martedì 28 luglio 2015

Le figure dimesse nella poesia italiana decadente e simbolista

Sono personaggi solitari, isolati dal mondo per scelta o per circostanze avverse; per loro i poeti mostrano grande simpatia e spesso pietà. Quasi tutti vogliono rappresentare la sconfitta, la rassegnazione, la perdita di tutto: affetti, cose, speranze. In alcuni casi però si nota una certa fierezza dell'uomo o della donna che, contro tutto e tutti vive una situazione sfavorevole e trova in tale stato la consapevolezza di essere, per alcuni versi, un eroe incompreso. Non mancano figure misteriose, che a volte svolgono un lavoro monotono e continuo, a volte sembrano immerse in una sorta di esistenza mistica, la quale si conclude in modo talmente sorprendente da lasciare il lettore (e forse anche il poeta) incapace di dare una qualsiasi spiegazione alla vicenda.



Poesie sull'argomento

Mario Adobati: "Il saggio della selva" in "I cipressi e le sorgenti" (1919).
Pier Angelo Baratono: "I perversi" in "Sparvieri" (1900).
Enrico Cavacchioli: "La vedetta" e "Litanie del silenzio" in "L'Incubo Velato" (1906).
Giovanni Croce: "Frati" in "L'anima di Torino" (1911).
Auro D'Alba: "Il suonatore ambulante innamorato delle stelle" in "I Poeti Futuristi" (1912).
Federico De Maria: "Il Beduino" in "Le Canzoni Rosse" (1904).
Federico De Maria: "Lo scemo" in «Poesia», novembre 1908.
Marcus De Rubris: "­Zingani" in "La Veglia" (1910).
Giuliano Donati Pétteni: "Rassegnazioni" in "Intimità" (1926).
Aldo Fumagalli: "Buio:.. gente che passa per la via deserta" in "Arcate" (1913).
Diego Garoglio: "L'esule" in "Sovra bel fiume d'Arno" (1912).
Cosimo Giorgieri Contri: "Attesa materna" in «Nuova Antologia», gennaio 1908.
Domenico Gnoli: "La vecchietta dell'alpe" in "I canti del Palatino. Nuove solitudini" (1923).
Corrado Govoni "Contraddizione" e "La mendicante" in "Gli aborti" (1907).
Guido Gozzano: «Historia» in "Poesie e prose" (1961).
Giuseppe Lipparini: "Elena" in "Le foglie dell'alloro. Poesie (1898-1913)" (1916).
Tito Marrone: "Crisalide" in «Poesia», gennaio 1906.
Pietro Mastri: "Accoccolato lì, come una balla" e "Le scolte" in "La Meridiana" (1920).
Ada Negri: "L'Errante" in "Dal profondo" (1910).
Giovanni Pascoli: "La cucitrice" in "Myricae" (1900).
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: "L'amante ignota" in "Il Libro dei Frammenti" (1895).
Guido Ruberti: "La Devota" in "Le Evocazioni" (1909).
Domenico Tumiati: "L'organista ambulante" in "Liriche" (1937).
Aurelio Ugolini: "L'uomo-orchestra" in "Viburna" (1905).
Carlo Vallini: "Lo scriba" in "Un giorno e altre poesie" (1967).
Remigio Zena: "La mendicante" in "Le Pellegrine" (1894).




Testi

LA VEDETTA
di Enrico Cavacchioli

- Suggesti il latte, o mio tenero amore!
Non pianger più. Non pianger più. Ritorna
il sogno a carezzare il tuo dolore. -

Ora il cielo di nubi alte s'adorna
e tu, Vedetta, per i baluardi
rimi il passo che sa per dove aggiorna,

rimi il canto che sa ritmi beffardi
e col battito triste del tuo cuore
pensi alla terra, al sole e non lo guardi,

e non l'invochi per il tuo terrore!

*

- O ninna-nanna, o ninna-nanna, o ninna-
nanna, la bimba s'è tutta ferita:
sentite il grido suo come tintinna?

Quale dolcezza non l'avrà smarrita?
E qual silenzio nella culla lenta,
lenta, non mai l'avrà ringiovanita?

O ninna-nanna, o ninna-nanna, è spenta
l'ultima luce che t'avèa protetto,
l'ultimo sogno che t'avèa redenta;

non ò culla: il cielo è violetto...

