martedì 21 giugno 2016

La solitudine in 10 poesie di 10 poeti italiani del XX secolo

Se nell'Ottocento il malessere causato dalla solitudine trovava conforto in dolci malinconie, nel Novecento l'essere umano solo prova soltanto spiacevoli sensazioni e non riesce a percepire vie di fuga, consolazioni o giustificazioni tali da alleviare il proprio dolore. Un grande poeta quale fu Salvatore Quasimodo riuscì, in soli tre versi, ad esprimere perfettamente la condizione esistenziale dell'uomo moderno, affetto da una solitudine cronica causata dal tipo di società in cui è costretto a vivere, dominata dal capitalismo: Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera. E che dire del primo secolo del secondo millennio? Ai posteri l'ardua sentenza.




SOLITUDINE
di Attilio Bertolucci (1911-2000)

Io sono solo
Il fiume è grande e canta
Chi c’è di là?
Pesto gramigne bruciacchiate.

Tutte le ore sono uguali
Per chi cammina
Senza perché
Presso l’acqua che canta.

Non una barca
Solca i flutti grigi
Che come giganti placati
Passano davanti ai miei occhi
Cantando.

Nessuno.

(Da "Sirio", Minardi, Parma 1929)





MEDITAZIONE
di Gustavo Botta (1880-1948)

Ahi!, cieca solitudine terrena!
Ciascun vi è solo con il suo dolore
sempiterno ed alcuna gioia effimera.
Anche il poeta: armonioso spirito
che, sperso tra le genti mute, parla
e in questa cupa notte accende stelle.

(Da "Alcuni scritti", Ariel, Milano 1952)





CONDIZIONE
di Giorgio Caproni (1912-1990)

Un uomo solo,
chiuso nella sua stanza.
Con tutte le sue ragioni
tutti i suoi torti.
Solo in una stanza vuota,
A parlare. Ai morti.

(Da "Poesie 1932-1986", Garzanti, Milano 1989)





SOLITUDINE
di Alfonso Gatto (1909-1976)

Sogno di fioca riva: cielo sorto
dal trapelato amore dell'estreme
solitudini chiuse in uno smorto
lume tranquillo. Ed il silenzio teme

di muover foglie, in alito persuaso
nel declivio già molle del profondo.
Ora s'adagia nell'oblio, nel caso
d'una felicità remota, il mondo.

Dimenticato mi rivela il vento:
addormentato sul mio corpo stretto,
penetro in rami di freschezza il lento
approssimarsi rigido del petto.

Tutta la terra è nel presagio attento
del mio silenzio, in un idillio puro:
sogno di morte estatica, convento
di selve trattenute lungo il muro.

(Da "Poesie 1929-1941", Mondadori, Milano 1961)





ASPETTI DELLA SOLITUDINE
di Aleardo Kutufà d'Atene (?-?)

Persiane chiuse
vicoletti morti,
chiostri deserti
giardini addormentati,
pianoforti
strimpellati
da mani di fanciulle
malate di clorosi,
mattini inerti,
meriggi silenziosi;
nel tempo d'estate
pallide tende alzate
su le facciate infrante;
qualche raro passante;
sui palagi e su le chiese
zone accese
di luce di vario colore,
zone violacee d'ombra,
vapore
saliente
che il dileguar de l'ore
sposta lentamente.
Languore
provinciale
dell'aria dolente,
quiete domenicale
delle vie silenziose!
Quanta dolce mestizia
esalano le cose!
Spiar l'ombre dell'ore
su le meridiane,
ascoltar le maliose
elegie delle campane,
veder salire in cielo
nuvole lontane
e vederle vanire
tra amori di silenzio!
Sentirsi
come in esilio,
nel lentissimo giorno!
Guardarsi d'intorno
per essere più solo.
E sentirsi nel duolo
perire
di languore
rimpiangendo l'amore,
la giovinezza, la fede,
tutto ciò che fu invano
e che la vita
ha distrutto.

