo giardino completamente arido e, quindi, senza alcun fiore profumato. Si ripropone però di portare via le foglie ingiallite e i petali appassiti che coprono il suolo. Però il vento non prende in alcuna considerazione il tentativo del poeta e se ne va, lasciando quest'ultimo nella più completa desolazione (il cuore sanguinante). L'ultimo verso, che ne ricorda un altro famosissimo di Paul Verlaine, è insieme una domanda ed una triste constatazione: il poeta infatti chiede alla propria anima il motivo del suo inaridimento, il perché di una situazione esistenziale che non trova più alcun motivo per sperare e gioire, rimanendo assolutamente indifferente e inerte a qualsiasi spinta vitale.