*

Come zirlano i grilli! Il mare immenso
venta alle tamerici; il suo sospiro
salmastro sale su come un incenso..

Una vela che trema, in lento giro
disperde l'occhio vigile del fiocco
malinconicamente; il suo respiro

sembra ansimare dietro allo scirocco
che la frusta, la fa rabbrividire,
stirare con un fulmine di schiocco.

Ed un gabbiano grida. L'imbrunire.

*

O Vedetta vagante, muta e sola
nell'ombra in cui la luce si riposa
quale pensasti mai dolce parola?

Quale sorella in abito da sposa
vedesti comparire, tra le reti
dei pescatori? Quale lacrimosa

storia di monachelle e di roseti
nella quiete or vedi interlunare?
Ànno le stelle un lento tremolare,

anche tu fremi come li albereti.

*

Un grido sale: - All'erta sentinella!
Passa una barca rapida, fuggente,
e la notte l'avvolge nella bella

capellatura, aurina, iridescente.
Un passo si confonde, si diffonde
quasi sfiorato, quasi non si sente,

ed il tuo sogno va, per le profonde
immensità lontane che non so:
ma la tua voce lugubre risponde

velatamente, sola: - All'erta sto!

(Da "L'incubo velato", 1906)





ACCOCCOLATO LÌ, COME UNA BALLA
di Pietro Mastri

Accoccolato lì, come una balla
di cenci, ad uno stipite
della sua catapecchia,
si còce al sole. Come un lento pendolo
in bilico fra l'una e l'altra spalla,
dondola il capo, che ha mozza un'orecchia.

Dondola il capo non ancora adulto,
segnato a sangue e lividi
dai sassi della via nelle cadute,
di schianto giù, tutto il corpo in sussulto
che si sbatacchia e nella strozza un mugolo
rotto e la bava sulle labbra mute.

Dondola il capo. Pur d'udire il sincrono
ritmo: tic-tac, tic-tac... Ei, no, non l'ode.
Gli scorre il tempo, dentro, come un tacito
fiume notturno, che non abbia prode.

Per ore ed ore ed ore. Innanzi, il borgo
tace nel solleone che lo sgretola:
un buffo d'afa alza talvolta un gorgo
vorticoso di polvere.

Di tanto in tanto per l'arsiccia strada
passa una pésta grave, un trotto rapido,
un tardo scalpiccìo; schiamazza un sùbito
irromper di fanciulli... Egli non bada.

(E chi gli bada, a lui?). Bada alle mosche.
Ronzano a sciami intorno. Egli ne sèguita
il volo, a collo torto, con le losche
pupille, opache, di vitello morto.

E ride loro. E dalla bocca flaccida
squittiscon suoni che non son loquela
umana, - dalla crepa ove la sciabbia
viscida fila una sua ragnatela.

Scaglia una mano all'aria con fulmineo
gesto, a tratti, e una mosca acchiappa a volo.
Di sulla palma se la trae col solo
scorrere delle dita abili e caute.

L'ha fra il pollice e l'indice.
La guarda un poco. E poi... là, fra due denti,
l'acciacca... E intanto, mentre il capo dondola
coi bovini occhi spenti,

con quell'orecchia mozza,
dondola senza posa come un pendolo,
il suo riso gorgozza.

(Da "La Meridiana", 1920)





L'UOMO-ORCHESTRA
di Aurelio Ugolini

Come una polverosa
cicala che s'inebria alla gran fersa
del bollente meriggio e, senza posa,
inni dalle stridenti elitre versa;

per le dorate vie
fra gli obliqui veicoli, ridesta
la verde vision delle natie
valli, squassando i magri arti e la testa.

A un singulto di pelli
concave, a un formidabile clangore
di dischi, a uno scrollar di campanelli,
sporgono visi ai davanzali in fiore.

Ma invan, gialla di tedi
infiniti e scavata dalla fame,
leva la faccia ad ora ad or, se a' piedi
il tintinno oda e il rimbalzar del rame.

Agli occhi avidi innanzi,
le redolenti canove e le dapi
onde ricca è la via, passano e i manzi
sanguinolenti fra il ronzio dell'api.

E, mentre dall'interno
delle cucine fumide e vermiglie
giungegli — è il mezzodì — quasi uno scherno
stridulo di posate e di stoviglie;

Tantalo vero, umana
cariatide, ei va sotto gl'immoti
dardi del sole e lento s'allontana,
trempellando co' suoi due ventri vuoti.