(Dall'antologia "L'Adunata della poesia", Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929)





 L'UOMO COL CANE
di Francesco Pastonchi (1874-1953)

Ogni sera, quando rincaso,
lo incontro. È un signore
molto lindo,
in perpetuo lutto,
solo, con un cane
color tamarindo sbiadito.
Ha un viso distrutto,
indefinibile, sliso,
vuotato di sguardo,
con un immoto sorriso,
come domandasse scusa
all'aria
d'ingombrarla con la sua persona,
delusa.
Non fosse così persuaso
di essere nulla,
si direbbe ch'è un servitore
di riguardo
che meni ai quieti divaghi
il cane della vecchia padrona.
Ma lui non è che il suo cane.
Non è nemmeno più stanco:
questa vita bella
non può fargli più male.
È il cane che lo fa camminare,
lo tira con la cordicella,
un poco di fianco,
dall'orlo del marciapiede,
come si tira da riva
una zattera lungo un canale.
Lui non guarda, non vede:
vive come niente viva
al di là del suo cane
color tamarindo sbiadito.
Gli occhi non c'è caso che li alzi:
passi lieve una fanciulla
bellissima in un nimbo d'odore,
o passi fragoroso un traino,
sempre li tiene bassi:
come uno che appena s'appaghi
a le briciole del convito.
Per lui non c'è più cose nuove.
Curvo, come sotto uno zaino,
muove le sue gambe flosce:
i suoi piedi paiono scalzi
come i piedi dei morti
che non fanno rumore.
Ho chiesto a tutti i vicini:
nessuno lo conosce.
Certo è di un altro quartiere,
e vien qui a passeggiare
questa via solitaria
tutta villette e giardini
pieni di uccelli.
C'è tanto riposo
dalla città furibonda,
e il cane ha tanti cancelli
da odorare.
Vorrei fermarlo, e non oso.
Un giorno, che mi son mosso
risoluto a sapere
chi fosse, è svanito
(ma dove? ma dove?).
Vorrei parlargli, e non posso.
Ho terrore che sia...
ho terrore che mi risponda
con la voce mia.

(Da "I versetti", Mondadori, Milano 1931)





LAVORARE STANCA
di Cesare Pavese (1908-1950)

Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest'uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.

                     Ci sono d'estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest'uomo, che giunge
per un viale d'inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c'è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.

Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s'incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c'è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest'uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.

 (Da "Lavorare stanca", Einaudi, Torino 1943)





SOLITUDINI
di Salvatore Quasimodo (1901-1968)

Una sera nebbia, vento,
mi pensai solo: io e il buio.

Né donne, e quella
che sola poteva donarmi
senza prendere che altro silenzio,
era già senza viso
come ogni cosa ch'è morta
e non si può ricomporre.

Lontana la casa, ogni casa
che ha lumi di veglia
e spole che picchiano all’alba
quadrelli di rozzi tinelli.

Da allora
ascolto canzoni di ultima volta.
Qualcuno è tornato, è partito distratto
lasciandomi occhi di bimbi stranieri,
alberi morti su prode di strade
che non m’è dato d’amare.

(Da "Acque e terre", Ediz. di «Solaria», Firenze 1930)


  


LAOCOONTE
di Giorgio Vigolo (1894-1983)

La peggio solitudine dipende
da un amore smodato di sé.
Sei così solo perché dentro sempre
un amico geloso hai che non vuole
vicino altro compagno,
ma esserti, lui solo, il solo amico,
ed è questa metà non divisibile
che in mille divieti ci lega.

La sua furente gelosia ci addensa
una nuvola intorno
di paure, di ambasce
appena un'altra compagnia ci attira.
Subito lui si sente
tradito, come serpe
ci stringe intorno al collo la sua spira.

(Da "I fantasmi di pietra", Mondadori, Milano 1977)





AMARA SOLITUDINE
di Giuseppe Villaroel (1889-1968)

Amara solitudine, la vita
trascorre inutilmente. E questa folla
mi trascina per le vecchie strade.
Così sospinge a galla il mare un naufrago.
Anche tu sei scomparso, amore. E il tempo
cancellò la tua bocca e il tuo sorriso.
Arido cuore senza pace. E pure,
se dal giardino della villa antica,
ove sostammo nelle notti estive
smemorati dai baci e dalle lacrime,
si leva il vento e porta la tua voce
tra le foglie e i ricami della luna,
il sangue mi si scioglie; e il canto fermo
dei grilli a valle e il sonno dei cipressi
oh, come tristi tornano al pensiero!
Nebbia che scende lenta alle pianure
quando arriva l'autunno e il sole è spento.