(Da "Viburna", 1905)



Pierre Puvis de Chavannes,  "The Poor Fisherman"

domenica 12 luglio 2015

Il telefono in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Ti chiamo... ancora una volta ti chiamo con la solita speranza: che finalmente parliamo di cose importanti, di noi, di ciò che proviamo l’uno per l’altra. Ma la mia speranza svanisce di nuovo, dopo nemmeno un minuto che parliamo. Tu ricominci a proporre argomenti futili, che riguardano fatti poco interessanti per me. Sto comunque al gioco, e ti rispondo dimostrando attenzione e coinvolgimento. Poi, mi stanco, e continuo a dirti – mentre tu prosegui instancabile il tuo colloquio – un “sì”: un’approvazione che significa sfinimento. Quando hai esaurito ogni possibile dettaglio, e oramai anche tu ti dimostri stanca ed annoiata, mi dici che si è fatto tardi, che hai qualcosa di urgente da fare, e mi saluti velocemente prima di chiudere la comunicazione. Certamente ci risentiremo: sarai magari tu a chiamarmi la prossima volta, o forse sarò ancora io, e di nuovo nascerà in me la speranza che potremo dirci, finalmente, delle parole importanti. No, non posso abbandonare questa mia illusione, poiché mi occorre per continuare a vivere, perché voglio continuare a parlare con te, anche senza vederti mai.



TELEFONO

di Giovanni Bertacchi (1869-1942)

Parla un uomo al telefono. Qualcuno
ch'io non odo né veggo a lui risponde:
prega un uomo all'altar: parla con Uno 
che per me tace, che per me si asconde.

Deh, se basta a varcar tanta distanza
un tenue filo a chi pur resta immoto;
se il tenue filo d'una pia speranza
basta pei cuori a penetrar l'ignoto,

date a me pure il fil che si dilunga
oltre il giorno dell'uomo e la sua sede;
datemi il tenue tramite che giunga
al Lontano che parla e non si vede!

(Da "Alle sorgenti", Baldini & Castoldi, Milano 1906)





PER TELEFONO
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Ascolto per telefono il fragore
di Roma liberata. «Vedi - insiste
l'amico nel chiamarmi - non li vedi,
sempre così, mostrati sulla terra.»
Incalza: «ma strafanno, l'aria è piena
di Roma, di campagne...». «Spegni», grido.
Resta il silenzio e non così divisi
dal filo che ci unisce, «Siamo stanchi»
dico nello scoprirmi amaro, vile
d'invidia «e questo caldo, questa smania
d'uscire... ma che fai, pronto, Giorgio...?»

(Da "La storia delle vittime", Mondadori, Milano 1966)





TELEFONATA NOTTURNA
di Margherita Guidacci (1921-1992)

La tua voce
intensa e quieta, che viene di tanto lontano,
come un raggio improvviso ha attraversato la notte,
inargentando foglie, facendo biancheggiare le spume
d'acque segrete, rivelando
nitido un altro lembo
di questo sempre nuovo paesaggio d'amore -
così vario
che mai finiamo di scoprirlo.

(Da "Inno alla gioia", Centro Internazionale del Libro, Firenze 1983)





Da "LE PETIT MONTAGNARD"
di Mario Luzi (1914-2005)

Lo squillo del telefono nella casa deserta
dà un brivido sottile, recide oscure speranze.
Non mi mossi, non scesi neppure fino all'orto.
Fui qui presente e assente in questa luce
da finestra a finestra della casa
ore e ore, lasciai venire e andare
pensieri eterni nella mente inerte.

Il giorno lungo e fradicio leva alti i suoi vessilli.
È tardi? il carpentiere sale sui castelli e i ponti.
Lo sai, mi tengo pronto al tuo richiamo,
veglio, attendo, fo sì che non risuoni
lo squillo del telefono nella casa deserta.


(Da "Dal fondo delle campagne", Einaudi, Torino 1965)





TELESELEZIONE
di Daria Menicanti (1914-1995)

Soprattutto mi piace col telefono
entrargli nella camera lontana
di là dal monte,
sentire il mio squillo
che si avventa nel buio. Poi la cara
voce fra tutte che risponde:
Sì-ì?

(Da "Canzoniere per Giulio", Manni, Lecce 2004)





TELEFONO
di Marino Moretti (1885-1979)

Sei tu! sei tu! sei tu! Mentre ti parlo,
mentre t'ascolto, immobile, mi pare
che la tua voce seguiti a vibrare
in questo orecchio mio per lacerarlo.

Sei tu! sei tu! La tua voce mi giunge
da una profondità d'anima oscura:
io ti rispondo, amica, ma ho paura,
che vicina mi sei tu che sei lunge.

Ho paura di te, di quest'ordigno
che al mio povero cuor che più non sogna
dona la voce tua, la tua menzogna
come per uno spirito maligno!

E mi par quasi che fra tanto fasto
d'illusioni solo quest'ordigno
fedele al muro, come un vecchio scrigno
pieno di voce tua, mi sia rimasto!

Tu parli e io vedo il tuo bianco profilo
un po' chinato sovra l'apparecchio
mentre raccogli nell'intento orecchio,
più che il mio dire incerto, il mio respiro;

tu parli e io non t'ascolto: non t'ascolto
perché ti vedo: vedo d'improvviso
una lieve penombra di sorriso
ch'erra nel volto tuo, chino e raccolto.

Ah, ridi ridi ridi tu che sei
bella e ami solo la tua gioventù.
Io? Ti rispondo, ma non sono più
che due numeri: 10-36...

(Da "Poesie 1905-1914", Treves, Milano 1919)





PAROLE CHE VENGONO DI LONTANO
di Nino Oxilia (1889-1917)

Dalla finestra aperta guardo i monti.
Qualche nuvola bassa
sui dentati orizzonti
vivida di bagliori
passa.
Ora curvi, ora dritti, i falciatori
taglian l'ultimo fieno
sotto il cielo sereno
con larghi gesti monotoni...

La mia stanza è un immoto
carcere d'ombra ove io sento
battere battere a vuoto
le pale del Tempo che in ozio consumo.
Il vento
anima l'infinito
silenzio di profumo.
Improvviso come un nitrito 
nell’ombra squilla il telefono...

«Pronti! Pronti!» Lo specchio 
a parete, murato nel tepore 
delle stoffe, riflette l’apparecchio 
nell’ombra paolotta. 
L’apparecchio borbotta: 
«Pronti pronti! O mio amore!»

«Pronti! Pronti! Amor mio,
sono giunta stamani.
Ora siamo lontani.
Sono triste» (un contatto) «amore mio!»
«Per quanto tempo! Mi angoscia...»
Ascolto. E l'occhio in giro percepisce
le cose che non guardo:
il gesto or lesto or tardo
dei falciatori e il fieno che si affloscia
sotto le falci lisce...
«Mi angoscia questa vita di bugìa
con l'uomo che non amo e non capisce;
cui fingo. Oh! come ti amo, anima mia!»

Penso la sua bocca leggiadra
nel cerchio nero del trasmettitore,
la sua bocca d'amore
ladra.
Penso il braccio rotondetto
sopra il tavolinetto;
dentro l'alcova il letto.

«Oh! fuggire da quella gabbia!
Correre nelle tue braccia!»
Quanto resta la traccia
di un nome sulla sabbia,
tanto nel cuore umano
le parole che vengono di lontano...

«Son triste. Quest'asilo
è da gufi - Tu sei lontano e poi...»
Gorgoglia l'apparecchio
schernevole all'orecchio;
ora parlo, ora ascolto...
Odo la voce ma non vedo il volto...
E il filo il filo il filo
infinito tra noi...

(Da "Gli orti", Alfieri & Lacroix, Milano 1918)





TI DICEVO AL TELEFONO 
di Elio Pagliarani (1927-2012)

Ti dicevo al telefono (di cui 
più mi prendono le pause, gl’imbarazzi 
docili, e se ci udiamo respirare) 
ti dicevo al telefono un amore 
che urge, e perché. 

(Da "Tutte le poesie: 1946-2005", Garzanti, Milano 2006)





ER TELEFONO
di Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950)

Co' quello antico? Vergine Maria! 
Giravi per un'ora er girarello 
e, se volevi un oste, sur più bello 
te risponneva quarche farmacia.

Invece mó, coll'urtimo modello, 
chiami cór deto, parli e tiri via, 
che se tu vedi la signora mia 
ce se diverte come un giocarello.