(Da "Quasi vento d'aprile", Mondadori, Milano 1956)




Edvard Munch, "Despair"

mercoledì 15 giugno 2016

La solitudine in 10 poesie di 10 poeti italiani del XIX secolo

La solitudine, rispetto alla misantropia, è un sentimento più dolente; se il misantropo va alla ricerca della solitudine perché infastidito dall'umanità, il solo o solitario si ritrova in tale condizione senza volerlo: perché respinto, per qualche motivo, da tutti, oppure perché incapace di trovare almeno una persona che possa soddisfare le sue esigenze, con cui possa trovare un minimo di accordo e di complicità. Da qui nasce il dolore dell'uomo e della donna che si sentono soli; ma questo tormento a volte si stempera in dolce malinconia o in compiaciuto vittimismo. Ecco allora dieci poesie di dieci poeti italiani, scritte e pubblicate durante il XIX secolo (fa eccezione quella del Camerana, che comunque porta la data del 1885), in cui vengono esternati questi sentimenti di sofferenza; a volte essi sono autobiografici, a volte no, ma comunque ritengo che tutti quelli riportati di seguito siano dei versi di buon valore, degni di essere letti e riletti da anime sensibili, come certo saranno tutte quelle che si soffermeranno su questo post.




SOLITUDINE
di Bruna (pseud. di Laura Clementina Maiocchi, 1866-1945)

Ho pianto molto; ora una pace blanda,
quasi mortale, scende sul mio core.
Parmi di camminare in una landa
vasta, silenzïosa, senza un fiore.

Ma dove, dove, vado? che mai spero
così sola e dolente ne l'intenso
silenzio? Nulla so del gran mistero
che mi circonda, ed altro più non penso.

Il mio pensiero, ch'è dolore, tace;
pietoso tace perchè molto ho pianto:
io vo, come dormendo, in questa pace.
Ed è il mio core un ermo campo santo.

(Da "In solitudine", Cappelli, Rocca S. Casciano, 1898)





LA NERA SOLITUDINE
di Giovanni Camerana (1845-1905)

La nera solitudine alla nera
solitudine;- il sogno alto al profondo
pensier;- la sera che è triste, alla sera
che piange; - al mondo infranto, il bieco mondo.

(Da "Versi", Streglio, Torino 1907)





LA BUONA VOCE
di Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

Sei solo. D'altro più non ti sovviene.
E d'altro più non ti sovvenga mai!
Sul tuo cuore fluisca l'oblìo lene.

Ti sien dolci questi umili sentieri.
Ancóra qualche rosa è ne' rosai.
Sarà domani quel che non fu ieri.

Domani prenderà novo coraggio
e nova forza l'anima che teme.
A la prima rugiada, al primo raggio
non s'alza l'erba che il tuo piede preme?

(Da "Poema paradisiaco", Treves, Milano 1893)





LA VITA SOLITARIA
di Giacomo Leopardi (1798-1837)

La mattutina pioggia, allor che l'ale
Battendo esulta nella chiusa stanza
La gallinella, ed al balcon s'affaccia
L'abitator de' campi, e il Sol che nasce
I suoi tremuli rai fra le cadenti
Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli susurro, e l'aura fresca,
E le ridenti piagge benedico:
Poiché voi, cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi assai, là dove segue
Odio al dolor compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
Benché scarsa pietà pur mi dimostra
Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
Verso me più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gli affanni, alla reina
Felicità servi, o natura. In cielo,
In terra amico agl'infelici alcuno
  E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m'assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d'un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, né batter penna augello in ramo,
Né farfalla ronzar, né voce o moto
Da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, né spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
  Co' silenzi del loco si confonda.
Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
Anzi rovente. Con sua fredda mano
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s'apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desio
Balza nel petto; e già s'accinge all'opra
Di questa vita come a danza o gioco
Il misero mortal. Ma non sì tosto,
Amor, di te m'accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
Non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora o quando al sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga donzelletta il viso;
O qualor nella placida quiete
D'estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L'erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all'opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L'arguto canto; a palpitar si move
Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano
  Ogni moto soave al petto mio.
O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L'orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia; salve, o benigna
Delle notti reina. Infesto scende
Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
A deserti edifici, in su l'acciaro
Del pallido ladron ch'a teso orecchio
Il fragor delle rote e de' cavalli
Da lungi osserva o il calpestio de' piedi
Su la tacita via; poscia improvviso
Col suon dell'armi e con la rauca voce
E col funereo ceffo il core agghiaccia
Al passegger, cui semivivo e nudo
Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco
Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
Va radendo le mura e la secreta
Ombra seguendo, e resta, e si spaura
Delle ardenti lucerne e degli aperti
Balconi. Infesto alle malvage menti,
A me sempre benigno il tuo cospetto
Sarà per queste piagge, ove non altro
Che lieti colli e spaziosi campi
M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,
Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli abitati lochi,
Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch'io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell'etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe' boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l'erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m'avanza.