Jeri, presempio, appena s'è svejata 
ha bevuto er caffè cór rosso d'ovo 
eppoi s'è fatta la telefonata.

E manco ha preso in mano l'apparecchio 
ch'ha liticato co' l'amante novo 
e ha fatto pace co' l'amante vecchio.

(Da "Poesie scelte", Mondadori, Milano 1951)





TELEFONO PIÙ RADIO
di Cesare Vivaldi (1915-1999)

Dì che è tardi. Baciamoci
nel frettoloso telefono.
Disperdi pure il grigio
della tua voce,
non temere il silenzio.
Lieve continui ad abitarmi accanto,
respirando in un valzer
di cristallo, che in nitidi
tocchi s'estingue.

Serro il capo tra i gomiti. Un cavallo
bianco fende la nebbia,
opaco s'allontana,
si distingue dall'ombra
appena per un palpito lieve.

(Da "Poesie scelte: 1952-1992", Newton Compton, Roma 1993)




Sergei Vishinsky, "On the telephone"

martedì 30 giugno 2015

Le fate nella poesia italiana decadente e simbolista

Sorta di semidee, estremamente affascinanti, misteriose, spesso ricoperte di gemme, di ori e di pietre preziose, le fate si mostrano ai poeti nelle ore notturne e probabilmente sono il simbolo dell'arcano. In alcuni casi però, questi personaggi sono identici o quasi a quelli delle classiche favole, e in tali contesti potrebbero rappresentare sia la maternità (ovvero madri che, viste con gli occhi dell'infante, posseggono dei poteri speciali), sia la donna intesa come essere sovrannaturale (e qui, in parte, si ritorna ad una deificazione della figura femminile).




Poesie sull'argomento

Ugo Betti: "La fata Fiorediselva e il principe Risodisole" in "Il re penserioso" (1922).
Bino Binazzi: "La protettrice" in "Turbini primaverili" (1910).
Gustavo Botta: "Le gemme delle fate" e "Le fate" in "Alcuni scritti" (1952).
Lucio D'Ambra: "La Chimera" in "Le Sottili Pene" (1896).
Gabriele D'Annunzio: "Melusina" e "Morgana" in "L'Isotteo. La Chimera" (1890).
Corrado Govoni: "La regina Mab" in "Poesie elettriche" (1911).
Arturo Graf: "La fata" in "Le Rime della Selva" (1906).
Gian Pietro Lucini: "La Fata" e "I Sonetti di Gloriana" in "Il Libro delle Figurazioni Ideali" (1894).
Olindo Malagodi: "Apparizione" in "Poesie vecchie e nuove (1890-1915)" (1928).
Tito Marrone: "Il palagio delle fate" in "Cesellature" (1899).
Giacinto Ricci Signorini: "Egli pensava, nella notte azzurra" in "Rime" (1888).
Domenico Tumiati: "Canapaiole al lume di luna" in "Liriche" (1937)
Alessandro Varaldo: "E mentre inseguo folle ed anelante" in "Marine liguri" (1898).




Testi 

LA PROTETTRICE
di Bino Binazzi

Al tempo che le profondità
della notte, inesplorate,
era un mistero, un soggiorno di fate
dagli occhi di stelle,
(il coprifuoco cantava le belle
ninne nanne in lontananza
alla mia tranquilla stanza)

e il soave tremolio
de' grilli era un coro pio
d'invisibili gnomi
sussurranti piacevoli nomi
come per giuoco,
al novenne che assopiasi a poco a poco,

al tempo dell'età mia nova,
mentre le tende dell'alcova
ne' rabeschi prendevan forme umane
che parlavano a me d'una dimane
avventurosa, e, dall'urna
piccola uscite al confine
della vita, mi parlavan del breve
passato le morte sorelline,
palpitando la lampada notturna,
Ella venne con passo lieve lieve.

Ella venne: nella quiete
eran muti i sensi della veglia,
regnati dal senso divino
dei sogni. La parete
si divaricò silenziosa
come chiusa corolla in sul mattino
alla prima carezza rugiadosa
del giorno che si risveglia.

Spuntò l'alba del mio intelletto
d'amore. Il ritorno
della luce cantavan gli araldi del giorno
e il cielo albeggiante
spiava il candor del mio letto
per la fessura dell'imposta chiusa:
ed io, anima chiusa
a una letizia nova,
cantai quel giorno con gli uccelli a prova.

Ella vegliò la mia puerizia
con quell'amor che s'ode
simboleggiar nell'angelo custode:
e ogni raggio di stella ed ogni fiore,
ogni tronco, ogni pietra
ebbero un'armonia di blanda cetra.

Tu sai che letizia,
lettore che fosti poeta,
lettore che fosti fanciullo.

(Da "Poesie")





LA FATA
di Gian Pietro Lucini

Io son la bella Oriana e il seggio mio,
materiato in rubini e diamanti,
scintilla nell'azzurro, in contro a Dio,
tra il nimbo delli incensi fumiganti.
I miei baci son filtri e dan l'Oblio,
brillan nelli occhi miei fascini erranti,
e il mio corpo è una Coppa che il Disio,
abbevera di vini estasianti.

Facile e avventurosa è la mia strada:
invitan l'acque d'or del mio verziere,
e sulle rame i bei frutti di giada.
A me i Baron' sulla gaietta alfana,
e al tintinnìo d'argentee sonagliere,
vengan le Dame in lunga carovana.

(Da "Il libro delle Figurazioni Ideali")





EGLI PENSAVA, NELLA NOTTE AZZURRA
di Giacinto Ricci Signorini

Egli pensava, nella notte azzurra,
Sull'acque intentamente fiso:
L'acacia arguta strepita e sussurra
Del maggio nell'amor, nel riso.

Quando una donna dalle vesti bianche
Sull'onda gorgogliante apparve;
Dice: Deh vieni, e le tue membra stanche
Riposa giù in quell'acque chiare!

Sopra quell'erbe molli di rugiada
Eterna un letto io t'apprestai,
Vieni, o diletto, nella mia contrada
Si sogna e non si pensa mai.

E là vi è pace e più tranquillo scende
Di luna un raggio a salutarmi,
E violato il ciel più dolce splende,
E vibra l'armonia dei carmi.

Vedrai le ninfe, che hanno il piè d'argento,
In caccia sui fioriti prati,
Ed ondeggiare gli asfodeli al vento,
E correre i cavalli alati.

E sempre al fianco ti sarò, pensosa
Il bacio ti darò d'amore;
Vieni al mio amplesso, sul mio seno posa
O senti come batte il core.

Così cantava nella notte azzurra
La fata bella e sparve giù:
L'arancia arguta strepita e sussurra,
Ma il giovin non fu visto più.

(Da "Rime")





E MENTRE INSEGUO FOLLE ED ANELANTE
di Alessandro Varaldo

E mentre inseguo folle ed alenante
un canto pieno d'armonie divine
di tra li effluvi d'alighe marine
sale al verso un profumo inebriante.

Forse le bianche fate oceanine
scherzando giù nel mare azzurreggiante
traggono quel profumo inebbriante
di tra li effluvi d'alighe marine.

La nave è ferma. Ne la calma sera
io mi tuffo ne l'onde appassionate
de i ricordi con acre voluttà.

E quel profumo de la primavera
mi sale a raccontare de le fate
leggende piene di soavità.


(Da "Marine liguri")



Sophie Anderson, "A portrait of a fairy"

domenica 14 giugno 2015

Poeti dimenticati: Giuseppe Zucca

Nacque a Messina nel 1887 e morì a Roma nel 1959. Si dedicò alla poesia nella prima fase della sua eclettica attività artistica. In seguito, oltre a fondare una casa editrice: «Il Fauno» e una casa cinematografica: «Fauno Film», scrisse soprattutto prose e romanzi che hanno alla base l'elemento principe dello scrittore siciliano: l'umorismo. Stessa cosa si può dire dei suoi versi, che contengono inoltre una sfumata malinconia, la quale, assieme ad una non comune fantasia e ad una intelligente ironia, lo pone come prosecutore della poetica crepuscolare.




Opere poetiche

"La lucerna", Nalato", Roma 1913.
"Vincere, vincere, vincere", Bemporad, Firenze 1918.
"Io", Formiggini, Roma  1919.
"Italia chiamò",  Bemporad, Firenze 1919.
"Poesie 1912-1922", Sansoni, Firenze 1923.