(Da "Canti", Le Monnier, Firenze 1860)





NEBBIE
di Ada Negri (1870-1944)

Soffro. — Lontan lontano
Le nebbie sonnolente
Salgono dal tacente
              Piano.

Alto gracchiando, i corvi,
Fidati all'ali nere,
Traversan le brughiere
              Torvi.

Dell'aere ai morsi crudi
Gli addolorati tronchi
Offron, pregando, i bronchi
              Nudi.

Come ho freddo! Son sola;
Pel grigio ciel sospinto
Un gemito d'estinto
              Vola;

E mi ripete: Vieni,
È buia la vallata.
O triste, o disamata.
              Vieni!...

(Da "Fatalità", Treves, Milano 1892)





AL FUOCO
di Giovanni Pascoli (1855-1912)

Dorme il vecchio avanti i ciocchi.
Sogna un nuvolo di bimbi,
che cinguetta. Il ceppo al foco
            russa roco.


Dorme anch’esso. A tutti i nocchi
sogna grappoli e corimbi.
Rosei pendono nell’aria
            solitaria.

Bianchi i bimbi tra il fogliame,
su su, a quel roseo sorriso
vanno. Il ceppo occhi di brace
            apre, e tace.

Ecco pendulo lo sciame
dal grande albero improvviso,
su su. Il vecchio nel cor teme,
            guarda e geme.

Ogni bimbo al suo fiore alza
la mano e... scivola e va.
Sbarra il ceppo la pupilla:
            crocchia e brilla.

E il vegliardo, al crocchiar, balza
nella rotta oscurità.
Gira lento gli occhi. Solo!
            solo! solo!

(Da "Myricae", Giusti, Livorno 1894)





ISOLAMENTO
di Giovanni Prati (1815-1884)

Amo il fiore se, germina soletto,
Più che se adorna di mill'altri il suolo;
Amo il ruscello, che per picciol letto
Passa ne'campi, e l'uccellin che il volo

Muta per poche fronde, e fuor del petto,
Versa cantando qualche antico duolo;
Ed amo l'astro che nell'aer schietto
Senz'altra compagnia brilla nel polo.

Amo la nuvoletta, che si tinge
d'una languida porpora, e non posa
Per l'ignoto desio che la sospinge;

Mi prende amor d'ogni isolata cosa,
Perché l'anima mia vi si dipinge
Isolata in eterno e dolorosa.

(Da "Memorie e lacrime", Marietti, Torino 1844)





IL TRENO HA FISCHIATO...
di Giacinto Ricci Signorini (1861-1893)

Il treno ha fischiato: fremendo
Sotto l'ampia sonora tettoia
S'arresta; di un balzo discendo,
E mi canta nel cuore la gioia.

Veloce mi volgo all'uscita,
Guardo: dietro i cancelli lucenti
Mi aspetti con ansia infinita,
E mi accenni dagli occhi ridenti.

Così m'era dolce l'arrivo
Nel passato: nessuno ora viene
Che mi attenda all'uscita giulivo,
Che mi baci e mi dica: Stai bene?

Cammino tra il chiasso a rilento,
Ma non odo il tuo riso giocondo:
Ho voglia di pianger: mi sento
Tanto solo e perduto nel mondo.

(Da "Thanatos", Società coop. per l'arte tipografica, Cesena 1892)





OH PICCOLO UCCELLO DAGLI OCCHI NERI...
di Igino Ugo Tarchetti (1839-1869)

Oh piccolo uccello dagli occhi neri; tu vai accarezzando colle ali le onde dell’Oceano, e canti lietamente la tua canzone nella solitudine. Entrambi siamo soli ed abbandonati in questo deserto; una profonda quiete domina sulla natura, ma questo silenzio non influisce sul mio cuore. Esso batte assai forte, o piccolo uccello dagli occhi neri.

Io vengo quivi a versare le mie lagrime , e a nascondere agli uomini il rossore della mia debolezza. - Amare senza essere amato, - desideri inesauditi - sogni vani e impotenti, e giovinezza senza speranze. Io canto i fiori recisi dalla mia primavera, e tu canti lietamente la tua canzone, o piccolo uccello dagli occhi neri.