Presenze in antologie

"Antologia della lirica italiana", a cura di Angelo Ottolini, R. Caddeo & C., Milano 1923 (pp. 478-479).

"Le più belle pagine dei poeti d'oggi", 2° edizione, a cura di Olindo Giacobbe, Carabba, Lanciano 1928 (vol. VIII, pp. 85-98).




Testi

LA COMMEDIA

In programma si annunzia «brillantissima».
Il titolo: «La Vita». È in un sol atto.
Gli attori, cani. E si fa un rider matto,
più assai non promettessero gli affissi.

E su la scena il brio cresce... D'un tratto
taccion tutti; e all'interno han gli occhi fissi:
negli occhi è la vertigin degli abissi.
Che c'è? Il suggeritore s'è distratto?

No. Entra, zitta zitta, avvoltolata
in uno scialle sbrendolato e nero,
una vecchia, tutt'ossa, alta, scalvata:

l'ho vista in certe stampe del Durero.
Non parla: ride. E al riso solitario
piangon comici e pubblico. — Sipario.

(Dalla rivista «Nuova Antologia», giugno 1913)

domenica 24 maggio 2015

Gli alberi in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

AD UN SALICE
di Giovanni Camerana (1845-1905)

Triste, languente,
Chino sul tuo torrente
Come bella sul petto all’amator,
Sempre tu piangi, o salice.

Riso beato
Sfolgora pel creato;
Letizia e pace spiran l’erbe e i fior;
Tu solo piangi, o salice.

E un dì quest’onda
Oserà, furibonda,
Strapparti al nido de’ tuoi mesti amor;
E tu morrai, bel salice.

Ier nell’avello
Fu posto un giovincello
Al dolor nato e ucciso dal dolor...
Così morrai, bel salice.

(Da "Poesie", Einaudi, Torino 1968)





AI LAURI
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Lauri, che ne la grande ombra severa
accoglieste il pensoso adolescente,
parlatemi di lui, la prima sera.

Parlatemi di lui benignamente
vecchi lauri, però ch'egli forse ode;
però ch'egli è lontano e pur presente.

Quanto v'amava il giovine custode!
E quante volte a la sua fronte amica
tendeste i rami in ascoltar la lode!

Egli leggea quel libro ove pudica
l'Anima geme, lacrima e desìa
chiusa nel velo d'una Grazia antica.

Lento d'intorno il bel giardin salìa
fiorendo, come un sogno dal cuor sale;
rigato da la pura melodìa,

in una luce insolita spirtale
che non era del cielo ma sul mondo
effusa da la pagina immortale.

O lauri, io son colui. Non più m'ascondo.
Io son colui che lesse il libro e vide
quella luce e gioì nel cor profondo.

Tutto è perduto? Il raggio ultimo irride
nel gran bacino l'acqua putre e scarsa;
il paone su l'alto muro stride;

tra la gramigna livida e riarsa
giacciono spenti i cari iddii del loco...
Ogni divinità dunque è scomparsa?

Sol giunge suono di campane fioco.
A qual dolore l'onda pia si frange!
L'ombra invade una casa a poco a poco,

la triste casa ove mia madre piange.

(Da "Poema paradisiaco", Treves, Milano 1893)





UN PINO
di Severino Ferrari (1856-1905)

Calan l'ombre estive e il gelo:
già la terra è tutta bruna;
ma sorride, ecco,  la luna
tra le nuvole del cielo;

e a quel pin dall'arduo stelo
di selvaggi augelli cuna
ch'ombre orrende al piano aduna,
scende bianca in bianco velo.

L'alto pin muove crucciosi
i suoi rami, come braccia
di giganti minacciosi.

Tu impauri; e al suol la faccia
chini e i grandi occhi amorosi...
Vedi, è un arbor che minaccia.

(Da "Sibi suis", Zanichelli, Modena 1876)





L'ARANCIO
di Cosimo Giorgieri Contri (1870-1943)

Non altiero, non snello; e pur tra cento
ti riconosco, o dolce arbor giulìo,
tu che doni al mio tosco aer natio
bei frutti d'oro e bei fiori d'argento:

tu che ombreggi i belli orti ove ancor sento
tacito indugiar l'animo mio:
e dove il dì ch'ella mi disse addio
colsi un tuo fiore che sperdeasi al vento.

Gracile fior, di vergini pensiero,
che cingere a la sua tenera chioma
ah! ne' dì che saranno io non dispero.

Onde tu serba, o dolce albero, il fiore
tuo più leggiadro e del più molle aroma,
e destinalo tu pel nostro amore...

(Da "Il convegno dei cipressi", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1894)





TRA I CIPRESSI
di Domenico Gnoli (1838-1915)

Informe gruppo di cipressi neri
Che coronate la solinga vetta,
Rosi dagli anni, arsi da la saetta,
Come il mio capo da foschi pensieri;

Ch'or tra livide fonti, irti sentieri
E logge ove s'annida la civetta,
E un dì versaste l'ombra giovinetta
Sovr'amori di dame e cavalieri;

Qui, ne' silenzi lugubri, sospendo
Una piccola bara; il vento mesto
La culli a sera, tra i rami stridendo.

Non dite il nome e le vicende sue.
Su la coltre non ho scritto che questo:
- Anno mille ottocento ottantadue. -

(Da "Nuove odi tiberine", Loescher, Torino 1885)





VECCHI ONTANI
di Arturo Graf (1848-1913)

Ai vecchi ontani il vento,
Ghignando, urlando, narra
Non so che storia lugubre e bizzarra,
Non so che storia d’ira e di spavento.

Tremanti di paura,
Sotto il gel che li allaccia,
I vecchi ontani al cielo ergon le braccia
Gemendo a gara nella notte oscura.

(Da "Dopo il tramonto", Treves, Milano 1893)





SORRIDE L'ARGENTO DEI TIGLI
di Domenico Oliva (1860-1917)

Sorride l'argento dei tigli
All'ombre sorride tranquille
Un vago colore di gigli
Blandisce le umane pupille.

Il vento carezza ed olezza
Profuma soavi bisbigli,
Baciato da questa mitezza
Sorride l'argento dei tigli.

O sera, bellissima sera,
O luna, bellissima luna,
O musica errante e leggera
Per l'ombra fantastica e bruna,

Voi fate una grande armonia
E il core vi dice preghiera,
Il core blandizie t'invia,
O sera, bellissima sera.

(Da "Il ritorno", Galli di Chiesa e Guindani, Milano 1896)





LA QUERCIA CADUTA
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Dov’era l’ombra, or sé la quercia spande
morta, né più coi turbini tenzona.
La gente dice: Or vedo: era pur grande!

Pendono qua e là dalla corona
i nidietti della primavera.
Dice la gente: Or vedo: era pur buona!

Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
ognuno col suo grave fascio va.
Nell’aria, un pianto... d’una capinera

che cerca il nido che non troverà.

(Da "Poemetti", Sandron, Milano-Palermo 1900)





RIVEDENDO UN VECCHIO CASTAGNO
di Luigi Pinelli (1840-1913)

Tale è ancor l'aspro tronco, e una famiglia
Di gracili rampolli a la tua negra
Ombra crescenti, a te: - Padre, - bisbiglia,
- Lasciane l'aer che da 'l sol s'allegra.

Tu, come l'uom che avvalla a 'l suol le ciglia
Scorato, guardi e fremi dentro a l'egra
Anima antica che non più somiglia
A quella de' bei dì salda ed integra.

E par che pensi: questa che a me sale
È voce di minaccia o di preghiera?
È la vita o la morte che mi assale?

Saggio castagno, non cercar; l'austera
Testa concedi a 'l nembo trionfale,
A i folgori rubesti, a la bufera.

(Da "Dai nostri poeti viventi", Lumachi, Firenze 1903) 





ERO CILIEGIO...
di Giacomo Zanella (1820-1888)

Ero ciliegio: cento volte e cento
I miei rubini maturai: dal suolo
Dopo lunga tenzon sterpommi il vento,
Ed alle man passai dal legnaiuolo.

Fui segato, piallato, ebbi ornamento
Di vernici e di vetri. Ora uno stuolo
Di morti, che immortale hanno l'accento,
Alla polve e de' topi al dente involo.

Guardo Omero, Platone, Orazio e Dante.
Dell'onor che m'è fatto e del riposo
Invidia avranno piú superbe piante;

Io, se il destin mi ridonasse un'ora
Della mia gioventù, volenteroso
Andrei co' venti ad azzuffarmi ancora.

(Da "Opere", Neri Pozza, Vicenza 1988)