Vorrei che una barca sul mare, e la mia fanciulla tra le braccia, e un ultimo addio alla mia terra natale. Forse, ed allora mi sembrerebbe meno desolata la vita. Ma ohimè! nessun conforto io posso attendermi dagli uomini, se i miei lamenti non valgono pure ad interrompere la tua canzone, o piccolo uccello dagli occhi neri.

Sí canta lietamente, o piccolo uccello, uccello felice delle montagne. Io vorrei teco dividere il mio destino. Vorrei io pure avere le ali, per vivere lontano dalla terra, e la tua incostanza per non amare, e la brevità della tua vita per piangere di meno. Ma addio, tu mi hai fatto sentire la tua canzone sopra la riva del mare, e una grande tempesta hai suscitata nel mio cuore, o piccolo uccello dagli occhi neri.

(Da "Disjecta", Zanichelli, Bologna 1879)





SPLEEN
di Remigio Zena (pseud. di Gaspare Invrea, 1850-1917)

Vibra, o sol della poesia,
Vibra un raggio d'armonia
Sulla negra anima mia.

Della noia tra le lotte
La caligine m'inghiotte
D'un'opaca mezzanotte.

Nel chiarore vacillante
Della lampa agonizzante
Son qui solo brancolante

E alla Musa mia sorella
Chiedo invan la strofa bella,
Ma la Musa si ribella,

Non discende a darmi aiuto,
La sua man sdegna il lïuto,
E il suo labbro resta muto.

Altra musica non sento
Che la musica del vento
In risposta al mio lamento.

Privi che l'ultimo sbadiglio
Mandi il lume, in questo esiglio
Entra tu, sole vermiglio.

Vibra un raggio d'armonia,
Santo sol della poesia,
Sulla negra anima mia.


(Da "Poesie grigie", Tip. del r. I. de' sordo-muti, Genova 1880)



William-Adolphe Bouguereau, "Seule au monde"

sabato 4 giugno 2016

Poeti dimenticati: Massimo Spiritini

Nacque a Zevio nel 1879 e morì a Verona nel 1963. Abbandonati gli studi in Lettere all'Università di Padova, si trasferì in Olanda dove cominciò a lavorare come insegnante. Tornato, dopo nove anni, in Italia, si sposò e ottenne un impiego (sempre come insegnante) ad Ascoli. Dopo la Grande Guerra, a cui partecipò, Spiritini tornò a professare l'insegnamento a Padova, a Marsiglia e quindi a Verona. Si interessò soprattutto di poesia straniera e pubblicò molte traduzioni e antologie. Come poeta iniziò nel solco della tradizione classica per poi avvicinarsi al genere epigrammatico. Recentemente è stato pubblicato un volume ("Versi", QuiEdit, Verona 2010) che contiene una scelta antologica delle sue liriche.



Opere poetiche

"In Olanda", Aldo Manuzio, Verona 1904.
"La veglia delle armi", Streglio, Torino 1907.
"Le Perle della Corona", Carabba, Lanciano 1931.
"Le Invocazioni", Carabba, Lanciano 1935.
"Zodiaco", Mondadori, Verona 1938.
"Poesie proibite", Ausonia, Siena 1948.
"Le Offerte", Dante, Verona 1950.
"Le Grazie", Gastaldi, Milano 1952.
"Et ultra", Vita Veronese, Verona 1958.






Presenze in antologie

"Poeti delle Venezie", a cura di Federico Binaghi e Guido Marta, Zanetti, Venezia 1926 (pp. 246-249).
"L'Adunata della poesia", 2° edizione, a cura di Arnolfo Santelli, Editoriale Italiana Contemporanea, Arezzo 1929 (pp. 503-504).
"Antologia della lirica italiana. Ottocento e Novecento", nuova edizione, a cura di Carlo Culcasi, Garzanti, Milano 1947 (p. 351).




Testi

QUANDO IL TEDIO MI AFFERRA...

Quando il tedio mi afferra e ne la gola
mi strozza una bestemmia velenosa,
hai ben ragione allor d'esser gelosa
ché nel mio cor non domini più sola.

Gialla e fredda nel manto sepolcrale
viene al mio amor la morte, tua rivale.
E... vorrei proprio nel lastrico giù
tuffar la testa e non muovermi più.

(Da "In Olanda")